FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 54
gennaio/aprile 2020

Fiabe & Follia

 

MARISA MARTÍNEZ PÉRSICO, IL CIELO TRA PARENTESI

di Francesco Tarquini



Col titolo italiano Il cielo tra parentesi è di recente uscito per la casa editrice Fili d’Aquilone, nella limpida traduzione di Alessio Brandolini, El cielo entre paréntesis della poetessa argentina Marisa Martínez Pérsico, pubblicato in Spagna nel 2017 da Valparaíso Ediciones.
Nitida figura retorica, il cielo tra parentesi esprime una dichiarazione di poetica che l’autrice premette in un breve testo intitolato, per l’appunto, “Elogio delle parentesi”: “collocare il cielo fra parentesi significa porre ogni certezza in sospeso, dubitare dei principi guida, mettere in questione verità acquisite e accettare il dubbio.”
Questa premessa illumina i caratteri di una scrittura mossa in prima istanza dai motivi propri dell’intimità – la memoria, l’infanzia, gli aspetti della vita quotidiana, il viaggio, gli affetti, l’amore –, espressi sotto il costante controllo di uno sguardo attento, di un intelletto vigile che non punta su nessuna forma di certezza ma è dimora del dubbio.

L’ispanista argentina Laura Scarano nel suo libro Sermo intimus. Modulaciones históricas de la intimidad en la poesía española, pur limitandosi a studiarla appunto nella poesia spagnola, individua con precisione il porsi della scrittura dell’intimità nella poesia attuale. Scrive Scarano: “L’intimità come viene costruita nella poesia attuale non corrisponde a una ingenua trasposizione nel linguaggio di esperienze vissute e di emozioni empiriche… mirata a rivelare un suo cosiddetto regno interiore. Al contrario, nel definire il processo di verbalizzazione dell’intimità nella poesia, ci riferiamo all’elaborazione di un ‘racconto dell’intimità’, che corrisponde a modelli figurativi della vita in cui convivono miti sociali, tabu culturali, schemi di comportamento, convenzioni e motivi tipici dell’epoca”.

Dunque un “racconto dell’intimità” capace di mettere in movimento, come un sasso nell’acqua, onde concentriche. O, per usare un’altra metafora, di aprire finestre su altre finestre, a partire dal dato immediato, dall’osservazione, dall’aneddoto o momento del vivere che costituisce il motivo del testo. È proprio questa l’intenzione di Martínez Pérsico nel mirare del suo discorso a una forma di totalità.
“Che le cose / si aggiustino nella loro forma / non significa / che siano diventate nostre” – scrive infatti nel testo che dà il titolo al libro – “Forse vuol dire / che l’albero dell’assenza / ha messo steli e radici / nella terra adeguata.”

Il dubbio di cui si diceva riguarda dunque proprio la stabilità delle cose e la possibilità che realmente ci appartengano. La parola “cielo” allude a uno spazio vuoto, afferma l’autrice; e qui la metafora del cielo fra parentesi assume la pienezza del suo senso: è necessario “come a un ospite inatteso /... saper dare / il posto giusto / persino al vuoto”. E il vuoto è appunto ciò che, essendo nascosto, è più reale di ciò che reale appare.

“Questo cielo entra tutto nel linguaggio”. Al linguaggio spetta illuminare questo cielo. La concezione della poesia è per Martínez Pérsico quella dell’impatto di un fulmine, di una porta dalla serratura spezzata, priva di chiave; e soprattutto, dichiara l’autrice in un testo dal titolo “Arte e mestiere di una poesia”, quella di “un’immagine che infranga la soglia della parola”. È questa immagine a penetrare fra le parentesi, a frugare nel senso di ciò che esse racchiudono e a intuirlo in un bagliore, come nel respiro di un haiku vien detto nella poesia “Arte didattica”, “Chi è stato allievo del lampo / impara che il senso / abita / in un fulgore”.

Con estrema sintesi riassume tutto ciò nella sua prefazione il poeta spagnolo Luís García Montero, “l’autrice vuole una poesia che sia un bagliore nella realtà”. Una poesia, appunto, “che ti lasci cambiato”. Cambiato, fatto diverso, con uno sguardo nuovo: quello che solo può venire dal pensare le cose al di fuori della loro forma abituale, pura apparenza.

Non una raccolta, questo Cielo fra parentesi, ma un libro unitario e compatto in cui si delinea con coerenza quella “frontiera personale tra lucidità e sogno, tra mondo esteriore e intimità” che ancora García Montero indica come tratto specifico della poesia di Martínez Pérsico; un libro che possiamo intendere anche come un singolare diario di viaggio dell’autrice – che vive da anni in Italia e che è peraltro realmente una viajera incansable fra i suoi impegni universitari e le sue partecipazioni a convegni e festival di poesia oltre che ai ritorni sui luoghi della sua memoria – lungo e attraverso le frontiere fra ciò che è accaduto e ciò che si è immaginato, fra ciò che sembra essere accaduto e ciò che è accaduto davvero, fra ciò che ci è appartenuto e ciò che è svanito.

È il viaggio mentale nella memoria e nel pensiero, come quello materiale nello spazio, a ricorrere nel Cielo fra parentesi in immagini e oggetti corposi, lo scompartimento di un treno, una stazione; e poi un veliero, un porto, un aeroporto che vengono in apparenza dal passato ma sono sempre qui, come sul bordo di qualcosa che assomiglia al sogno: quel sogno che qua e là affiora, “ci dicemmo addio nell’angolo di un sogno”. Oggetti, luoghi, volti sempre presenti ancorché lontani o perduti, presenti in primo luogo soprattutto alla vista, acuta e scevra di illusioni e comunque attenta e partecipe: “una dovrebbe sedersi / a osservare gli addii / alla stazione degli autobus. / Dedurre quanto abbiano girato il mondo / quelle vite / dalle ruote consumate / e il viavai di valigie. /…/ Come sarebbe dirsi addio / se fossimo noi quelli sul marciapiede / che si salutano?”.

Tutte le capacità sensoriali sono coinvolte in un approccio al mondo che si apre alla piena accoglienza delle cose. Il corpo si osserva e delicatamente si compiace di sé nelle immagini dell’amore, vagheggiato, vissuto, ricordato. L’amore così presente in questo libro, con il calore della fisicità di cui vien detto con leggerezza soave, “un neo alla sinistra del mio ombelico / gioca da solo / in una piazza senza nome / che ricorda le tue mani”. Per scoprire poi qualcosa che va oltre i sensi ma ad essi è pur sempre congiunta, “se ogni libro che si apre / assomiglia alle cosce / di una donna nuda in un museo, – scrive l’autrice ne “L’ origine del mondo”, evidente allusione al quadro di Courbet – / ciò ch’è la mia fonte / l’ho appreso dalle tue labbra”.

Nella sorprendente immagine del libro che s’apre come un corpo femminile Martínez Pérsico riesce così a esprimere la fusione tra amore e conoscenza, l’amore come forma di conoscenza che nel tu, nel noi, si sperimenta insieme. Così, nel testo “Anatomia espansa”, in cui “basta un pezzo di marmo tra le tue dita / per sapere del freddo”, in cui “l’arcolaio del vento nella tua finestra / ricama alle mie orecchie sottovesti d’oleandro”, vengono ad intrecciarsi amore e conoscenza: l’estremo effetto dell’amore è che io “non conosco questo mondo / senza che tu lo percepisca.” La sensualità sottile che anima il libro mai resta rinchiusa nell’istante, il piacere del tatto e del ricordo è una via per percepire il mondo. Non per nulla “Anatomia espansa” reca in esergo il celebre Esse est percipi di George Berkeley, che peraltro assume qui forma interrogativa: “La realtà delle cose consiste nell’essere percepite?”. Sì, è l’implicita risposta, se è da noi che le cose vengono percepite. L’essere insieme, il partecipare al mondo, il sentire con il mondo, sono una forza portante della poesia in questo libro. La scrittura dell’intimità viene dunque a interrogarsi sull’essere, in un contesto fluido in cui tutto continuamente si muove, in una perenne reconquista del pasado in cui presente, futuro, passato, slittano l’uno nell’altro; dunque negli occhi di un viaggiatore in treno “sfilano memorie del futuro” e a volte, come smarrendo l’uso delle concordanze, “coniugo qualche verbo nel tuo passato / per raggiungere il tuo tempo.”

È dunque in gran parte attraverso il linguaggio dell’amore che Martínez Pérsico attiva, riattiva, le domande eterne del pensiero. In questo interrogarsi viene coinvolto il concetto stesso di libertà, quel libero arbitrio in cui camminano insieme scelta e rinuncia, di modo che se qualcosa hai guadagnato “qualcosa hai perso” dato che “ogni scelta è anche una gabbia”. E dalla consapevolezza malinconica che davanti a ogni scelta “se ne andò con la spazzatura / qualche miracolo nascosto”, traspare non detta la parola “responsabilità”.

È infatti in un’assunzione di responsabilità che Il cielo fra parentesi si scopre popolato di eventi della nostra storia presente con la tragedia endemica cui essa pare condannata, e in cui “esistono soltanto i paradisi / nei quali non si può vivere”, come affermano i versi dello stesso García Montero posti a esergo del libro; “Dopo Sarajevo / non si può guardare un bambino / senza bendarsi gli occhi”, dice Martínez Pérsico nel testo d’apertura, “Franchi tiratori di Sarajevo”; nei cui versi un linguaggio che parla dell’io e dell’infanzia e di un passato personale agisce in maniera, diciamo così, trasversale: basta il suono di una voce che affiora dal ricordo mescolandosi alle musiche dell’adolescenza e che propone in tono leggero, un po’ distratto, vacanze in Bosnia o in Erzegovina, a mettere in luce il dramma jugoslavo come paradigma della storia contemporanea con il quale il linguaggio della poesia viene a misurarsi. È così che dall’orizzonte amoroso raccolto in queste pagine emerge l’immagine di una moltitudine di bambini vittime innocenti, suscitando nell’autrice un sentimento di pietas materna che ne “I suoni di Aleppo” si esprime in tono particolarmente intenso, sgombro da ogni cedimento e facilità sentimentale. “Ho sognato che stavamo in una città bombardata. / …. Mi sono svegliata pensando ai suoni / per non meditare sul silenzio / perché i bambini / non saprebbero vivere nel silenzio, / e nei parchi di Aleppo / non possono più cantare.” È a sua figlia addormentata che sta parlando, in quei toni sommessi, pacati, che si usano davanti a un bambino che dorme. E quel bambino è sua figlia e in lei si riflettono tutti gli altri. “Più di cento bambini sono morti ad Aleppo / e un convoglio di giocattoli è ancora in attesa. / Quando dormi ognuno di loro riproduce il tuo volto.... /…saranno sempre le loro ferite a nominarti / benché intralcino il mondo che ti appartiene.”

Tutto quanto accade all’essere umano appartiene a tutti. Dallo stato di guerra permanente in cui vive il pianeta non ci si può illudere di trovare riparo, se pure le battaglie si svolgono “in altre latitudini… ./ … non esistono orizzonti dove stare al coperto”, scrive Martínez Pérsico in “Atocha, Nizza, Orlando, Parigi”.
È allora l’immagine di una guerra solo apparentemente lontana nel tempo, la Grande Guerra, madre di tutte, a farsi strada nel libro. A San Martino del Carso c’era un albero isolato, un gelso che segnava il confine fra l’esercito italiano e quello austroungarico: quell’albero mutilato di cui Giuseppe Ungaretti dice nella poesia “I fiumi”. Più volte colpito, ferito dalle armi, quest’albero isolato divenne un’immagine direi “radicale” nella poesia di guerra di Ungaretti, simbolo della presa di coscienza della condizione umana, della fraternità nella sofferenza. “È il mio cuore il paese più straziato”, così l’ultimo verso del suo “San Martino del Carso”. A quell’albero la poetessa argentina fa un esplicito riferimento: “Non esistono orizzonti dove stare al coperto. / Le pagine dell’albero di Ungaretti / non invecchiano mai”. Mi sia permesso dire che trovo non solo interessante sotto il profilo critico, ma anche emozionante per il lettore, scoprire come Martínez Pérsico, dalla sua cultura, dalla sua lingua, venga a legare un filo così stretto proprio a quel nostro albero mutilato. Marisa, poeta fra due culture, le possiede entrambe.


Marisa Martínez Pérsico, Il cielo tra parentesi, a cura di Alessio Brandolini, introduzione di Luis García Montero, Edizioni Fili d'Aquilone, 2019, pagg. 130, euro 15.




Marisa Martínez Pérsico
è nata a Buenos Aires nel 1978 dove si è laureata in Filologia ispanica. Dottore di ricerca per l’Universidad de Salamanca, dal 2010 vive in Italia. Scrittrice, critico letterario, traduttrice dall’italiano e docente universitario all’Università di Roma Tor Vergata e all’Università degli Studi Guglielmo Marconi.
Ha pubblicato i libri di poesia: La voces de las hojas (Argentina, 1998), Poética ambulante (Argentina, 2003), Los pliegos obtusos (Argentina, 2004), La única puerta era la tuya (Spagna, 2015), la raccolta poetica Después de la ceniza (Argentina, 2017), El cielo entre paréntesis (Spagna, 2017, pubblicato anche negli Stati Uniti e in Italia nel 2019 da Edizioni Fili d’Aquilone).
Ha pubblicato il romanzo Las manos en la madre (Spagna e Cile, 2018; Colombia, 2019), studi sulla letteratura argentina, spagnola, ecuadoriana e curato edizioni di Leopoldo Marechal, Luis García Montero e Joan Margarit.
Ha ricevuto riconoscimenti sia per la sua poesia che per la saggistica e la ricerca scientifica. Co-dirige la rivista “Cuadernos del hipogrifo”.


tarquini.francesco@fastwebnet.it