Una cavalcata in quei Sessanta che hanno lasciato decantare la rinascenza post-bellica nella dapprima tiepida e poi torrida cantina del no a quello sviluppo. Questo ci propone Paul Auster con 4321: un viaggio senza nostalgia, forse, ricostruendo in completa, radicale analessi, una, anzi, quattro vite diverse dello stesso protagonista, Archie Ferguson, nato nel 1947 e che quindi ha attraversato i Beatles e Dallas a diciassette anni, il 68 a ventuno, e poi la radicalizzazione violenta durante il Vietnam, la Luna e tutto ciò che ha portato la realtà antropica d’oggi. L’avanguardia, il surreale, il sogno qui non sono immediatamente primari, nel senso che non la fanno da padroni, ma sono parte di un gioco durato speranze e fallimenti, suicidi ed omicidi, attacchi e difese, ansie e disperazioni, oltre a ciò che noi chiamiamo, con l’umano vizio prospettico, contraddizioni, e che forse, come pensava qualcuno, non sono altro che l’intelligenza della storia che si fa lasciandoci illudere di compierla noi.
Quattro vite attendono il protagonista, quattro diverse possibilità di esistere, in urto frontale con la rinomata convinzione che la nostra, di storia, non si faccia con i se e con i ma. Ed invece, e qui sta l’eredità del gioco, della visione e dell’apparente gratuito che vengono ad Auster da molto lontano e non è detto abbiano ascendenti precisi, ecco il se di quattro storie che rispondono alla domanda “ma se fossero rimasti insieme?”, “se il padre del protagonista non fosse stato ucciso?” e avanti così. A dirla tutta, questo è uno dei due limiti del quadruplice romanzo di Auster, perché si corre il rischio della prevenzione da “tanto vale tutto e se tutto è lecito allora me lo invento io, e risparmio i soldi del libro”. Ma, fuori da questo, la cooperazione del lettore è una realtà molto complessa, e non basta mettere su storie parallele con lo stesso protagonista, perché si rischia il contrario, vale a dire la contrazione di ogni possibilità euristica del lettore cui la sperimentazione di ogni possibile livello narrativo toglie le possibilità interattive. Il secondo limite è molto grossolano: semplicemente le quasi mille pagine, 951 per la precisione, che appesantiscono oltre misura la lettura per l’assottigliarsi della possibilità di seguire la storia nei suoi risvolti e nelle sue assonanze apparenti. Ma poi lo sprofondamento è assicurato: l’immersione nello spirito di un tempo andato è possibile grazie ad un narratore che non forza la mano, che resta apparentemente neutrale e ci offre la visione dei fatti attraverso i pensieri dei protagonisti e non l’intervento onnisciente dell’autore.
È così che l’assassinio di John Kennedy, le letture auto o eteroimposte di Voltaire o di Marx, di Flaubert e Dostoevskij, Steinbeck e Tolstoj, l’ascolto di Beatles ma anche Muddy Waters e Bach, la visione di Tempi moderni ma anche di Stanlio e Ollio, la domanda capitale sulla macchina dell’esistenza (Caso? Autodirezione? Eterodirezione?), l’anamnesi di un prima che ha fatto l’oggi, con la guerra civile spagnola e la fine di García Lorca e ancora prima la grande madre di tutte le guerre del Novecento, divengono non tappe forzose di una ricerca di credibilità, ma il più delle volte elementi funzionali – e funzionanti – di un intreccio non schiavo della pressante energia di una fabula così impegnativa e ancora operativa sul nostro immaginario. Il femminismo, la contestazione e i dubbi su quale parte scegliere, se quella radicale dei Weathermen o i moderati, sono credibili perché nascono dall’interno del personaggio, fanno realmente parte della psiche tormentata di giovani che sentivano l’accelerazione dei tempi e la spinta inerziale della loro generazione, ma erano frenati dalla ripulsa della violenza, dai dubbi e dalle reali paure che hanno fatto anch’esse la storia di quegli anni. Una carrellata interiore senza ansia documentaristica ma che parte dal basso e dal di dentro, in grado di recuperare per un attimo la fascinazione e la capacità di immedesimazione di alcune canzoni di Dylan e di Pete Seeger, le intermittenze allucinate dei personaggi della beat generation e le impotenze interiori che diverranno manifesti cinematografici dei film di Nichols e Schlesinger. Ma soprattutto un omaggio, il che non vuol dire debito, verso la missione impossibile della Woolf, soprattutto di Mrs Dalloway, anche se non solo, finalizzata al recupero delle sensazioni e delle emozioni passate, non solo della protagonista, ma anche dalle epifanie delle realtà di personaggi che passano lì accanto, apparentemente per caso. E ovviamente tutta la grande inchiesta sul crònos che parte da tempi immemorabili e trova nella prima metà del secolo breve una straordinaria stagione.
Una sorta di irrealizzabile e neanche desiderato ritorno per tornare a guardare in avanti, qualsiasi cosa esso rappresenti.
Paul Auster, 4321, traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi, 2019, pp. 951, 17 euro.
Paul Auster è nato Newark, Stati Uniti, nel 1947. Scrittore, sceneggiatore e regista. Dopo gli studi alla Columbia University si trasferisce, nel 1970, a Parigi dove lavora come traduttore. Torna a New York nel 1974 e inizia a pubblicare poesie, racconti e articoli sulla “New York Review of Books” e sulla “Harper’s Saturday Review”.
La sua opera più famosa, subito accolta favorevolmente dalla critica, è la Trilogia di New York (Città di vetro, 1985; Spettri, 1986; La stanza chiusa, 1987), che volge in parodia il genere della detective story. Seguono i romanzi Il paese delle ultime cose (1988), Il palazzo della luna (1989), La musica del caso (1991), Leviatano (1992), Mr. Vertigo (1994) e Timbuctù (1998).
Raccolte di racconti sono Il taccuino rosso (1995) ed Esperimento di verità (2001).
Auster ha firmato, insieme a Wayne Wang, la regia di Smoke (1995) e di Blue in the Face (1995); nel 1998 ha diretto Lulu on the Bridge, interpretato da Willem Dafoe e Harvey Keitel.
Seguono altri romanzi, tra i quali: Viaggi nello scriptorium e Uomo nel buio (2008), La vita interiore di Martin Frost, Invisibile (2009), Sunset Park (2010), Diario d’inverno (2012), Notizie dall’interno (2013), Follie di Brooklyn (2014), 4321 (2017) e Una vita in parole (2019).
In Italia le sue opere sono pubblicate da Einaudi.
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