La mamma guardava fisso lo schermo. I suoi occhi erano spaventati, lui lo sapeva, e la paura gli arrivava dritta nella pancia. Le mani di lei stringevano nervosamente un canovaccio col quale si asciugava da qualche secondo come se fossero state immerse per ore nel lavandino pieno di piatti.
“Posso andare in bici da Matteo?”
“No. Aspetta. Non vai proprio da nessuna parte, aspetta.”
Fuori l’aria calda invitava a uscire e a godersi il sole, un richiamo irresistibile. Ora volava leggero sul sentiero di ghiaia, mulinava rapido sui pedali, impugnava il manubrio con forza, sembrava quasi volerlo strappare da terra. Era scappato via dalle parole di mamma, non l’aveva quasi ascoltata; quelle parole le aveva digerite come tante altre volte senza sentirle pronunciare, dopo la sua richiesta scontata, quella che non poteva non fare, quella cui un “no” in risposta era pure scontato, quindi previsto.
La velocità lo inebriava, sentiva quasi le orecchie fischiare per il vento che la sua stessa forza produceva spaccando l’aria, in realtà ferma. Era finalmente un po’ di refrigerio dentro a quella specie di tinozza umida e appiccicosa in cui gli sembrava di stare da qualche giorno. Aveva scoperto che il movimento lo faceva sentire bene, che gli rimetteva in pace l’anima dopo la giornata di scuola, dopo i compiti. Intorno pennellate di celeste si disegnavano cambiando forma tra i rami, tra il marrone e il verde. Cambiavano forma mano a mano che si muoveva, sulla ghiaia che scoppiettava sotto i copertoni ormai bianchi e polverosi, con un suono simile a quello di colpi di pistola, o come i colpi sordi dei fucili a elastico che costruiva con Matteo. Cambiavano forma e lui li osservava, perdendo ogni tanto il contatto visivo con la strada davanti e sotto a lui, pur di abbeverarsi a quello strano paesaggio cangiante, che curiosamente da fermi era immobile, e cambiava di norma solo quando a fine stagione qualcuno tagliava l’erba nei fossi.
E ora invece mutava tonalità e disegno perché gli alberi fitti sui bordi impedivano il cielo, e invece lui si accorse che era uscito proprio per il cielo, che di quello aveva bisogno dopo i muri sporchi e il soffitto alto ma opprimente di scuola, quando una specie di letargia lo aveva vinto piegandolo sul banco. Era lì che il pensiero si era mosso, almeno lui. La mente viaggiava da sola e la voce dell’insegnante era un fastidioso ma tutto sommato trascurabile rumore di fondo. E aveva immaginato le scene del pomeriggio a venire con una certa ansia. Da qualche settimana, da quando aveva cominciato a fare più caldo e le giornate erano diventate più lunghe e serene, la voglia di stare fuori era diventata quasi incontrollabile, anche se stranamente nelle ore di scuola si traduceva in una specie di sonno. Al mattino si sentiva come una tigre acquattata in attesa del suo momento, la preda poteva attendere, anzi, doveva attendere fino al pomeriggio.
Così scrutava avido tra i rami, e quella luce ancora non inquinata d’afa in aprile gli prometteva libertà, in forme via via mutevoli, a seconda della trama dei rami scuri. E qualcosa si insinuava sotterraneamente nei suoi pensieri, anzi in una cavità che era il nulla dei suoi pensieri in quel momento; ed era proprio la voce disturbante del professore, che parlava di sfumati e chiaroscuri davanti ad un quadro, quella mattina, o quella di ieri, o non importava di quando.
Erano le uniche lontane parole che gli suggeriva la mente, persa in un’osservazione senza freni e senza giudizi del piacere dell’aria sulle mani, tra le cosce, dentro i pantaloncini. Delle lacrime che l’attrito dell’aria produceva ora dagli occhi semichiusi ma attenti. Del sapore di mela e caffè che si mescolavano in bocca, tra lingua e palato, mentre godeva a lasciare le labbra socchiuse per farci entrare dentro la velocità. E non capiva bene perché quelle parole arrivassero proprio in quel momento, e proprio quelle parole, ma tutto sommato gli pareva una cosa bella, da tenere per sé.
I raggi dentro la ruota sembravano saette costrette all’infinito dentro vortici concentrici, qualche sasso gli sfiorava la faccia. La strada curvava nascosta dagli alberi, e il suo viso prima pieno d’azzurro si trovò in un secondo immerso fino al mento in una pozza d’acqua fetida, il naso a contatto diretto con l’erba bagnata e il fango del fosso. La ruota girava sorniona e irridente sopra di lui, ancora velocissima, mentre la bici era ferma e lentamente un dolore pazzesco gli risaliva da un gomito fino al fianco sinistro, che infatti adesso era innaturalmente più in alto della testa. In una frazione di secondo ripensò a mamma ed ebbe il tempo di realizzare che gli era andata parecchio bene.
Matteo lo guardava con un sorriso di impunita derisione. Mirco teneva gli occhi sulle ginocchia screpolate e le macchie di sangue appena rappreso sul gomito e sugli stinchi. Inveiva un po’ per il dolore, un po’ perché l’accendino andava a vuoto: dava colpi sempre più secchi, nervosi e ravvicinati alla rotellina, che finiva per bloccarsi.
- - Dammi qua, te l’accendo io – fece Matteo mentre posava la sua sigaretta su un sasso piatto.
- Mmm –
fece lui non troppo convinto. Matteo accese la sigaretta al primo colpo, ne tirò fuori una voluta di fumo sbuffando teatralmente mentre gli occhi gli ridevano, rivolti a lui. Gli passò la sigaretta e guardando la bici col cerchione piegato, che sembrava chiedere pietà come un arto innaturalmente contorto in una manovra di stiramento, disse – e mo’ come glielo dici?
- Boh, ma che ne so. Che palle, già mi rompono così.
- Dai dai, che tanto finisce il mondo.
- Che dici? Perché?
- Non l’hai visto il telegiornale prima? È scoppiata la centrale elettrica in un paese, tipo in Russia.
- Embè?
- Dice che il fumo che è uscito ha già ammazzato non so quante persone.
- Ma scusa, noi mica stiamo in Russia? Che c’entriamo noi?
- Non hai capito: ha ammazzato un sacco di persone a chilometri di distanza, perché inquina. Inquina da morire.
- Spiritoso. Vabbè, ma fino a qua non ci arriva.
- Non hai capito: è già arrivata tipo in Germania, mica no. Dice papà che non ce l’hanno detto, ma sta già pure da noi. Attento che soffochi.
Mirco tossiva col fumo che gli usciva dal naso e dalla bocca.
- Dici? – disse con le lacrime agli occhi.
Matteo si fece più avanti verso l’amico strusciando il culo sull’erba, senza abbandonare la posizione da seduto.
Sì, i Russi non l’hanno detto subito, e così la nuvola di fumo che è uscita dalla centrale s’è spostata su tutta l’Europa.
- Ma sei sicuro? Perché, la centrale elettrica inquina così tanto? Non mi pare.
- No, è una centrale nucleare.
- Ah!
- E inquina tantissimo. Papà dice che siamo tutti fottuti
finì Matteo sputando fuori l’ultima boccata e schiacciando come un fumatore esperto il mozzicone sul sasso piatto, ingrigito di cenere. Questa s’era spalmata un po’ sul sasso, mentre qualche ciccata rappresa svolazzava al vento che lieve si alzava a tratti.
Erano seduti abbastanza lontani dalla stradina di brecciolino, riparati da qualche pino che li nascondeva abbastanza, anche se il fumo delle sigarette li tradiva. Mirco guardava la sua Atala ammaccata e infangata stesa vicino a Matteo. Gli ritornò in mente la faccia della mamma davanti alla tv mezzora prima. Gli aveva detto che non doveva uscire, come mille altre volte, e lui non ci aveva fatto caso. Ma era diverso, stavolta; stavolta la sua paura che gli potesse succedere qualcosa non sembrava dovuta a lui, che potesse come al solito mettersi nei guai da solo. Ci ripensò. Sembrava più che lo volesse trattenere perché il pericolo incombeva su di lui, fuori casa. Allora non ci aveva fatto caso, non l’aveva quasi sentita. E così era finito nel fosso. E aveva rotto la bici. Per fortuna non s’era fatto quasi niente, ma i graffi sulle braccia e sulle ginocchia li avrebbe visti, a casa.
- Che c’è? Hai paura? Guarda che qua non ci beccano.
- Lo so. Sto pensando alla bici.
- Dici una cazzata, dai. Ce ne facciamo un’altra?
Non si ha contezza per ora…. danni irreparabili……. errore umano?…. una nube di polvere e cenere potrebbe raggiungere…. la paura percorre il mondo….
Mamma e papà ai lati della tavola guardavano attenti la tv. Per fortuna rientrando a piedi era riuscito a non farsi vedere, e trascinando la bici sulla ruota posteriore l’aveva messa nel garage prima che la vedessero. I lividi mamma li aveva visti, ma non s’era arrabbiata come si aspettava. Lo guardava con occhi strani, spaventati.
- Vatti a lavare, poi disinfettiamo
aveva detto con una voce bassa bassa, quasi volesse piangere.
Ora erano là, dopo cena, e nessuno parlava. Papà fumava davanti al notiziario. Mamma si alzò per sparecchiare, poi si fermò, e come se chiedesse scusa dopo aver a lungo riflettuto, timorosa, disse
- Senti, io chiudo le finestre.
- Ma fa caldo, io sto fumando.
Lei rimase ferma dall’altra parte della tavola, con una mano sulle posate, fissando papà per un attimo lunghissimo. Poi si mosse rapida, quasi scattando, verso la finestra del cucinino
- Senti, io chiudo, chiudo ché entrano gli insetti. E tu, spegnila
e passandogli vicino per raggiungere l’altra finestra alle sue spalle gli tolse il posacenere da davanti. Un mozzicone cadde, insieme a un po’ di polvere grigia e finissima, che volteggiò due secondi davanti a lui, ne sentì l’aroma stantio, la vide scendere lentissima, allargarsi e farsi inghiottire dall’aria prima di cadere sul pavimento. Come se non fosse mai esistita.
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