FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 57
gennaio-aprile 2021

Oasi

 

JORGE ORTEGA, LUCE SOTTO LE PIETRE

di Federica Silvino



Pubblicata in Italia nel 2020, l’ultima raccolta di poesie di Jorge Ortega dal titolo Luce sotto le pietre [Luz bajo las piedras], si rivela una lucida analisi del tempo presente e lascia emergere i disagi di un complesso momento storico che ha reso più fragile l’intera umanità: “Non ci siamo anche se ci siamo. Fluisce all’interno sotto il livello medio del rumore, al di là dell’apparenza, la profonda voragine del respiro. Tutto sembra morto. Tutti andati via. Ogni cosa è sospesa, bloccata in una pausa più vasta del forziere dell’impazienza”.
I versi di questa antologia, perennemente in bilico tra una struggente forma di nostalgia e una desolata contemplazione del presente e di “una dolente calma mai vista”, mostrano come, con notevole capacità di penetrazione critica, il poeta messicano sia in grado di avventurarsi nei meandri di un passato rievocato attraverso un intenso e nostalgico esercizio della memoria.

Le pagine offrono al lettore un itinerarium mentis che si snoda attraverso alcuni momenti della vita dell’autore, sottoposti ad attenta analisi durante questo ultimo anno in cui le nostre vite sono state stravolte sotto il peso della solitudine e delle distanze colmate dalla “pangea incerta del cyberspazio”. Da questa sezione di dieci poesie inedite è tratto il titolo del primo libro italiano dedicato a Jorge Ortega, Luce sotto le pietre, curato da Alessio Brandolini e pubblicato dalla casa editrice Fili d’Aquilone nel 2020. Quest’ultimo lavoro, così profondo e così attuale, è collocato alla fine del volume ed è introdotto da una selezione di testi in versi e in prosa poetica tratti da Devozione della pietra [Devoción por la piedra, 2011] e Guida per stranieri [Guía de forasteros, 2014].

L’autore, nato nel 1972 a Mexicali (Baja California), laureato in Filologia presso la Universidad Autonoma de Barcelona e professore di Letteratura Ispanoamericana presso la Facoltà di Scienze Umane della Universidad Autonoma de Baja California, ha pubblicato numerose raccolte di poesie e libri di saggistica come Litoral de prosa (2001), Mudar de casa (2001), Baladas para combatir la inanición (2002), Ajedrez de polvo (2003), Tríptico arbitrario (2005). Inoltre, nel 2000 e poi nel 2004, ha ottenuto il Premio Estatal de Literatura de Baja California, il Premio Nacional de Poesía Tijuana (2001) ed è stato finalista del Premio de Poesía Hiperión presentando i versi della raccolta Estado del tiempo (Madrid, 2005, Ediciones Hiperión).

Ciascuna sezione dell’antologia italiana mostra come, attraverso la riflessione offerta dalla poesia, sia possibile recuperare ciò che sembrava perduto, rievocarne l’immagine e dare un senso al passato e al presente, attribuendo alle cose un valore differente, in grado di rivelare la fugacità della vita (Mi ricopre la polpa/ di quello che ero/ o sono stato”). La poesia, che in fondo è “l’interpretazione dell’interpretazione dell’interpretazione”, diviene così un pretesto per allontanarsi dalla realtà, per sognare (“Così raggiungi per l’ennesima volta il gomitolo del sogno”), per annullare ogni tormento: “Soluzione:/ mollare il pensiero per un istante”. Ogni testo ha la capacità di accompagnare il lettore in questo affascinante viaggio attraverso i ricordi di un bambino, di un adolescente, di un uomo che si arresta, inizia a ripercorrere la propria vita (“Divisi dal recinto dei sogni, ognuno di noi si è congedato da qualcuno, ritorna a sé stesso o va a confessarsi coi fantasmi della coscienza”), accoglie i ricordi come piccoli abbagli, epifanie, e si lascia pervadere dalla nostalgia e dai richiami della memoria: “Il passato s’infiltra nell’umidità,/ inizia a disperdersi/ sotto l’immobile cera della pelle”. La memoria, infatti, percorre lentamente tempi e spazi differenti, ma alla fine conduce sempre a un nucleo fatto di dolore e dolcezza, in cui il ricordo della giovinezza, delle speranze che essa portava con sé e della quiete che “scioglieva le voci sistemando sui bordi la sua delicata pellicola”, sembrano restituire una parvenza di autenticità che per un brevissimo istante è in grado di scaldare il cuore.

Nei versi di Frequenza modulata è fortissima la delusione originata dalla difformità tra le immagini di un felice vissuto (“Un tunnel di reminiscenze ti riporta di nuovo a casa”) e la critica coscienza della realtà, ogni ricordo colpisce, travolge e poi si dissolve, lasciandoci inermi e confusi in questo freddo e indifferente presente: “L’idra dei sogni dimenticati/ torna a spuntare dal pozzo di te stesso/ per affondare di nuovo nel drenaggio/ delle tue vecchie arterie”. Versi dal ritmo avvolgente che riesce ad attraversare tempi e temi differenti che si incontrano, si scontrano e si fondono, spaziando dagli aspetti più familiari della vita quotidiana ai profondi abissi del passato. L’infanzia e la giovinezza fuggono via e ciascuno di noi scivola irrimediabilmente verso l’oscurità, le sofferenze, gli ostacoli della vita: “L’oblio allunga le sue estremità, trabocca nelle sue arborescenze, inizia a versare i suoi primi frutti di abbandono senza che nessuno se ne accorga.” Nella poesia Glossa sul diluvio, tutto riconduce ai limiti della condizione umana, alla caducità dell’io presente, il poeta rifiuta gli inganni e le speranze illusorie dell’esistenza mentre rivolge lo sguardo addolorato a un passato ormai perduto: “solo la pioggia persiste identica al passato./ Solo la pioggia rimarrà o sarà/ l’ultima cosa a fermarsi”.

Voce vivida e intensa del presente sentire, la poesia di Jorge Ortega è anche molto fragile, perché esprime tutte le emozioni avvertite nei momenti di solitudine, quando si è indifesi e ci si ferma ad osservare il laborioso affaccendarsi dell’umanità, chiedendosi come sia possibile che nessuno si accorga della sterilità di questo instancabile movimento verso il nulla. Allora “una crepa di luce sbriciola il sogno” e non rimane che accettare la propria marginalità nell’asettico presente, allontanandosi da questo mondo riempito oltre misura, appesantito, caotico: “Così, non appena apriamo la porta della stanza, sovraccarichi di mondo, ci abbaglia il vespaio della calma, la solitudine che s’infrange come l’alba.”




POESIE DI JORGE ORTEGA
da Luce sotto le pietre
Edizioni Fili d’Aquilone
, 2020
(a cura di Alessio Brandolini)


ANNO ZERO

Lo ricordo ancora. Il campo di basket come un’immensa tavola di agata sotto i nostri piedi. Il mezzodì senza zavorra, col suo esplosivo girasole in bilico. E, sullo sfondo, il padiglione delle aule della scuola elementare. Era finita la ricreazione e la quiete scioglieva le voci sistemando sui bordi la sua delicata pellicola. Era venerdì. Iniziava la Pasqua. E ci bastava così poco. Una palla, il sapore di un panino al salame dopo un lungo esame, la brina sull’era, la granita alle prugne, il fine settimana che si spalancava davanti a noi come la scogliera all’uccello, lievitando la sua vertigine di nuove emozioni. Rudi è ancora lì, condannato a scaraventare eternamente la palla dietro il taciturno vetro della reminiscenza. L’immagine si mantiene intatta ma aumenta lo scintillio. So che ci sarà un momento in cui la sua intensità avrà fine per accecarmi del tutto. So che arriverà quel momento.


DIAPOSITIVA IX

Un tunnel di reminiscenze ti riporta di nuovo a casa. Verme color porpora.
Al tuo fianco spengono il freddo le navi bruciate del crepuscolo.
Lo scheletro ribolle col fosforo di una felicità che enumera le venature dei tuoi muscoli come un bisturi effervescente.
Che ne sarebbe di te senza la coscienza di quella casa, di quella trincea che inghiotte la brace delle ore per spargere ai tuoi piedi la replica del fuoco?
Una sagoma sul bordo, la rosellina d’un bacio. Offerte sacrificali sull’altare della tua logorata presenza.
Ed è così che ti consumi.
Così raggiungi per l’ennesima volta il gomitolo del sogno, confidando nei tuoi valichi.


DIAPOSITIVA X

Muoiono tuoi frammenti nella dimenticanza degli altri

così come si spengono una ad una le finestre del quartiere nelle braci del giorno.

Triste è l’albero solitario cresciuto al centro della spianata

ma ancor più la sua graduale dissoluzione nel pomeriggio che perde chiarezza.

Oh cecità, quando la luce ci abbatte all’indietro come un vento di polline

o l’odio ci blocca il passo con la sua imboscata d’ombra cubica.

Nasci all’oblio di qualcuno e te ne vai a pezzi, cancellato dalla felicità o dalla delusione.

Mentre qui sorge l’alba, lì comincia appena la notte di ieri.

Mentre questa metà che abiti si fa buia, quella è un campo di girasoli.

Addio ai pascoli allagati di bianchi e gialli bagliori.

Addio al fuoco che affondava silenziosamente il braciere delle nostre veglie.

Fin dove siamo arrivati, confraternita di pochi, truffando l’impolverata dote dei nostri giuramenti.

Non ci sono due porte d’ingresso sulla facciata. Le parti della storia son ben posizionate. Chi avrà l’ultima parola? Chi la dice o chi sta zitto, chi la pronuncia o la ascolta?

Ore versate sul tavolo come inattese libazioni al calore della penombra. Ore come un’uva mutilata sulla soglia di Capodanno, un coagulo di bile.

Nessun dialogo ci restituirà la purezza della crescita.

Qualcosa di duraturo culmina in te. Ma i rapidi disegni della strada ti offrono la continuità nel mistero di coloro che non conosci.


FREQUENZA MODULATA

(Gold, Spandau Ballet)

Una canzone ti segue fino a Madrid
nel corso degli anni. Lo specchio
del bancone ti offre le fattezze
del ragazzo che sei stato nella seconda
metà degli anni ottanta. Chi direbbe
che dopo aver spaccato mari e cieli
e schiacciato la suola sui marciapiedi
la radio di un locale insospettabile
che al mattino non era nei piani
avrebbe trasmesso solo per te
il brano di un’estate mesozoica.
Il frivolo colloquio accanto alla piscina,
l’acqua in controluce, i camerieri
in giacca bianca e Laura, che ti piaceva,
in un tavolo a parte col suo gruppo.
La musica all’interno che rimbomba
per nessuno, il runrun della cadenza
come un modo per farsi coraggio
nella solitudine della gola.
L’idra dei sogni dimenticati
torna a spuntare dal pozzo di te stesso
per affondare di nuovo nel drenaggio
delle tue vecchie arterie. Fluttua languido
nella birra uno schiumoso girasole
che si dissolve con la pubblicità.


CAFFÈ ZURIGO


Ieri la parola faceva da cornice alla conversazione. Era il tratto della nostra prosodia che divorava il muro delle chiacchiere estranee.
Oggi, il silenzio. Noi e gli altri restiamo zitti, come un pesce fuori dal branco, nell’oscuro angolo delle incombenze.
Divisi dal recinto dei sogni, ognuno di noi si è congedato da qualcuno, ritorna a sé stesso o va a confessarsi coi fantasmi della coscienza.
Strano è il passaggio dal chiasso al raccoglimento. Da un ambiente gravido di luminose sonorità ai cubi d’ombra della tregua.
Percorrendo le orbite della giornata, affrettiamo le stagioni della Commedia attraverso un viale di prevedibili sentieri e legami fortuiti.
Dalla piazza all’alcova, dal palco al lavandino, dall’ufficio alla sauna, la sinfonia del rumore s’interrompe gradualmente in un grido di morte.
Non possiamo dire, tuttavia, che ogni cosa è perduta. L’ultima garitta dell’inferno comunica con il pendio del purgatorio. “Giovane, l’uscita è lì in fondo.”
Così, non appena apriamo la porta della stanza, sovraccarichi di mondo, ci abbaglia il vespaio della calma, la solitudine che s’infrange come l’alba.


GLOSSA SUL DILUVIO

In quale ieri, in quali cortili di Cartagine,
cade così questa pioggia?

JORGE LUIS BORGES

Alberi più vecchi delle case che li circondano.
Alberi ghermiti dall’edera.
E la pioggia abbondante che non si sa quando finirà,
cadendo da ieri e stanotte è come se il firmamento avesse
iniziato a sciogliersi.

Là fuori innalzano edifici
gli uomini di questo mondo.

Lungo afflusso di muratori come nell’età delle piramidi o della
torre di Nimrod.
Contorta processione di operai
tra pile di materiale nella cava.
Corte ruminante.

Non ci saranno più quando il paesaggio
recupererà nelle macerie il suo dominio,
la immune e spoglia
topografia dell’origine;

scavano fondamenta, costruiscono uffici, condomini
che nemmeno dovrebbero esserci quando finirà il temporale.

Nulla durerà più dell’acqua che cade dall’alto.
Torneremo all’acqua prima che l’acqua elimini il suo crollo,
prima che l’acqua allaghi la regione. Torneremo all’acqua
prima che l’acqua stessa ci dissolva.

Solo la pioggia persiste identica al passato.
Solo la pioggia rimarrà o sarà
l’ultima cosa a fermarsi.

Torneremo alle voci della semina.
Moriremo in un’altra nascita.

Mai stati così prossimi alla gioia
come quando naufragammo.

Ti giri verso la finestra
e riprendi il tono, trovi sollievo
in ciò che ci redime e corrode
e dovremo sopravvivere per raccontarlo.


LA SIESTA, LA FESSURA

Dal nulla sonoro veniamo e al nulla sonoro procediamo. E nel corso del tempo il nulla sonoro fa esplodere la sua granata di silenziosa combustione, spargendo sull’asfalto i fiocchi di vetro di un impreciso intervallo. Da molto tempo i treni merci hanno salpato dal tuo orecchio, lasciando l’orbita. Là, negli alti strati dell’umore interstellare, devono incrociarsi le fibre dei segni vitali, il filo trasparente da pesca che ci tiene legati alla debole mano della biologia. Ci siamo e non ci siamo. Non ci siamo anche se ci siamo. Fluisce all’interno sotto il livello medio del rumore, al di là dell’apparenza, la profonda voragine del respiro. Tutto sembra morto. Tutti andati via. Ogni cosa è sospesa, bloccata in una pausa più vasta del forziere dell’impazienza. Ancora nessuno è tornato dal rovescio. Nessuno è tornato in sé. Il fischio del sangue non smette ancora di risuonare nelle cannule di questo corpo immobile. È il turno della congiura e l’istante volta pagina, la difficoltà di piegare l’angolo senza essere notati e delineare la fuga da sé. Le pareti si infiammano e gli astri si allineano prima che il viale si inondi di pedoni, prima che la folla sorga dal sepolcro, come il risorto di Betania, per salire sulla metro e spaventare gli increduli. Non ci sarà nessuno a raccontarlo. Nessuno testimonierà sull’incantesimo. Nella limpida lapide dell’aria, il freddo scalpello del vento non cessa di scolpire l’epitaffio del frastuono e rimuovere sui portali il consunto fazzoletto della tregua.




Jorge Ortega
è nato a Mexicali (Messico) nel 1972 ed è poeta e saggista. Laureatosi in Filologia Ispanica presso l’Università Autonoma di Barcellona è attualmente professore al “Centro de Enseñanza Técnica y Superior” (CETYS Universidad) nella regione della Baja California.
Ha pubblicato libri di poesia e saggistica in Messico, Spagna, Argentina, Stati Uniti e Canada. Tra i suoi ultimi libri di poesia si segnalano: Ajedrez de polvo (Argentina, 2003), Estado del tiempo (Spagna, 2005), Devoción por la piedra (Messico, 2011, seconda edizione 2016, tradotto in francese e pubblicato in Canada nel 2018) e Guía de forasteros (Messico, 2014). Suoi testi poetici sono stati tradotti e pubblicati all’estero e inseriti in antologie. Con articoli di critica letteraria collabora a riviste messicane e straniere. Dal 2007 fa parte del “Sistema Nacional de Creadores de Arte de México”.
Nel 2001 ha ricevuto il Premio Nacional de Poesía Tijuana e nel 2010 il Premio Internacional de Poesía Jaime Sabines.
Nel 2020 è uscita in Italia l’antologia Luce sotto le pietre (poesie 2011 – 2020, a cura di Alessio Brandolini, Edizioni Fili d’Aquilone).

federicasilvino@yahoo.it