Elena ha gli occhi semichiusi.
Ferro, rimbombi, urla, imprecazioni, puzzo di sigarette e di urina, il sapore della bocca, forse metallico, forse no, è il concerto che si ripete quotidianamente da mesi, da sempre: è la sveglia. Non ha molta importanza quanto tempo sia passato ma quanto ne rimane. Alzarsi bene o male è il preludio di una nuova giornata, Elena lo sa e sorride. Si stira il corpo nella branda prima di tirarsi su e come sempre il polso urta l’asta della testiera. Il piccolo dolore acuto che le provoca è l’esatta percezione del suo essere viva, è la certezza che la notte è andata bene. Si siede sul bordo e inizia a tastarsi. Non ci sono tagli, non ci sono schifezze, nessuna delle sue compagne di cella le ha fatto nulla. Non è vero che ci si sveglia se ti fanno del male, ci sono punizioni silenziose temperate dalle droghe, da stordimenti muti. Ieri sera ha fatto arrabbiare Morena. Le ha strappato un foglio dalla sua rivista preferita, perché l’aveva presa in giro per via delle dita unite del suo piede sinistro. Era sempre riuscita a nasconderlo ma Morena se ne è accorta. La rivista era un periodico sui motori. Che idiozia, solo una come Morena si può appassionare di macchine in questo posto. Quando Elena è arrivata l’anno prima lei era già qui, ma non ha mai saputo da quanto, mesi, forse anni, ma non importa.
Il salmodiare di numeri e il clac delle celle che una a una cigolando si aprono, è il primo passaggio.
– Docce! – grida la sorvegliante, e con una piccola bacchetta di ferro va a picchiettare le sbarre delle dormiglione. Dormire, per le veterane, è una delle piccole vere gioie. Quando l’immutabile si sostituisce all’ansia, e sai che resterai qui, sul palmo di una mano conti i piaceri che la vita ti riserva, e uno di questi è dormire.
– Che palle! – Grida Morena, che si è addormentata tardi, ma sempre prima di Elena, che temeva la rabbia della compagna.
– Mi dispiace per la rivista…
– Sta zitta!
– Te ne compro un’altra…
– Ah sì? E con quali soldi? Puzzi di niente, tu!
Morena scende dalla branda, si avvicina e si china piegata sulle gambe davanti a lei.
– Non hai niente, non hai nessuno! – E glielo dice a denti stretti a un centimetro dalla sua bocca. Ha ragione Morena, Elena lo sa. Elena ha perduto tutto anche i suoi genitori, anche suo fratello. Tutti morti. Morti durante una rapina alle poste. Erano tutti insieme perché suo fratello Giovanni doveva aprire un conto, ma senza un lavoro mamma e papà dovevano fare da garanti. Si può essere più coglioni? aveva pensato Elena. Una famiglia di idioti la sua. Perbene e idiota. E quando Pietro è entrato perché voleva solo prendere dei soldi, era talmente accecato dalla paura e dall’eroina che appena Giovanni lo ha riconosciuto e lo ha chiamato per nome lui gli ha sparato. Ha sparato a tutti ed è scappato, e non si è preso neanche i soldi. Elena lo aspettava sul motorino e dopo due chilometri, alla svolta di San Giovanni, proprio a poche centinaia di metri dalla statale, li hanno beccati. Le mancavano due mesi alla maggiore età e quindi, dopo l’esperienza del minorile, senza troppi incartamenti, l’hanno sbattuta nella casa circondariale. Quanto debba scontare poco sa e poco le frega. Tanto fuori non ha più nulla.
– Magari facendo due centrini di più potrai riuscirci… oppure…oppure… ci devo pensare. Di certo dovrai risarcirmi! – Sorride Morena. Elena, che teneva lo sguardo basso, ora fissa i suoi occhi verdi. Risarcire è una parola che speri sempre di non sentire quando sei lì. I debiti o li estingui subito o non li estingui più. Si accumulano gli interessi, che tutto sono meno che in denaro. Sono servizi di varia natura, sessuali, macabri, schifosi, un servilismo che ti fa affondare sempre più. Elena ora si dispiace di non avere già lividi sul corpo, di non avere ancora bruciature e allora si chiede quando inizierà. Quando Morena comincerà a riscattare il suo credito.
Si alza, prende l’asciugamano, lo spazzolino, ed esce dalla cella, va verso le docce, si chiede ancora e ancora se sarà da subito, se sarà da domani. Si guarda intorno. Questo lavoro non si può fare da soli lo ha già visto fare, richiede la complicità di altre detenute, quelle che come lei vivono l’immutabile, il definitivo del carcere.
È arrivata, si spoglia ed entra nella doccia. È un locale aperto, è tutto a vista e a volte è un bene. Tutte possono vedere tutto. Elena si insapona e lascia che il getto d’acqua fredda le fermi il tremito che ha iniziato da quando è uscita dalla cella. L’acqua è sempre più fredda e questo la calma, il respiro torna regolare.
Chiude il rubinetto, prende l’asciugamano e quando si gira trova Morena davanti a lei e dietro scorge Caroline e Fabiola, le due gemelle della cella a fianco che hanno ammazzato i genitori perché non hanno pagato loro un viaggio ai Caraibi per il diciottesimo compleanno. Non ha neanche il tempo di pensare che Caroline le piazza un pallottolo di carta igienica in bocca e Fabiola la tira per i capelli trascinandola. Non c’è più nessuna nei paraggi.
Entrano in uno dei bagni, Fabiola si tira giù i pantaloni e si siede sul water. La puzza è terribile, il mangiare è schifoso e gli escrementi lo sono ancora di più. Quando ha finito si alza, si pulisce e Morena fa un cenno a Caroline mentre Elena prova a ribellarsi, sa benissimo che è inutile ma lotta per regalarsi un istante in più prima di morire. Fabiola le dà un colpo dietro le ginocchia e la fa cadere, le prende la testa e gliela infila nel water tenendogliela giù. L’odore e lo schifo la fanno vomitare in quell’acqua stagnante, rimane così secondi che sembrano ore, forse mesi, forse anni. È in quella immersione che Elena sente che sta per annegare ma deve solo resistere, resistere.
È felice. Sorride felice dentro la merda. Tutto sommato è buona, Morena, non se lo aspettava. Caroline la tira su, lei vomita, tossisce e vomita ancora. Morena all’orecchio le sussurra: – Eh no, non è ancora saldato.
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