«Non sono una prostituta, io stringo solo amicizia con
uomini potenti per questuare soldi su incarico di altri uomini
potenti, per salvare i miei colleghi e per avere una percentuale,
a nessuno gliene frega nulla se so scrivere, se so affrescare
il cielo e disegnare arcobaleni di cristallo, se riesco a volare
sulle ali di un falco, se so stanare le lucciole anche d’inverno
e con loro andare in processione fino al Santuario dell’alba».
Discorso ineccepibile di una modernità straniante, se non fosse che il mondo della comunicazione, parte di un tutto avviato sulla medesima china, contenuto in Senza testa, racconto di Maria Grazia Di Mario, inquadrato da una soggettività al femminile, riguarda tutti noi, nessuno escluso. A leggere bene in profondità questa storia ci si accorge ben presto che l’autrice non ci sta parlando solo di una femminilità stravolta in una corporalità che una volta era almeno parte di un tutto antropologico e culturale e oggi è ridotta a serie di oggetti da catalogare ed usare: ci fa entrare in un discorso che riguarda tutti, maschi, femmine, professionisti di un lavoro, come quello giornalistico (ma non solo quello), avviato – da tempo – sul viale della proletarizzazione, si sarebbe detto una volta in ambito marxiano.
Di Mario ha il grande merito di non generalizzare: mostra la capacità di arrivare al tutto attraverso una parte: il giornalismo per il lavoro inteso nella sua antica e proverbiale nobiltà, il corpo per la donna, ma nel contempo per la situazione più latamente umana nell’oggi.
L’interesse di Senza testa sta proprio in questo andamento induttivo, per cui dal particolare si arriva al mare profondo di un esserci minacciato da due elementi che si stanno sfortunatamente incontrando: la precarietà, da qualche tempo endemica, di un lavoro peraltro necessario per la democrazia degna di questo nome, ma in modi diversi dall’oggi, e la smaterializzazione del lavoro in generale che sta portando alla crisi del modello lavorativo otto-novecentesco e ad una difficoltà di individuazione di nuovi modelli, ancora sconosciuti perfino agli addetti ai lavori e alle proprietà.
La sensazione di spaesamento, di ingresso in un mondo non più familiare è oggi non più una dimensione narrativa mutuabile da un Tozzi piuttosto che da un Moravia, se non vogliamo scomodare il Pirandello di Uno nessuno e centomila e dell’incompiuto I giganti della montagna, ma una realtà di fatto. Di Mario coglie in modo icastico, attraverso il procedimento della sineddoche, basato sul trasferimento del tutto in una parte, l’essenza di un mondo in crisi da tempo, per colpa soprattutto di una politica basata sulla gestione dei clientes e non sulla capacità e il valore in un momento in cui tutto questo sta finendo per l’accelerazione tecnica.
È un flash che coglie e immobilizza un momento di passaggio che ha molto del vecchio mondo e poco, per mancanza nostra di nuove certezze cui riferirci, del nuovo.
Una donna si sveglia, come in un incubo kafkiano, parte di sé, in questo caso una parte celebrata laicamente come lato b, rinunciando ad una testa pensante ingombrante, non necessaria, anzi, spesso ostacolo alla piena realizzazione sociale. Già qui il riferimento alla Metamorfosi è stravolto da un uso apparentemente meno nobile dell’animalizzazione infima di Kafka, ma da qui parte una serie di situazioni che raccontano per filo e per segno lo sguardo sulla donna oggi, e non solo la donna.
Di Mario racconta l’inautenticità di un intero mondo in cui si entra solo per raccomandazione, senza che a nulla serva la testa, in questo caso diploma, laurea, dottorato di ricerca, merito, cultura, onestà, capacità, per non parlare della sensibilità. La parte del corpo tanto strombazzata dai media d’oggi è divenuto il soggetto del lavoro, dell’incontro, compreso quello apparentemente affettivo. Ma questo è un altro discorso.
Un merito essenziale di questo racconto è che esso non è un manifesto femminista, ma è qualcosa di più universale, perché dentro questo inferno dantesco ci sono le responsabilità di quanti, uomini e donne, hanno accettato passivamente e sfruttato mediaticamente l’uso del corpo, non più e non solo a livello estetico, ma come strumento di successo, appagamento, visibilità. Assistiamo allo spettacolo di attrici e attori che assicurano parti del loro corpo – gambe, ma anche toraci (Tom Jones), capelli, lati b, seni ed altro ancora – con cifre fuori dall’immaginario.
La presenza di un barbone – e quante volte l’emarginato, il pharmakòs della Grecia arcaica e delle società protostoriche, nella letteratura assume una funzione salvifica – che finalmente guarda negli occhi la protagonista diviene un elemento di crisi, perché sembra quasi una minaccia in un mondo in cui lo sguardo è altrove. Il capovolgimento dei meriti con la declassificazione di tutto ciò che si è fatto per trovare il lavoro desiderato è la classica goccia che fa traboccare il vaso. È una liberazione, quella crisi finale, che lascia aperta la porta della speranza, perché nel pieno della notte, ce lo hanno insegnato anche le Scritture, si intuisce la prossimità delle prime luci.
Uscì a mani vuote (senza il suo curriculum) e si diresse verso la metro, nel primo cassonetto gettò quelle maledette scarpe rosse con i tacchi a spillo che non indossava quasi mai, e corse via, leggera, a piedi nudi. Nessuno, neppure se stessa, avrebbe potuto rinchiudere, derubare, annientare la sua testa. Lei non si sarebbe mai fermata. Nel cielo una magnifica luna d’argento.
Maria Grazia Di Mario, La donna senza testa. Una storia semiseria ma soprattutto semivera, L’Erudita, 2019, pp. 40, 13 euro.
Maria Grazia Di Mario Laureata in Lettere e Filosofia presso la Sapienza di Roma, è giornalista professionista, editore, poetessa, sceneggiatrice. Tra i giornali ed emittenti con i quali ha lavorato: Il Messaggero, Avvenire, Paese Sera, L’Umanità, il Radiocorriere Tv, Canale 5, anche con funzioni di caposervizio. Attualmente è il direttore di SABINA, www.sabinamagazine.it, thefilmseeker.com.
Tra i suoi libri: Alberto Moravia, Il Profeta Indifferente, Cabricia e il Serpente, L’Attesa Infinita.
La donna senza testa è tra i primi tre vincitori del Premio Argenpic 2018, per la sezione narrativa (inediti).
testi.marco@alice.it
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