FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 57
gennaio-aprile 2021

Oasi

 

TUTTA LA VITA IN UN’OASI

di Armando Santarelli



Che cosa pensereste di una persona che vi dicesse di aver trascorso tutta la vita in un’oasi? Non so se la invidiereste, ma immagino che il vostro pensiero correrebbe a un’isola tropicale, a un luogo eremitico, a una solitaria valle alpina, a uno di quei paesini dove si vive in pace e in armonia con la natura.
A dispetto del caotico mondo globalizzato, esistono ancora tante persone che godono del privilegio di vivere in un’oasi, o comunque in luoghi che ne possiedono i tratti essenziali: bellezza, tranquillità, isolamento, silenzio.

Non vorrei sembrare presuntuoso, ma io faccio parte di quei privilegiati, perché è in un’oasi che passo la maggior parte del mio tempo. Un’oasi un po’ particolare: una camera mansardata piccola e accogliente, contornata da caldi mobili in legno e scaffali pieni di libri. In un angolo c’è il letto; a sinistra, fra questo e il muro, una consolle dove tengo i dizionari e altri testi di consultazione immediata. A destra, il comodino con l’abat-jour e il libro che leggo al momento. Sulle pareti, la carta geografica dell’Italia, un acquerello di Ernesto Treccani, un’icona bizantina.
Certo, le oasi da cartolina sono tutt’altra cosa, enormemente più allettanti ed emozionanti. E tuttavia hanno un evidente limite intrinseco: ci ricevono, ci ammaliano, ma solo per il tempo necessario per ammirarle. Sono delle eccezioni, e come tali vogliono essere trattate. Le oasi come la mia, invece, sono generose, docili, democratiche, perché sono oasi domestiche, alla portata di tutti.

Adoro la mia oasi. Senza alcuno sforzo di volontà, ho assecondato una nota riflessione di Pascal, secondo cui tutto il malessere degli uomini nasce dal non saper stare in pace nella propria camera. Due secoli e mezzo dopo, gli farà eco Franz Kafka: “Non hai bisogno di lasciare la tua stanza. Rimani seduto al tuo tavolo e ascolta. Ma non ascoltare, semplicemente aspetta. Anzi, non aspettare, ma resta del tutto silenzioso nella solitudine. Il mondo ti si offrirà spontaneamente affinché tu lo scopra”.
Come dare torto a questi due grandi letterati? Quando sono nella mia stanza godo di molti piaceri: leggo e scrivo; assaporo il gusto della solitudine; mi rilasso nell’assenza del tempo; a volte mi sento immerso in uno stato spirituale, e mi sembra di stare in una cella monastica. Con una differenza, però: in diversi luoghi del mondo ho sperimentato la quiete interiore che ci mette in sintonia con lo Spirito; ma solo nella mia camera essa si unisce al fervore della mente.

Immagino un’obiezione, a questo punto: ma non è egoistico vivere così, passare tante ore in questo modo? No, io non corro questo rischio. Anzitutto, nelle ore di lettura sono in dialogo muto con gli intelletti di ogni tempo, con gli uomini che ci hanno lasciato il patrimonio del loro pensiero e delle loro azioni. Quando mi imbatto in una pagina, o semplicemente in un brano che mi colpisce in modo particolare, mi viene l’impulso di baciare il libro e di ringraziare l’autore; e mi pare che anch’egli ringrazi me, perché un’opera vive anche attraverso i suoi lettori.
E poi, amare la lettura, praticarla ogni giorno, non significa rinunciare alla socialità. Vivo in un paese, e mi basta fare una trentina di scale per trovare quei contatti umani di cui tutti abbiamo bisogno. Ho tanti amici, e partecipo a molte iniziative sociali e culturali. Infine, anche quando sto da solo nella mia stanza, mentre assaporo l’intimità con le cose che mi sono care, sono al contempo in relazione con tutti quelli che beneficeranno dell’energia che accumulo nella solitudine. È stato Thomas Merton, monaco cistercense e uno degli spiriti più alti della nostra epoca, a dire che “la grande opera della vita solitaria è la gratitudine”.

Il silenzio, la tranquillità, il riposo dal caos e dallo lo stress: ma sono soprattutto i libri ad aver eretto intorno a me le pareti spesse e impenetrabili entro le quali trascorrere ore serene e felici. Sono stato un lettore attento e onnivoro sin da piccolo. E anche quando ero adolescente, e gli ormoni giravano a mille, mi capitava di non uscire di casa per giorni interi se il libro che leggevo si rivelava particolarmente avvincente. Non pensate a letture “elevate”; ricordo bene che mi è successo, per esempio, con Papillon, il romanzo autobiografico di Henry Charrière, con la biografia di Oscar Wilde ad opera di Hesketh Pearson, con Tabù – La vera storia dei sopravvissuti delle Ande, lo straordinario resoconto di Piers Paul Read sulla tragedia di chi fu costretto a mangiare la carne dei compagni deceduti in un disastro aereo sulle montagne andine.




Con gli anni, le pagine capaci di unirmi ai bisogni della mia interiorità si sono moltiplicate; e mi sono immerso nelle epifanie di Joyce, nelle pagine immortali della Recherche di Proust, nella saggezza morale di Socrate e di Seneca. E poi ho scoperto i miei tesori, libri che tuttora assumono per me un valore particolare, senza che nemmeno riesca a spiegarne la ragione. Non so, infatti, perché La Civiltà della Conversazione di Benedetta Craveri sia in vetta ai miei libri preferiti; non so perché Il bottone di Puškin di Serena Vitale abbia costituito la lettura più partecipata e avvincente; non so perché la Storia della scoperta dell’America di Samuel Eliot Morison rimanga per me un capolavoro assoluto nell’ambito della ricerca storica. Credo di sapere, invece, perché i Saggi di Montaigne non cessino di affascinarmi, di provocare in me torrenti di gioia e di ammirazione. Quando li lessi per la prima volta – avevo 24-25 anni – ne rimasi folgorato: una prosa chiara, concreta, mai dogmatica da parte di uno studioso che descrive l’uomo nella sua vera essenza, e per il quale non esiste alcuna “verità” definitiva.



In un’oasi degna di questo nome viene spontaneo pensare alla Trascendenza, alle cose ultime. È nella mia stanza che ho recitato le preghiere più sincere, quelle per le persone defunte che mi erano care e per altre situazioni che mi avevano toccato in profondità. Non prego sempre, ma quando lo faccio prego con il cuore, oltre che con la mente. E ho praticato più volte, indegnamente, la preghiera noerà, i cui rudimenti ho appreso al Monte Athos.

Mi rendo conto di aver descritto una situazione ideale, che qualcuno potrebbe giudicare esagerata. Ma non è così. Io nella mia oasi sono una persona felice. Ho attraversato due momenti molto difficili nella mia vita, uno prima del matrimonio, l’altro durante il matrimonio. In entrambi i casi ho sofferto parecchio, nel fisico come nell’anima; eppure, quando mi infilavo nel letto con un libro in mano, tutto mi scivolava addosso, e non cessavo di stupirmi per come il dolore, in un attimo, potesse lasciare il posto a uno stato di gioia.

Un pensiero inquietante, tuttavia, è capace di penetrare la mia oasi: l’incombere della vecchiaia, e la consapevolezza che la morte si avvicina. Potrei rifarmi alla saggezza di Montaigne, affermare che non temo la vecchiaia e la morte, e che sto affrontando la senilità in maniera dignitosa. Ma oggi non è domani, e per quanto vogliamo imbellirla, darle significati profondi, rimane il fatto che la vecchiaia, o perlomeno una certa vecchiaia, è un qualcosa di orribile. Credo che mi troverà sempre più rintanato nella mia oasi, che forse perderà le sue migliori caratteristiche, assomigliando a una camera d’ospedale.
Poi, un giorno, se non arriverà all’improvviso, ma busserà in modo inequivocabile, saprò che sta arrivando la morte. Non so se mi dispererò, o se saprò accettarla. Rinnegherei le mie meravigliose letture, però, se non ricordassi che bisognerebbe avvicinare la morte a un altro evento capitale, quello della nascita: nessuno dovrebbe mai dimenticare che siamo il frutto di un miracolo, e un miracolo non può durare per sempre.


armando.santarelli@inwind.it