FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 57
gennaio-aprile 2021

Oasi

 

IL MIO INCONTRO CON LO SCRITTORE
FERDINANDO CAMON

di Mirta Amanda Barbonetti



Che cosa c’è dietro un grande scrittore? Qual è stato il percorso biografico e letterario che lo ha portato a scrivere dei capolavori? Queste le domande alla base della mia decisione di fare una tesi su Ferdinando Camon, alla fine degli anni Ottanta. Frequentavo il corso di letteratura italiana contemporanea all’Università di Padova, con il prof. Cesare De Michelis e allo stesso De Michelis, devo il mio incontro con lo scrittore padovano.
Il titolo scelto per la tesi fu Ferdinando Camon saggista (1959-1969). Il periodo preso in esame voleva far luce sui primi scritti giovanili dell’autore pressoché sconosciuti, e su come essi avessero in qualche modo influenzato la sua prima produzione narrativa e poetica.
A introduzione di questo saggio, un ampio estratto della mia intervista fatta nel dicembre del 1988 a Ferdinando Camon e rimasta inedita fino ad oggi.



L’INTERVISTA

Ferdinando Camon, nato nel 1935 a San Salvaro d’Urbana, un paese della bassa padana in provincia di Padova, compie studi classici e si laurea in lettere classiche.

Barbonetti: Mi può parlare dei suoi studi? Dove li ha svolti?

Camon: Ho fatto i primi quattro anni delle scuole elementari nel mio paese. La scuola aveva due aule, in ognuna due classi: una per la prima e la seconda, l’altra per la terza e la quarta. Erano anni di guerra e le lezioni si svolgevano in maniera saltuaria. Ho fatto l’ultimo anno delle elementari a Borgo S. Marco, vicino Montagnana, a sei chilometri da casa mia e tutte le mattine raggiungevo la scuola a piedi. Dopo le medie a Montagnana ed il liceo a Legnago, (VR), mi iscrissi all’Università di Padova.

Barbonetti: In quale disciplina si è laureato e quale fu l’argomento della tesi?

Camon: Mi sono laureato in lettere classiche con una tesi in storia greca, che riguardava la nascita e la corruzione della democrazia nel mondo greco, il rapporto fra democrazia e demagogia. Feci la tesi a Padova ma fu pubblicata dall’Università di Roma e in seguito dal professor Enzo V. Marmorale, sulla sua rivista Giornale italiano di filologia. Il professore valutò molto interessanti le nuove interpretazioni della commedia e della storia greca che avevo proposto nella mia tesi. Esiste quindi un Camon, esperto della civiltà greca, nel quale non mi riconosco.

Barbonetti: La nascita di Camon come scrittore è legata a un’esperienza di vita sofferta, ma c’è stato un momento particolare della sua vita alla quale può essere riconducibile?

Camon: La nascita di uno scrittore è un evento che nessuno scrittore sa spiegare. Credo di aver iniziato a scrivere per motivi sepolti nei primi tre o quattro anni della mia vita, anni in cui si depositano inclinazioni, spinte, pulsioni delle quali non siamo coscienti.
Io scrivo perché non sono il primogenito. Non essendo tale non avevo autorità, né potere di compiere interventi pratici. Non dovevo prendere decisioni, ma potevo solo giudicare in silenzio quelle altrui.
In un certo senso imparai da subito a guardare il mondo costruito da altri e rielaborarlo dentro di me a parole.
La preferenza per lo scrivere invece che per l’agire o per il parlare, nasce in me dal bisogno di prendere tempo: non reagisco mai immediatamente, rielaboro lentissimamente le emozioni.
Credo molto in una paginetta del mio romanzo La malattia chiamata uomo, in cui descrivo quello che chiamo “l’effetto spillo”.
Lo definisco come l’accumulo di un deposito di esperienze nella coscienza, che corrisponde all’accumulo di un gas in una mongolfiera. L’elaborazione e l’analisi producono lo stesso effetto di chi punge la mongolfiera con uno spillo. Nessuno può dire che sia bucata ma dopo due tre giorni, sarà sgonfia. L’elaborazione è questo: ho bisogno di prendere tempo e la scrittura me lo consente.

Barbonetti: Tutti i suoi interventi d’esordio sono stati pubblicati?

Camon: Scrivevo già dagli anni dell’Università e prima de Il quinto stato (1970) avevo pubblicato vari scritti.
Prima della tesi, pubblicai TODE e TI, un saggio sui nuclei dell’esistenzialismo nella filosofia greca, quindi sul male dell’esistenza, l’esistenza come colpa e come espiazione, concetto fondamentale in me.
La mia prima opera è stata una raccolta di incontri con i poeti del Novecento: Il mestiere di poeta (1965), seguita da Fuori storia (1967), la prima raccolta di poesie, pubblicate da Neri-Pozza e successivamente La moglie del tiranno (1969), una raccolta di conversazioni con i narratori, preceduta da una sessantina di pagine di saggi critici.
Nel 1970 esce Il quinto stato e molto più tardi Un altare per la madre, che nel manoscritto originario si intitolava Immortalità. Nella scrittura di quel testo mi ero molto nevrotizzato, l’ho riscritto diciannove volte prima di pubblicarlo. La stesura che ne uscì fu la terza.

Barbonetti: Quali sono state le sue letture e gli scrittori che l’hanno particolarmente influenzata?

Camon: Ho sempre letto in modo caotico tutto quello che mi capitava. In campagna, i miei libri erano praticamente la B.U.R. e la B.M.M. Leggevo alla rinfusa quanto trovavo in queste collane. La mia base culturale va dai testi sacri, (Fioretti di San Francesco, Lettere di Santa Caterina, i Vangeli), ai narratori russi che hanno avuto su di me un’influenza fortissima, molto più Dostoevskij di Tolstoj che sento aristocratico e lontano, ai naturalisti francesi Maupassant, La Fontaine, a Goethe.
Non c’è stata una scelta nelle letture. Quando ero al liceo, il dominatore della cultura italiana era Benedetto Croce che raccomandava questi libri alle biblioteche ed io mi rifornivo lì.
Ciò che mi ha lasciato più tracce è stato il naturalismo francese. Dei Naturalisti mi ha sempre urtato il fatto che sentivano il “sotto-uomo”, l’uomo delle periferie e della campagna, come portatore di una tara. Era disturbato perché tarato. Io che vivevo in mezzo a questi uomini dialettali, dai comportamenti iracondi, ubriaconi, miserabili, sentivo la descrizione di Maupassant e degli altri come un oltraggio.
Percepivo che non era un fatto di natura, ma di storia: erano costretti ad esser così, sfruttati in modo tale da non poter essere diversi.
La fase della mia formazione, nel primo periodo del ginnasio, coincise con la sopravvivenza dell’epoca dei conti, dei latifondisti, quindi delle mezzadrie. Mio padre pagava ancora i tributi ad alcune potenti famiglie di Montagnana che secoli prima avevano bonificato quella zona, in seguito a un’epidemia di colera. Da allora per secoli queste potenti famiglie avevano contratto il diritto di ricevere tributi per sempre. Erano delle apposite voci inserite nella cartella delle tasse. La mia memoria risale lì. La mia formazione è di quel periodo ed è legata a quegli eventi.
Dal punto di vista letterario per me è stata molto forte anche l’influenza dei due scrittori sudamericani, Gabriel García Márquez e Julio Cortázar.
Di Marquez, ho sentito molto vicino un libro che si intitolava Nessuno scrive al colonnello.
La descrizione di un paese polveroso, sepolto nell’oblio, in cui non accade mai nulla (nelle prime righe il colonnello attende una lettera che non arriverà mai), corrisponde in pieno all’immagine dei miei paesi; a uniformarli la miseria contadina, la civiltà contadina millenaria con gli stessi riti e le stesse organizzazioni. Sono paesi di civiltà paleocattolica, paleocontadina. Questa civiltà è uguale un po’ dappertutto: dalla campagna veneta a quella sudamericana.
Di Julio Cortázar ho sentito molto vicino Bestiario.
Queste sono le opere che ho letto a più riprese con molta passione, ritrovando in ogni pagina numerose rivelazioni. Mi hanno influenzato sotto aspetti non tanto stilistici quanto tematici. Mi stupiva il fatto che il loro mondo non fosse poi molto diverso dal mio. Mi incuriosiva e mi dava al tempo stesso un’enorme sofferenza perché capivo che l’organizzazione, le strutture della povertà “veneta” dovevano essere molto potenti per essere così estese.
La struttura portante di questi mondi millenari è il cattolicesimo; il fatto di abitare una parte di un’istituzione così potentemente ramificata, mi dava la sensazione che anche questi sperduti villaggi veneti sepolti tra fiume e fiume, senza telefono ed elettricità, fossero parte dello stesso circuito in cui avvenivano i grandi eventi della Storia. E probabilmente è così: il Veneto ha nel cattolicesimo il suo vertice, la sua grandezza.
La presenza di questi scrittori è nelle mie origini: Il quinto stato e La vita eterna. Già in Un altare per la madre credo che la loro presenza sia impercettibile. Si può avvertire la presenza di Dostoevskij in alcuni capitoli di Occidente, ma non più nella produzione successiva.

Barbonetti: “Scrivere a lui da un giornale, è inutile: egli non legge il giornale. Ma si può scrivere per lui: in tal caso c’è ed è concreta la speranza che il messaggio gli venga recapitato o venga comunque utilizzato da chi entra in contatto con lui…”. (Da Ferdinando Camon, Avanti popolo, Milano, Garzanti, 1977, pag. 48). Il quinto stato e La vita eterna erano solamente libri di denuncia sociale o c’era in essi anche una ricerca di comunicazione e di contatto con le genti del mondo contadino?

Camon: Il problema del come scrivere e come arrivare al mondo del quale si scrive, mi si poneva quando scrivevo poesia, perché volevo e speravo che anche il materiale poetico arrivasse agli abitanti dei paesi veneti, ma questo non avvenne e non poteva avvenire.
La poesia raggiungeva solamente una piccola fetta di intellettuali della classe borghese: quindi il “nemico”.
Scrivere del popolo delle campagne rivolgendosi a lui è impossibile. Allora abbandonai le poesie, perché non mi interessava scrivere per gli intellettuali.
Mi rivolsi alla prosa, scrivendo di questa gente a questa gente. L’operazione è riuscita solo in parte: nei paesi delle mie campagne, qualche centinaio di persone lesse i miei libri, ma il risultato fu molto diverso da quello che immaginavo: i lettori veneti si sono irritati e offesi. Ne è testimonianza la lettera del contadino contenuta nel mio libro I miei personaggi mi scrivono (1987). Non avevo previsto una reazione simile, non ero preparato. È stata una lezione.

Barbonetti: Con Il quinto stato e La vita eterna lei ha iniziato il distacco dalle origini. Quanto le è costato? In questo contesto, “ha ucciso suo padre”? Qual è stato il suo rapporto con lui e con il resto della sua famiglia? Come si è evoluto o involuto nel tempo?

Camon: Credo che scrivere sia essenzialmente un rivelarsi a se stesso e agli altri. In quest’operazione non si deve avere nessuna preclusione, come non si può avere quando si va in analisi. È necessario che l’orizzonte analizzato sia totale. Capisco molto l’azione distruttiva di scrittori come Sartre o Simone de Beauvoir. Sartre non aveva preclusioni verso il nonno e la famiglia, Simone non ne aveva verso Sartre. La scrittura deve essere totale perché lo scrittore ha il dovere di esprimere qualcosa che non ha voce. Accade sempre nella vita degli scrittori che si realizzi uno scontro con la famiglia, il paese, la città, la Chiesa, il partito. Questo è inevitabile e perfino benefico.
Nel caso di uno scrittore di origine contadina come me, il distacco e lo scontro con il mondo rurale si realizzano perché scrivere vuol dire entrare in un’altra cultura. Fra la cultura urbana (che scrive) e la cultura contadina (che non scrive) non c’è comunicazione e non ci può essere.
Per uno scrittore di origine contadina il fenomeno non è lo stesso vissuto dagli scrittori di città. È qualcosa di diverso perché il salto è maggiore: il mondo contadino non può accettare di essere descritto: sente ogni descrizione come una caricatura e un oltraggio. Penso sia un atteggiamento coerente. Si tratta di due culture separate in cui una non contiene l’altra, ognuna ha i suoi codici.
Il rapporto con la mia famiglia è segnato da questa contraddizione, dalla conseguente impossibilità a capirsi.
Quando ho pubblicato Un altare per la madre, mio padre è venuto da me con i miei fratelli, un notaio e mi ha diseredato. Riteneva la mia scrittura così oltraggiosa che io con quell’atto ho perso la qualifica di figlio. È stata un’operazione molto dolorosa alla quale non esistevano armi per opporsi culturalmente: dal suo punto di vista aveva ragione.
Mio padre, i familiari, ma anche tutto il paese, sentirono nella mia scrittura una rivelazione delle condizioni di disadattamento, arretratezza, miseria in cui vivevano e non hanno sentito nel mio gesto una denuncia sociale, ma una denuncia personale.

Barbonetti: Come ha vissuto gli anni della guerra? Che tracce ha lasciato?

Camon: Ero bambino, avevo dai cinque ai dieci anni, ma le immagini che ne conservo sono molto nitide. Ricordo di un parente partigiano colpito da una raffica e poi impiccato al Ponte di Bevilacqua. Ricordo i rastrellamenti delle SS quando i partigiani della zona compreso un altro mio parente, fecero saltare i ponti di S. Salvaro, Frassino, Bevilacqua. Ricordo quando vennero a casa nostra per prendere la dinamite. Avevo saputo queste cose prima che accadessero, sicché per alcune settimane fui depositario di segreti tremendi: gli inseguimenti degli aerei caccia tedeschi contro i bombardieri americani, gli aerei che cadevano e i corpi che bruciavano, le rappresaglie, le torture nel castello di Bevilacqua. I ricordi dei primi anni di vita sono indelebili e le immagini si fissano in profondità.
Scrivendo La Vita eterna ho voluto vendicare i partigiani contadini, il loro destino oscuro, senza gloria, uccisi dalle SS. I veri eroi della lotta partigiana sono stati quei disperati, fra i quali i miei parenti che venivano falciati dalle raffiche e subito dopo impiccati senza che nessuno muovesse un dito. Erano loro che facevano la Resistenza perché avevano avuto un figlio ucciso o portato in Germania, che erano entrati nella Resistenza per vendetta, per fare giustizia contro i tedeschi combattendo da soli con armi rudimentali, mal funzionanti. Di costoro non ci saranno mai i nomi in nessun libro di storia. Questo è ingiusto e non si può dire. A loro volevo rendere onore.

Barbonetti: “Ho grande affetto per Sartre, gli ho dedicato La vita eterna”. Il suo libro ricorda nella crudezza del linguaggio, il Sartre de La nausea. Che influenza ha avuto su di Lei?

Camon: Ho molto affetto per lui come ideologo, difensore, scopritore della negritudine e critico della borghesia del Novecento ma non per lui come narratore. Non ho mai incontrato Sartre, benché sia stato colui che per primo ha fatto tradurre i miei romanzi in Francia. Quando è morto sono andato a Parigi a funerali avvenuti a visitare la sua tomba. Io sono credente, lui non lo era.

Barbonetti: In quali anni si è avvicinato alla psicanalisi e sottoposto ad analisi? Come l’ha cambiata quest’esperienza e come è cambiato lo scrittore?

Camon: Ho letto le opere di Freud man mano che uscivano, riga per riga, nota per nota e ne ho recensito ogni volume. La conoscenza a livello teorico è avvenuta così, ma leggere la psicanalisi sui libri non basta a capire cos’è. Mi sono sottoposto ad analisi tra il 1975 ed il 1982. Ho iniziato con il prof. Cesare Musatti, per proseguire poi con uno specialista della mia città. È accaduto che addentrandomi nell’analisi si sia creato in me il bisogno stesso di analisi. Ho proseguito per anni; l’ho descritta così ne La malattia chiamata uomo: “nulla di ciò che è nel libro ci fu nell’analisi reale, ma nulla di ciò che è nel libro ci sarebbe se non ci fosse stata l’analisi reale”.

Barbonetti: Cosa c’è alla base della diversità fra il linguaggio-finzione (dei romanzi), fatto di periodi lunghi e scomposti e il linguaggio-realtà (della saggistica) distaccato e regolare ?

Camon: La lingua de Il quinto stato e La vita eterna, è una lingua franante senza puntelli. Questo perché i ricordi irrompono nella memoria tumultuosamente, non in successione uno dopo l’altro. E quel linguaggio era l’unico per esprimerli tutti: non ordinarli, non distribuirli cronologicamente. Per quel mondo perso, sepolto in millenni di abbandono, in cui la storia è leggenda e la leggenda è storia, non poteva esserci una disposizione storica.
Quanto invece scrivo di saggistica, la devo inserire in una sequenza storica e in una precisa collocazione.

Barbonetti: Nella sua produzione giornalistica e saggistica ricorre spesso il nome di Pier Paolo Pasolini. Cosa ha significato per Lei lo scrittore friulano?

Camon: Ho conosciuto Pasolini, intervistandolo per Il mestiere di poeta e per La moglie del tiranno. La mia era la conoscenza di un giovane molto curioso verso la generazione precedente, che incontrava uno dei suoi massimi esponenti, ma non avrei voluto, non avrei scelto di essere “prefato” da Pasolini. Quando inviai il manoscritto de Il quinto stato a Garzanti, fu sottoposto alla sua attenzione per un parere, perché Pasolini rappresentava l’autore di massima importanza per la casa editrice.
Dopo due settimane, Pasolini inviò direttamente all’editore la prefazione al mio libro dando una risonanza incredibile all’opera di me, esordiente.
La stessa cosa accadde quando stampai un nucleo di poesie nell’Almanacco de Lo Specchio di Mondadori (successivamente pubblicate in Liberare l’animale e in Dal silenzio delle campagne) e Pasolini fece la prefazione. Quando pubblicai il mio primo libro di saggi Letteratura e classi subalterne, Pasolini fu, ancora una volta, il primo a recensirlo nei suoi Scritti corsari.
Fu dunque il primo giudice del mio primo romanzo ancora inedito, delle mie prime poesie ancora inedite, del mio primo scritto di saggistica.
Fu tre volte mio padre, anche se nonostante il reciproco affetto, restò sempre un rapporto molto duro e nervoso.

Barbonetti: Perché Lei si è espresso negativamente riguardo la prefazione di Pasolini al suo primo romanzo?

Camon: Premetto che sono molto grato a Pasolini per l’affettuosità e la passione contenute nella sua prefazione. Anch’io oggi per Garzanti svolgo il compito di controllare manoscritti, ma non citerei mai Dante, Boccaccio, Manzoni, Verga, per parlare dell’opera di un esordiente. Lui lo ha fatto ed è stato molto generoso, molto più di me.
A parte questo, mi rimproverava di descrivere il mondo contadino senza via di salvezza. Non capiva che questo mondo aveva come suo unico sbocco l’estinzione, come infatti è accaduto. Non era possibile pensare a una soluzione diversa, poiché sarebbe stata utopia.
Pasolini stava già pensando alla sua ipotesi delle lucciole, “darei tutta la Montedison per una lucciola”, avrebbe scritto rimpiangendo la scomparsa del mondo contadino; lo poteva pensare perché lui quel mondo non lo aveva né conosciuto, né vissuto.
La sua prefazione al mio libro era molto appassionata, utile, generosa, ma sbagliata. Ha funzionato perché ha fatto girare il mio romanzo nel mondo. Se l’avessi scritta io avrei esaminato la difficoltà di capire il mondo contadino che da secoli veniva ignorato e descritto in modo arcadico e falso. Descrivere in maniera realistica, implicava un’operazione di scontro.

Barbonetti: Che cosa c’è alla base del passaggio dai romanzi corali ai romanzi individuali degli ultimi anni?

Camon: Alla base c’è il passaggio dal mondo della campagna al mondo della città. Il ciclo degli ultimi appartiene al mondo della campagna, la produzione successiva al mondo della città, in cui vivo da 25 anni. C’è pertanto, il passaggio da una coralità indistinta a una comunità di singoli eroi, diversi l’uno dall’altro, ognuno con la sua storia. Lì c’era la massa, qui l’individuo.

Barbonetti: Quanto ha contribuito l’esperienza dell’analisi nel maggiore interesse introspettivo e in una più accurata indagine psicologica dei personaggi dei romanzi successivi a Il ciclo degli ultimi?

Camon: Per Un altare per la madre e Occidente non ha avuto alcuna importanza, per gli altri sì: l’analisi ha messo ordine, rettificato, depurato, sgorgato un filtro intasato. È stato un grande allenamento all’espressione e quindi un importante lavoro sulle parole. L’analista non è altro che un particolare critico, un particolare semiologo e chi va da lui si impratichisce di questa tecnica e ne esce con una diversa padronanza linguistica, un diverso rapporto con la vita. Fino a quel momento mi interessava molto che la lingua fosse “bella”: Il quinto stato e La vita eterna hanno una lingua barocca, sovraccarica, molto ornata. Il passaggio attraverso l’analisi, mi ha portato a preoccuparmi che la lingua fosse “vera”, che contenesse in ogni due righe un concetto, una verità, un’idea.

Barbonetti: “Gli operai figli di operai, sindacalizzati, politicizzati, fanno un discorso economico: il libro non serve a niente perché con le lotte che descrive, si finisce in cassa integrazione; gli operai figli di contadini non rispondono: hanno paura. La paura degli ex-contadini è una forma di blocco psichico da non intendersi come attesa di una danno da subire, ma la paura di un danno già subìto.
Il danno è quello di essere nati contadini, una sorta di peccato originale. Non sanno parlare da operai, e se parlassero lo farebbero da contadini. È proprio questo che non vogliono: parlare da contadini, perché è un parlare che non direbbe più cose giuste.” (Ferdinando Camon, Letteratura e classi subalterne, Venezia, Marsilio, 1974, pag. 174)
Mi spieghi come si è svolto secondo lei il passaggio dal mondo della campagna a quello dell’industria. In che modo l’ex contadino all’interno della fabbrica si porta dietro il danno subìto? Come è stato condizionato da questo blocco psichico?

Camon: Il passaggio dalla campagna alla fabbrica non fu mediato, perché il boom esplose all’improvviso con un enorme spostamento di persone dal Veneto ma anche dal Sud verso il triangolo industriale di Torino, Genova, Milano.
I contadini non venivano preparati psicologicamente ma solo professionalmente, istruiti all’uso delle macchine, delle presse, dei torni. Una volta in grado di farlo, venivano immediatamente sbattuti al lavoro, adattati ai tempi di lavorazione che erano calcolati secondo i bisogni dell’azienda. Il contadino subiva una grossa crisi per la difficoltà di adattamento. Nelle fabbriche c’erano uffici appositi per gestire queste criticità: gli uffici delle relazioni umane, dove lavoravano personaggi di altissimo livello come Paolo Volponi, Ottiero Ottieri e Cesare Musatti. Il loro compito, tuttavia, non era quello di risolvere la crisi dal punto di vista umano o psicologico ma dal punto di vista lavorativo, cioè di far sì che l’operaio riacquistasse la capacità di lavorare. Un’intera generazione si è bruciata in questo logorio, ma il risultato fu enorme: l’Italia costruì una grande forza economica.
I contadini non sono mai stati istruiti per comprendere il mondo della fabbrica. Talvolta il Nord industriale è andato nel mondo contadino ma solo per esperimento.
La Olivetti creò una grande fabbrica nel Sud dove lavorò Ottiero Ottieri che raccontò quest’esperienza nel bellissimo romanzo Donnarumma all’assalto. Lo scrittore si trovava negli uffici psicotecnici di selezione dove un piccolo pool di psicologi ed intellettuali, attraverso prove e colloqui, stabiliva chi era in grado di lavorare e chi no, chi era trasformabile da contadino in operaio, chi aveva le qualità per reggere questa crisi.
Il contadino entrando in fabbrica subiva questi traumi: non lavorava più con le mani, ma con l’aiuto delle macchine, non è più all’aperto ma al chiuso, non è più solo ma in gruppo, non era più libero ma sindacalizzato.
I Veneti sono stati assai poco sindacalizzabili perché non concepivano l’idea di trovarsi un giorno di fronte a una controparte. Il contadino deve rendere conto al tempo, alla tempesta, alla siccità; la controparte per l’operaio è il padrone. Infatti i contadini veneti spesso non hanno accettato di essere inquadrati sindacalmente, sono stati pessimi scioperanti, molto più spesso crumiri. Facevano i doppi turni, andavano nei reparti tossici, erano molto amati dai padroni. Il boom è stato in grandissima parte conseguenza dell’enorme sacrificio delle genti venete o genti simili a loro.
Questo fenomeno può essere visto da due prospettive: la sofferenza di uomini che perdevano se stessi e il loro tempo libero e l’enorme progresso che questo loro sforzo comportava per la nazione in termini di arricchimento, aumento di posti di lavoro, sviluppo del paese fino al miracolo economico.
Ho descritto questo doppio modo di vedere il fenomeno, in un capitoletto iniziale del mio libro Storia di Sirio, Il toro di Falaride.

Barbonetti: In che misura è stato condizionato dal danno subìto, considerato che nei suoi libri non si avverte tanto la paura di un danno subìto, ma piuttosto una volontà di denuncia?

Camon: Mi è sembrato che ancora una volta i contadini veneti pagassero molto ed ottenessero poco. Sono scomparsi così, ottenendo molto poco e restando sempre alla base della piramide sociale.
Il mondo contadino si è dissolto e al suo posto ne è venuto un altro che non è la sua continuazione ma la sua sostituzione.
Il Veneto adesso sta infinitamente meglio di allora, non è più una terra di sofferenza. Lo si deduce dal fatto che l’enorme esodo dal Veneto verso le zone industriali si è fermato ed è cominciato l’arrivo da zone povere e arretrate. Da qui il fenomeno sgradevole per cui il Veneto, terra secolare di emigranti apprezzati per il loro lavoro ma disprezzati per la loro miseria, è diventato una terra di piccoli padroni sprezzanti verso gli immigrati che si ritrovavano in una terra di razzisti.
Ho cercato di spiegare questo fenomeno su giornali come Il Giorno, La Stampa, Panorama e mi capita spesso di ritornare su questa interpretazione: non è un razzismo biologico o ideologico, ma un razzismo che ruota su se stesso. Il Veneto si è arricchito, svolge professioni artigianali, mercantili, autonome, ben retribuite e soffre al contatto con i poveri che arrivano, perché vede in loro il povero che lui è stato. Siano meridionali o nordafricani, lo deprimono perché gli fanno ricordare come era lui.

Barbonetti: Quali sono state le motivazioni che l’hanno portata ad una polemica con la neo-avanguardia?

Camon: Infinite. Non accetto nulla della neoavanguardia. È stato un movimento borghese, prodotto da figli della borghesia di città colta, oziosa, parassitaria, che aveva molto e voleva dare alla propria vita un brivido. Alcuni sono finiti nel Partito Comunista come Sanguineti, altri nell’estrema sinistra come Balestrini, altri ancora nel disinteresse più totale sostenendo che la poesia non dice nulla, che il romanzo è menzogna e la letteratura è gioco; ma non c’è nessuna differenza tra gli uni e gli altri. Hanno adottato il plurilinguismo, la psicanalisi senza sapere cosa fossero e da dove derivassero. Sono nati, si sono sviluppati, hanno ottenuto molto potere e non ci sono più, sono morti. È stato un movimento neo-borghese, aristocratico, che ha suscitato polemiche tra rivista e rivista, cattedra e cattedra, ma il suo rapporto con la vita era zero. Si può fare a meno di parlarne.

Barbonetti: Concorda su quanto scritto dal critico Gian Carlo Ferretti, riguardo a Romanzi della pianura (Ferdinando Camon, Garzanti, 1988), sulla rivista Panorama? “Una rilettura oggi rivela piuttosto un tendenziale seppur sofferto distacco liberatorio da quel mondo - anche autobiografico -…)”.

Camon: No, non condivido quest’interpretazione. Penso che la lettura di questi libri così come sono oggi, leggermente più pacati, con meno sfoggio di avanguardismi, sottigliezze stilistiche dia l’impressione di una maggiore aderenza alla lingua contadina e conseguentemente alla civiltà contadina. Ritengo che oggi sono più autentici di quanto non lo siano stati un quarto di secolo fa. La lingua non è stata capovolta, è stato dosato diversamente il sistema della punteggiatura, che è diventata più frequente, con l’intenzione di dare maggiore verità a frasi che prima, per vezzo letterario, duravano pagine intere.

Barbonetti: Mi parli del suo lavoro di insegnante. Per quanto tempo lo ha svolto? Cosa le ha dato? Perché uno scrittore che si dichiara volutamente isolato ha deciso di esercitare una professione in cui la volontà di comunicazione ed incontro sono condizioni prime?

Camon: Ho insegnato per oltre un ventennio alle scuole magistrali e istituti tecnici e negli ultimi anni ho tenuto un corso al D.A.M.S. di Bologna. Per tre quattro anni fui incaricato dal Ministero di fare l’aggiornatore del personale docente. Giravo le scuole aggiornando i docenti sulla letteratura del Novecento, sull’estetica italiana dopo Benedetto Croce. Tenevo queste conferenze molto frequentemente: dalle 4 alle 5 volte a settimana.
Cosa mi ha dato? Mi ha dato questo: la possibilità di filtrare migliaia di giovani che venivano dalle campagne e volevano studiare. Li ho filtrati nel momento in cui si accostavano all’Università. Li preparavo, li aiutavo a parlare, a scrivere, a entrare nel mondo del lavoro. Tutto questo è stato molto interessante, perché questi giovani sono molto cambiati. Ho avuto la generazione precedente alla contestazione, quella della contestazione e la generazione successiva.
Credo di essermi impegnato nell’aiutarli ad esprimersi. L’espressione è l’arma rivoluzionaria per eccellenza, perché “l’espressione” libera e annulla la “repressione”.

Barbonetti: Può parlarmi della sua attività di critico cinematografico?

Camon: Mi interesso di cinema, religione, politica e cultura quando fanno notizia, entrano nel costume. E allora mi occupo di Pasolini, Buñuel, Olmi e altri, ma gli articoli cinematografici che ho scritto sono stati una cinquantina in tutta la mia vita sino ad oggi. Quando tratto di cinema, in verità lo uso come pretesto per arrivare al costume.

Barbonetti: Dalla giovinezza ad oggi, come ha vissuto la sua matrice cattolica? Com’è mutata?

Camon: Io vengo dal cattolicesimo dei paesi di campagna, molto radicale e integralista. Roma è assai meno cattolica del paese dove sono nato. Il cattolicesimo delle campagne è molto intransigente, con contaminazioni del vecchio feticismo pagano. Sono dei pagani-cristiani, non dei cristiani purificati. Il cattolicesimo è però una gran forza, perché è una terribile minaccia sui potenti, sui sopraffattori, sugli sfruttatori. In campagna vedevo il conte o il barone quando andavano in chiesa, inginocchiarsi per terra e vedevo il prete rimproverarli per come trattavano i loro dipendenti. Mi rendevo conto che la religione funzionava come una potentissima arma di parificazione sociale. Quando mi sono allontanato dalla campagna e sono entrato nella città, ho cominciato a scrivere sui giornali, ho visto che il cattolicesimo è diventato più che una pratica vissuta, una dottrina. È mutato in una teoria, una teologia. Ci sono il socialismo, il comunismo, il liberalismo e il cattolicesimo. Questo tipo di cattolicesimo mi interessa molto meno.

Barbonetti: Il suo volume, Autoritratto di Primo Levi (1987) indica interesse per l’interazione fra mondo cattolico e mondo ebreo? Quest’attenzione è ricollegabile alla sua matrice cattolica?

Camon: Questa domanda si giustifica molto di più con Ebrei e cattolici: le colpe (n.5 della mia collana- rivista “NORD-EST, Garzanti, 1988).
Ho incontrato Primo Levi alcune volte. Quel testo è la fusione delle nostre conversazioni. Ho sempre sentito in lui la vittima di una storia che era anche storia cristiana, cattolica, perché in quanto ebreo, scontava una diversità che era essenzialmente religiosa. Il razzismo di tipo nazista si distingueva da tutti gli altri perché voleva basarsi su motivazioni biologiche. Un ebreo convertitosi al cattolicesimo diventava un cattolico, ma per i nazisti restava un ebreo: su questo delirio i nazisti misero in atto una persecuzione che finora ha rappresentato la più grande colpa della Storia.
Tuttavia non c’è mai stato un buon rapporto fra il cattolico e l’ebreo, perché il primo non ha mai conosciuto, studiato e compreso la dottrina del secondo. Se lei gira per le campagne chiedendo ai contadini chi siano gli ebrei rispondono in modo aberrante, molte volte dicendo che sono coloro che hanno ammazzato Cristo. Nel volumetto Ebrei e cattolici: le colpe, mi interessava far venire alla luce, nel mio nord-est, una serie di incomprensioni della parte cattolica verso la parte ebraica attraverso i secoli.
Il volumetto su Primo Levi rappresenta invece un tentativo da parte mia di comprendere i problemi fondamentali della vita di Levi: come fu catturato, di cosa lo accusavano, perché volevano sopprimerlo, come lui in qualità di vittima di quest’enorme supplizio interpretasse quanto gli era successo. La cultura metropolitana non fa mai queste domande, perché le ritiene superate, mentre in realtà non sono mai state poste. Primo Levi dava al fenomeno di cui è stato vittima per sempre, probabilmente fino al suicidio, ammesso che si sia ucciso, (ricevetti una sua lettera due giorni dopo che era morto, gioiosa, piena di progetti) un’interpretazione, secondo me, errata. Riteneva che l’immensa macchina dello sterminio fosse dipesa dalla volontà di uno solo e non da una responsabilità collettiva, come gli ultimi fatti tedeschi hanno dimostrato.

Barbonetti: Cesare De Michelis nel saggio a Lei dedicato nella rivista Studi Novecenteschi che dirigeva, fa riferimento a dei suoi racconti ed articoli sparsi. In particolare, quali sono i racconti?

Camon: È vero sono usciti dei racconti, sei o sette, ma non ricordo dove e quali siano. Come un aratro quando ha percorso un solco, arrivato alla fine resta carico di terra, così uno scrittore quando ha finito un libro, rimane carico di pagine che non utilizza. Questo materiale può vivere di vita propria, acquisire la forma di racconto, ma non lo porto con me, perché l’opera che farò dopo quella appena conclusa, sarà completamente diversa. Se un giornale, una rivista mi chiede un racconto posso darlo, ma non lo raccolgo. Quei racconti sono importanti, scrivendoli mi ci sono logorato, ma non sono un autore di racconti.
Ci sono articoli che non conservo perché trattengo per me solo le analisi di fondo, gli studi sulla morale, i colpi di sonda nell’evoluzione della società; quando invece applico le mie idee a fatti spiccioli di cronaca, nasce qualcosa che vive sul giornale e lì muore.
Nel mio fondo c’è un’anima cattolica che mi dice che ognuno si salva con le opere. Le opere sono i libri. Devi essere onesto e attento a quel che dici quando parli alla radio, responsabile dell’insegnamento che dai quando parli a trenta alunni, ma tutto ciò muore dopo una giornata, una settimana, un anno. Quel che resta per sempre sono solo le opere.


(Intervista di Mirta Amanda Barbonetti, Padova, 1988).


La bibliografia della mia tesi contiene molti degli articoli di giornale scritti da Ferdinando Camon su La Gazzetta di Parma e Il Gazzettino, alcuni dei quali riguardanti gli incontri con gli scrittori ed i poeti che Camon, rielaborerà poi nei colloqui riportati in Il mestiere di poeta e Il mestiere di scrittore.




GLI SCRITTI DI FORMAZIONE: IL CONFRONTO FRA L’UOMO E LA STORIA

Ferdinando Camon prima di dedicarsi all’attività di poeta e narratore pubblica tra il 1959 ed il 1962 una serie di saggi storici, filosofici e letterari su varie riviste italiane. La critica ha sempre concentrato la sua attenzione sull’attività letteraria e poetica di Camon, come testimonianza di una civiltà contadina destinata a scomparire.
Ho pertanto analizzato la sua prima produzione saggistica, compresa tra il 1959 ed il 1962, con scritti che sono interamente attraversati da quella linea storicistica che proseguirà anche nei suoi primi romanzi. Questi scritti racchiudono il concetto dell’esistenza come colpa e come peccato originale, fondamentali per comprendere la prima fase poetica e narrativa dell’autore.
Ad essi seguiranno nel 1965 e nel 1969 Il mestiere di poeta e La moglie del tiranno, i due volumi di interviste critiche a poeti e narratori del Novecento prima dell’esordio narrativo con Il quinto stato (1970).

TODE e TI

Nel 1959 Camon pubblica sul Giornale italiano di filologia il suo primo saggio TODE e TI dedicato nella prima parte all’individuazione di nuclei di esistenzialismo nella filosofia greca, nella seconda con l’esempio di due personaggi del mito, alla concezione del male dell’esistenza, intesa come colpa ed espiazione. Questo studio gli consentirà di affrontare il rapporto fra l’uomo e la storia. In primis, Camon osserva che il problema dei rapporti essenza/esistenza era stato affrontato da Platone e Aristotele, prima che da Kant e Cartesio. Tode e Ti sono due pronomi greci: il primo significa “questo qui” e definisce tutto ciò che è storico, che vive nel tempo ed è soggetto alle leggi del tempo, che nasce, si sviluppa e muore; il secondo pronome esprime “qualcosa” a livello indefinito, indica tutto ciò che è a-storico che nasce e non muore.
Se Tode significa “questo uomo qui” che ha carne e ossa e occupa uno spazio, Ti corrisponde all’uomo come categoria, l’uomo che non morirà mai.
Riguardo il problema essenza/esistenza Camon scrive: “posso dunque affermare che il problema della realtà dell’essenza e dell’esistenza fu impostato lucidamente già dai filosofi greci, e risolto, in due maniere opposte: nella risoluzione che restringe la realtà al Tode consiste una delle fondamentali premesse da cui è partita, in un passato assai recente la filosofia esistenzialistica”.
Concludendo con quest’affermazione la prima parte della ricerca, l’autore traccia una linea di continuità fra Platone e Aristotele con Cartesio e Kant, lasciando affiorare una visione della storia come concatenazione di eventi, in cui il passato interagisce con il presente e dal passato è possibile trarre una lezione che sia collegamento con il presente.
La seconda parte della ricerca parte da una concezione del mito come punto d’incontro tra passato e futuro.
Platone - osserva Camon - individua oltre a un essere che è in continuo divenire senza mai avere un essere, anche un essere che è sempre, senza mai avere un divenire. Nell’essere che è, in quanto immutabile, tutto è fermo, anche il tempo, denominato AION. Nell’essere che è in continuo divenire, proprio perché tale, anche il tempo cambia in continuazione.
Dall’incontro tra l’essere che è, che ha come tempo l’AION, come forma di conoscenza la DOXA (opinabilità) si forma un nuovo mondo: il KOSMOS SYMBOLIKOS, cioè il mondo nato da un incontro che ha come forma di tempo il CHRONOS SYMBOLIKOS e come forma di conoscenza il MITHOS (parola, discorso).
Il mito diventa pertanto un incontro fra passato e futuro, fra essere e divenire, ma aggiunge Camon, il momento di fusione fra queste due sfere temporali si realizza anche nel ghenos (stirpe) che non unifica i rapporti soltanto in linea verticale (passato-presente-futuro) ma anche su un piano orizzontale. Unisce il progenitore con i suoi discendenti ma anche tutti i discendenti fra loro, con la coscienza di una derivazione comune.
Le analisi fatte consentono a Camon di spiegare due personaggi della tragedia greca secondo l’ottica del TODE e del TI come esempi agli antipodi: Laio ha compreso che salvare la stirpe significa diventare immortali, passare dalla sfera del TODE a quella del TI; Ferete è indifferente alla salvezza della stirpe e vuole rimanere nella sfera del TODE.
Ricostruiamo brevemente le vicende dei due personaggi: a Laio, re di Tebe, era stato imposto da Apollo di non avere un figlio, altrimenti sarebbe stato ucciso da questi. Tuttavia nacque Edipo che da adulto incorse nella duplice colpa di uccidere il padre e sposare la madre, a lui sconosciuti. Reso consapevole delle proprie azioni, cadde nella più totale disperazione.
Il mito di Edipo fu ripreso dal poeta greco Eschilo in una trilogia Laio, Edipo, Sette contro Tebe, chiusa dal dramma satiresco Sfinge. Di tale complesso rimane solo l’ultima tragedia, Sette contro Tebe, cui fa riferimento Camon nel suo saggio.
La vicenda di Ferete è contenuta nella tragedia Alcesti, di Euripide. Secondo il mito greco il figlio di Ferete, Admeto, aveva ottenuto da Apollo la grazia di poter sfuggire alla morte se al momento estremo qualcuno avesse accettato di morire per lui, ma né il vecchio padre Ferete, né la madre avrebbero accettato di sacrificarsi per il figlio. La salvezza sarebbe venuta dalla moglie di lui, Alcesti, che dopo aver accettato di morire in vece sua, sarebbe stata strappata alla morte dall’eroe Eracle e restituita al marito.
Perché la scelta di Camon sia caduta proprio su questi personaggi, fa pensare che per l’autore, meglio di altri, rappresentassero due aspetti dell’uomo indipendenti dalle epoche storiche: la trasgressione e l’egoismo.
Laio ha disobbedito al divieto di Apollo di avere figli per salvare la stirpe, ma la sua colpa si rende inutile perché era già stato deciso dal fato che la sua discendenza dovesse estinguersi.
La trasgressione delle regole è una caratteristica insita nell’animo umano. Ad essa Camon collega direttamente la necessità di espiazione: La colpa di Laio era stata quella di voler sopravvivere, la colpa di Edipo, di essere nato.

Molti anni dopo questo saggio Camon, nella scheda critica su Moravia ne La moglie del tiranno, volume di interviste a otto scrittori del Novecento, pubblicato per la prima volta nel 1969, avrebbe rivisto il mito di Edipo alla luce delle osservazioni fatte in TODE e TI.
Nel 1968, Moravia scrive Il Dio Kurt, una tragedia in cui inserisce il mito di Edipo nel dramma nazista, tentando una riattualizzazione del mito greco.
Kurt, un ufficiale delle SS, organizza una rappresentazione culturale durante la quale l’attore ebreo scopre di avere ucciso il padre e amato la madre. Ma egli non si acceca, come la madre non si uccide. Il dramma del nazismo ha dimostrato l’inattualità del dramma greco perché “...la nuova tragedia più vasta assorbe e annulla la vecchia tragedia limitata: il fato tedesco punisce l’ebreo non già perché ha ucciso suo padre e ingravidato sua madre, ma perché è nato.”.
Secondo Camon, Moravia pensa di aver attuato un aggiornamento del mito, ma il fato greco, sottolinea, aveva punito Edipo proprio perché era nato.
Per Camon “la lacuna” di Moravia è particolarmente grave perché riguarda in lui, iniziatore dell’esistenzialismo, una delle prime e più lontane origini di una concezione esistenzialistica: cioè la concezione per cui non solo nel mito, ma anche nella stirpe gli antichi fondevano in unità, passato e futuro, basandosi sull’idea che l’originario essere del progenitore continuasse a sopravvivere nei suoi discendenti. Tutto quello che secondo Moravia è portato dal fato tedesco, è in realtà un effetto del fato greco.
Questo permette di osservare come a distanza di 10 anni in un contesto diverso, l’autore riproponga le argomentazioni di TODE e TI connesse al concetto della colpa e dell’esistenza come sofferenza.
Il secondo personaggio di TODE e TI, Ferete, rappresenta l’egoismo umano. Potrebbe morire e salvare la stirpe ma preferisce lasciar morire il figlio e vivere senza gloria.
Il suo comportamento è sì egoistico, osserva Camon, ma al tempo stesso onesto, perché la sfera del TODE è la sfera dell’utile, del particolare e non dell’assoluto. In essa un uomo non è tenuto a morire per un altro.

L’importanza dei concetti emersi in questo primo saggio, quali la linea storicistica, il valore del passato come lezione per capire il presente, il tema del TODE e TI, l’esistenza come dolore, si presentano come aspetti basilari per comprendere una poesia di Camon, Poiché sono uomo, pubblicata sulla rivista Tempo Presente nel 1966, insieme a Mio padre e Piccole gioie. Mentre le ultime due poesie faranno parte delle raccolte Fuori Storia (1967) e Liberare l’animale (1973), questa non verrà inserita in esse.

      POICHÉ SONO UOMO

      Il mio passato inizia ad ogni attimo,
      mai contemplo la mia opera, disfatta.
      La mia storia si crea se mi dissolvo,
      poiché sono uomo.
      Del fuoco dell’estate non mi resta
      che cenere sul cuore, ove se pianto
      un fiore,
      lo cresco di lacrime se no muore,
      poiché sono uomo.
      Eco, lontana presenza,
      viene, da tempi che non vissi e spazi
      che non conobbi mai, un rintocco
      d’infinito che frange i confini
      del mio hic et nunc,
      poiché sono uomo.

La poesia, nella sua globalità, ci presenta la storia dell’uomo nella storia universale. Si ritrova in essa lo storicismo di Camon, la sua volontà di recupero del passato. Nel corso storico nulla si può mai interrompere, non c’è mai un annientamento dell’azione umana proprio perché il passato dell’uomo ricomincia ad ogni attimo.
L’uomo può morire, ma se sopravvive il suo ghenos, sopravvive anche la sua essenza, la sua storia. L’IO a cui si riferisce Camon, indica l’uomo che ha accettato di passare dalla sfera del TODE a quella del TI.
L’esistenza dell’uomo, in quanto nata dall’espiazione, è dolore, un dolore che non si può evitare. Per questo motivo, il fiore posto sul cuore è alimentato dalle lacrime dell’uomo. Sono le sue sofferenze a dargli vita. Ritorna nel finale della poesia la continuità tra passato e presente, ma anche il confronto del singolo con la totalità, della storia dell’uomo con la storia universale.

È del 1967 il Commento all’Agamennone di Vittorio Alfieri, (Padova, R.A.D.A.R.), una guida a scopo didattico, in cui Camon torna a studiare il mito greco. Il nodo centrale della ricerca rimane sempre l’attenzione volta al passato con l’occhio attento al presente. In questo senso si può leggere il tentativo di umanizzazione compiuto dall’Alfieri nei confronti del mito. Ci troviamo di fronte ad un altro mito che, con tradimenti, uccisioni, ritorsioni presentati, ripropone i vizi insiti nell’animo umano.
Riaffiora come per l’Edipo di TODE e TI il tema della colpa. Camon pone l’accento sulla conflittualità, vissuta dall’individuo, con il proposito di recuperare attraverso uno scrittore del Settecento, un’ulteriore umanizzazione del mito.


FIGURE E TEMI CLASSICI NELLA LIRICA ITALIANA CONTEMPORANEA

Nel 1959 (anno in cui viene pubblicato TODE e TI) esce sulla rivista Ausonia, Figure e temi classici nella lirica italiana contemporanea, saggio scritto da Camon per dimostrare la presenza del classicismo nel mondo contemporaneo. Camon parla di “presenza” e non di “restaurazione”, dello spirito classico, inteso come un “mezzo per cui l’anima umana acquista una più esatta consapevolezza di sé mutuando dall’antichità alcuni sempre validi concetti sull’uomo e sul suo destino.”.
Nella lirica contemporanea ritrova figure, temi, concetti appartenenti alla poesia classica, soprattutto greca, che inducono a parlare non di interferenze ma piuttosto di una sentita attualità della civiltà e della moralità classiche.
Camon porta cinque esempi poetici: Saba, Quasimodo, Fiorentino, Ungaretti, Cardarelli. In ognuno di essi scorge una ripresa del classicismo con la presenza, in questi lirici del Novecento, di costanti classiche che si esprimono in: purezza stilistica (Saba), essenzialità tematica (Cardarelli), superamento del dolore esistenziale (Quasimodo, Ungaretti, Fiorentino).
La serenità, l’armonia del mondo classico, diventano nelle intenzioni umane modelli da imitare per il superamento del dolore.
Consapevole che solo nel mondo greco era stato possibile un accordo fra realtà e sogno, con Il ciclo degli ultimi, dimostrerà l’incompatibilità fra le due sfere. Solo utopisticamente il mondo de Il quinto stato (1970) sarebbe potuto sopravvivere ma inserito nel flusso della Storia, era destinato a morire.


GLI STUDI MALLARMEANI - Tre poesie d’amore

Il primo saggio Tre poesie d’amore di Stéphane Mallarmé a cura di Ferdinando Camon, esce sulla rivista Ausonia nel 1961, seguito da Le poesie d’amore di Stephane Mallarmé, pubblicato su Letterature Moderne nel 1962. Camon individua, sorretto da un intento di riattualizzazione del mondo mallarmeiano (motivo che riconduce agli scritti precedentemente riportati) delle “costanti” nella poesia di Mallarmé.
Il mondo del poeta francese è un mondo frantumato, disgregato dopo il crollo del mondo metafisico. Camon dimostra come in questa “frantumazione” ci siano dei punti saldi. L’obiettivo è quello di riattualizzare e individua le costanti di Mallarmé nelle poesie d’amore perché rappresentano il divenire storico della sua poetica.
Nel simbolismo di Mallarmé, la parola è intesa come evocazione, come significato nascosto. Nel simbolismo come nel mito, la parola si carica di molteplici significati, rispecchiando la molteplicità del reale. Anch’essa diventa espressione del dualismo fra Essere e Divenire: esprime tutto ciò che è mutabile, ma anche delle “costanti” come l’amore. Rimane quindi l’uomo, nel suo essere e nel suo divenire storico l’oggetto della ricerca di Camon.
Per lo scrittore, la poesia assume valore universale, la letteratura va intesa storicamente. La letteratura è espressione della società, figlia del tempo che la produce mentre la poesia è espressione della voce intima del poeta. L’uomo quando muore non si annulla, ma viene assorbito nella Storia. Si risolve quindi in “frantumi” non in “unità” il mondo poetico di Mallarmé.
Proprio perché subordinata ad un ritmo, a un’operazione estetica, non può, osserverà molti anni dopo lo scrittore padovano, essere espressione politica, ma soprattutto non può appoggiare la causa del proletariato.
Gli studi mallarmeani porteranno Camon a analizzare ulteriormente il rapporto tra poesia e storia.
Le sue raccolte poetiche Fuori Storia (1967) e Liberare l’animale (1973), saranno scritte con il l’intenzione di far arrivare il messaggio ai destinatari a cui erano rivolte, realizzando alla fine che si trattava di un’operazione impossibile: “Quando scrivevo poesie, volevo e in un certo senso speravo che anche il materiale poetico arrivasse agli abitanti dei paesi veneti, ma questo non avvenne e non poteva avvenire. La poesia arrivava allora, solamente a una piccola fetta di intellettuali della classe borghese (quindi al nemico). Allora abbandonai la poesia e mi rivolsi alla prosa.”.


CONCLUSIONI: DAL CICLO DEGLI ULTIMI AL MONDO URBANO

Con le interviste a poeti e narratori del ‘900, e la vastissima attività saggistica e giornalistica, Camon si allontana sempre più da quel mondo contadino che sentiva destinato a scomparire, per entrare nel mondo urbano. Con la pubblicazione di Occidente (1975) e Storia di Sirio (1984) nasce il “Il ciclo del terrore” dedicato agli anni di piombo nella città patavina, cui seguirà “Il ciclo della famiglia” con La malattia chiamata uomo e La donna dei fili.
L’abbandono sofferto e conflittuale del mondo rurale, genera nello scrittore la necessità di analizzare se stesso attraverso la psicanalisi. Da questa esperienza nascono La malattia chiamata uomo e La donna dei fili. Come ho riportato nella mia intervista, riguardo La malattia chiamata uomo, Camon sottolineò: “Nulla di ciò che è nel libro fu nell’analisi reale, nulla di ciò che è nel libro ci sarebbe stata se non ci fosse stata quell’analisi reale.”
La conclusione più precisa è una frase de La Donna dei fili, (l’alter-ego femminile dello scrittore, libro in cui la protagonista è una donna che racconta la propria esperienza dell’analisi: “Ho scoperto la dolcezza del vivere da sola, non perché non hai nessuno, ma perché hai te stessa.”
A partire da queste opere, fondamentali per comprendere il percorso poetico e letterario di Camon, lo scrittore proseguirà tutt’oggi con una produzione letteraria e giornalistica continua, come opinionista amato e attento osservatore della società.
Ora Il quinto stato celebra i suoi 50 anni in una nuova veste editoriale, con copertine tratte dall’opera del pittore ottocentesco François Millet, confermandosi testo fondamentale per capire cosa sia stato il mondo contadino fino a metà del Novecento.




Ferdinando Camon
è nato nel 1935 in un piccolo paese della campagna veneta e vive da molti anni a Padova. Il suo primo romanzo, uscito con una prefazione di Pier Paolo Pasolini, è stato subito dopo la pubblicazione in Italia, tradotto in Francia per interessamento di Jean-Paul Sartre.
Camon si definisce un narratore della crisi. Nei suoi libri ha raccontato la crisi e la morte della civiltà contadina (nei romanzi, Il quinto stato, La vita eterna, Un altare per la madre, Premio Strega, Mai visti sole e luna) e nelle poesie (Liberare l’animale, Premio Viareggio, e Dal silenzio delle campagne), la crisi che si chiamò terrorismo con Occidente, la crisi che porta l’uomo d’oggi a sottoporsi ad analisi (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili, Il canto delle balene) e lo scontro di civiltà, con l’arrivo degli extracomunitari (La Terra è di tutti).
I suoi romanzi più recenti sono La cavallina, la ragazza e il diavolo (Premio Giovanni Verga) e La mia stirpe (2011, Premio Vigevano-Mastronardi). Con Guanda ha pubblicato Conversazione con Primo Levi. Nel 2019 scrive Tentativo di dialogo sul comunismo, con Pietro Ingrao. Il suo ultimo scritto, A ottant’anni se non muori, t’ammazzano, è dell’agosto 2020.
La casa editrice francese Gallimard ha tradotto tutta la sua opera narrativa e le poesie Dal silenzio delle campagne. Ferdinando Camon è stato tradotto in venticinque paesi. Le sue opere sono state pubblicate anche in edizioni per ciechi, in Italia e in Francia e raccolte in 16 ebooks. Nel 2016 ha vinto il Premio Campiello alla Carriera.

mirta_barbonetti@yahoo.it