La riscoperta di Saverio Strati (1924 – 2014) passa anche attraverso la ristampa delle sue opere che l’editore calabrese Rubbettino sta curando oggi, come nel caso di Il selvaggio di Santa Venere, uscito a vent’anni di distanza da La teda (1957) considerata da molti il suo capolavoro, anche se fu proprio Il selvaggio di Santa Venere, edito allora da Mondadori, a vincere il Campiello 1977. Un lungo racconto di iniziazione della voce di mezzo, Leo, figlio di don Mico e padre a sua volta di Dominic, che interagisce con queste altre due voci in un alternarsi di punti di vista senza apparente soluzione di continuità. Perché Leo racchiude in sé una parte del ruolo di padre-padrone ma nel contempo assume anche quella del figlio che sfida quell’autorità paterna. È il punto di passaggio che permette alla storia di arrivare all’oggi, senza mai banalizzazioni o tentativi di caricare di segni completamente positivi o radicalmente negativi uno o l’altro personaggio. Ognuno porta la propria croce in una Calabria in cui la grande guerra, la malavita storica, il fascismo e poi il secondo conflitto mondiale non sono i soli eventi, e se lo sono, rappresentano una macrostoria che in realtà paradossalmente è l’increspatura al vento di superficie del proverbiale mare apparentemente immune dal movimento. In realtà Strati riesce a impedire che i due aspetti della realtà entrino in conflitto, riuscendo a offrire, in una sapiente strategia narrativa anti-deterministica, il senso di una continua, non meccanicistica, interazione tra l’elemento umano e gli eventi storici.
L’autore poteva cedere alla fascinazione della narrazione del plot tragico, del disastro che per un altro scrittore poteva divenire immancabile nella vita di nonno Mico, in trincea durante la prima grande guerra, e che però torna a casa, anche se con una mutilazione che gli varrà, prosasticamente, una pensioncina di invalidità, in grado di farlo passare da non abbiente, destinato a lavoretti qui e là e a una servitù effettiva anche se non dichiarata, a piccolo proprietario. Poteva adottare il registro assai antico della morte per acqua nei confronti del vero protagonista narrativo, Leo, che invece, anche lui, torna a casa dopo essere stato spedito a combattere contro quei Greci a fianco dei quali invece sceglie di resistere alle armate naziste, e poteva ascoltare il canto delle sirene della tentazione manichea, facendo del giovane Dominic l’uomo nuovo, che si allontana dalla propria terra diventando in compenso un grande scrittore, un intellettuale di rilievo, o un industriale di quelli con gli attributi, pur nel rimpianto della patria perduta. Ed invece niente di tutto questo, perché Dominic sceglie di diventare semplicemente un muratore emigrato al nord con una diversa coscienza che potremmo chiamare, se non fosse che qui Strati mantiene uno stretto riserbo narrativo, di classe.
Nulla di manicheo, come si vede, in un romanzo in cui nessuno ha veramente ragione, e nessuno solamente torti: don Mico è un contadino-soldato che viene su dal nulla e dal caso, ma anche dall’ostinazione di sfuggire alla miseria e al servaggio verso i possidenti e quelli della ‘ndrangheta, e vorrebbe che il figlio Leo diventasse altro, e facesse il passo ulteriore – che potremmo chiamare evolutivo – verso la cultura e l’innalzamento sociale. Il più giovane decide, come abbiamo accennato, di sfuggire alla tirannia dei ruoli immobili e di una società condannata, nei paesi, all’immobilità e al rispetto di regole ormai senza senso.
Ma soprattutto, la vera voce narrante, Leo, è l’agnello sacrificato sull’altare della alienazione da un maestro incompetente e mediocre e da compagni che esigono che lui rimanga nel ruolo catartico – per loro – di vittima designata sulla quale scaricare livori, frustrazioni e necessità di mettersi in ruoli condivisi dalla tribù e contrassegnati da una arcaica violenza verso il meno forte. Non è un caso che Leo finisca dalle parti della ‘ndrangheta, assistendo e partecipando non solo a rituali scenografici, ma anche alla violenza contro chi sgarra.
La salvezza sarà rappresentata da quella natura che egli coglie non nella veste di dea agraria, tellus razionalizzata ai fini della condivisione antropica dei suoi frutti, come trent’anni prima nello Jünger delle Scogliere di marmo, ma di sorella seducente nelle sue manifestazioni improvvise di una bellezza non razionalizzabile, che viene dal di dentro e che sfugge ad ogni possibilità di narrazione esplicativa.
La salvezza però sta anche nella riscoperta di quelle, antiche possibilità cancellate dalla violenza di una scuola senza amore e di un paesaggio antropico in cui regna sovrana la miseria del disprezzo per l’appena un po’ diverso sui cui scaricare l’aggressività tribale. La riscoperta della lettura e della scrittura come armi per non sentirsi più soli e senza senso, perché quelle lettere significano che tu puoi mettere in comune i tuoi sentimenti con chi sta al di fuori del clan oppressivo, in modo da venir capito “da tutti coloro che sanno leggere e scrivere”.
Senza salti spettacolari, ma con gli occhi sempre all’altezza dello sguardo attanziale, Il selvaggio di Santa Venere racconta una storia del sud che ha frammenti in comune con tante altre storie narrate da Melville come da Verga, da Pirandello come da Tozzi, da quei suoi personaggi di Con gli occhi chiusi, in cui il tutto o niente della cattiva letteratura lascia il posto alle infinite sfumature di una vita arcaica che può conoscere lo sprofondamento nella violenza ancestrale oppure la salvezza nel coraggio di diventare, non solo predicare, un nuovo uomo, senza luccichii o trionfalismi, dalla parte stessa di una vita che è quella di ciascuno di noi. Semplicemente. E magistralmente; dono di un grande scrittore da non lasciare oscurare dalle mode e dai tic mediatici, che ha avuto il coraggio di scrivere unicamente ciò che sapeva e aveva vissuto di persona.
Saverio Strati, Il selvaggio di Santa Venere, prefazione di Walter Pedullà, Rubbettino, 2020, 290 pagine, 16 euro.
Saverio Strati (Sant’Agata del Bianco 1924 - Scandicci 2014) di famiglia contadina, compì i primi studi da autodidatta iscrivendosi, successivamente, alla facoltà di lettere di Messina dove conobbe Giacomo Debenedetti che lo incoraggiò a scrivere.
Lasciata la Calabria per Firenze, e poi emigrato per diversi anni in Svizzera, dal 1964 si trasferì definitivamente in Toscana, a Scandicci.
Esordì per Mondadori col volume di racconti La marchesina (1956), cui seguirono, per lo stesso editore, molti altri romanzi di successo, tra i quali: La Teda (1957), Tibi e Tàscia (1959), Mani vuote (1960), Il codardo (1970), Noi lazzaroni (1972), Il selvaggio di Santa Venere (1977, Premio Campiello), La conca degli aranci (1986), L’uomo in fondo al pozzo (1989).
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