FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 52
maggio/agosto 2019

Sorelle & Fratelli

 

COMUNQUE FRATELLO

di Armando Santarelli



Nel meraviglioso intreccio novellistico di Lermontov Un eroe del nostro tempo, che ha meritato il titolo di prima opera psicologica della letteratura russa, il Narratore giustifica la scelta di rivelare i segreti del cuore di un uomo – ovvero di pubblicare il diario del capitano Pečorin – col “desiderio di essere utile”. –

Non so se sarà utile mettervi a parte dei segreti di Fabio. Ma di sicuro è anch’egli un eroe; chiunque abbia avuto l’anima straziata, e cerchi ogni giorno di raccattarne i pezzi, è degno di questo titolo.

È opportuno aggiungere che il Narratore di Lermontov non è mai stato amico dell’uomo di cui descrive le gesta, anzi, non l’ha mai conosciuto. Io e Fabio, al contrario, ci vogliamo bene sin da bambini. All’asilo era il mio compagno di giochi preferito. A scuola, quando era tempo di eleggere il capoclasse, il mio voto andava sempre a lui; per converso, dovendosi premiare ogni mese il disegno più bello, Fabio finiva ogni volta per preferire il mio a quello di Lino, anche quando ero io stesso a riconoscere che il mio rivale aveva fatto meglio.

Oggi come ieri, quando abbiamo occasione di vederci, Fabio inizia a salutarmi da lontano, portando una mano sul cuore. È un vecchio rituale, che solo noi siamo in grado di interpretare. Con quel gesto, Fabio vuol dirmi: “So che mi vuoi bene, e so che me ne vuoi anche perché sono incorso nella disgrazia”.

Questa disgrazia – l’onta più grave nella storia del paese caduta sotto il mio giudizio – non avrei potuto evitargliela; al tempo in cui si verificò eravamo poco più che bambini. Eppure, è con fastidio molto vicino a un senso di colpa che continuo a chiedermi quanta coscienza ebbi allora di ciò che gli stava accadendo, e di cui si mormorava in paese con un funesto tono omertoso; che non risparmiò mia madre, allorché mi intimò, senza spiegazioni, di non frequentare più il mio amico del cuore. Ma non ce ne sarebbe stato bisogno: fu Fabio stesso che da un giorno all’altro non mi scelse più come compagno di giochi.

Tornammo a frequentarci qualche anno più tardi, da liceali; e sebbene i fatti che lo riguardavano mi fossero ormai noti, per molto tempo rifiutai consapevolmente di scavare nella sua terribile vicenda, forse per timore di una verità che intuivo essere più dolorosa di quanto immaginassi.

L’ora della cruda realtà, il filo invisibile che ci avrebbe unito per tutta la vita si materializzò in una calda e tersa giornata primaverile.

Ci eravamo incontrati nel pomeriggio, mi chiese dove fossi diretto.

“Al bar”, risposi, “c’è il Giro d’Italia.”

“Ah, c’è la montagna, vero?” replicò senza entusiasmo.

“Sì, è la seconda tappa in salita, voglio godermela in prima fila.”

“Vieni a casa”, mi fece, “la poltrona è tua”.

Accettai quasi a malincuore, augurandomi che gli inevitabili discorsi che si prospettavano non mi distogliessero dall’evento sportivo.

Andò proprio in quel modo: parlammo pochissimo, perché, stranamente, Fabio non sembrava interessato né alla corsa né a intavolare alcun tipo di discussione.

Dopo un paio d’ore passate nella semioscurità, ci rituffammo nel tepore dell’avvolgente luce primaverile, e iniziammo a passeggiare.

Il mutismo di Fabio continuava, allora: “Una briscola, ti va? Anzi, il tressette, è più adatto al momento”.

Restò terribilmente serio. “No, no,” rispose quasi con disgusto, “al bar non ci vengo, oggi Franco è nervoso”.

Lo guardai con stupore: “Che vuoi dire?”

Scosse la testa, come per scacciare un brutto pensiero: “Lo conosci, no? Quando è incazzato si mette a sfottere, a provocare”.

Non ero meno sorpreso: “Ma è un insetto! Lo ignori, o gli rispondi come merita! Non capisco”.

“Proprio un insetto, hai detto bene. Ma velenoso... L’ha già fatto, magari perché discutevamo e non eravamo d’accordo, o perché gli rodeva. Piglia e si mette a insultarmi…”

Avvertii un’istantanea, orribile oppressione: “Ti riferisci a quel periodo della tua vita?”.

“Certo, a che cosa sennò. Non ho finito di pagare, non finirò mai. Perché lui è il peggiore, ma ce ne stanno altri due o tre”.

“Parli come se ti ricattassero”.

Fece una piccola smorfia: “In qualche modo è un ricatto, sì. Se gli gira male ti svergognano quando vogliono”.

“Che merde! Eri solo un ragazzino...”

“E che gliene frega a gente così… Mario, io porto un marchio, lo capisci?”

“Marchio?”

“Quando sai che una persona può sputtanarti da un momento all’altro davanti a tutti, non porti un marchio?”

Avevamo raggiunto, passeggiando, il Giardino della Rimembranza. Quando il silenzio si fece pesante, gli chiesi se non fosse il caso di parlarne.

“Che vuoi sapere?”, fece con un’espressione da patibolo.

“Solo com’è iniziato”.

Annuì: “Prima, però, devi dirmi la verità. Hai avuto sempre un affetto forte per me, certe volte m’è sembrato perfino esagerato. Dimmi: c’entrava il mio passato?”.

“Sì, è così”.

Sviò lo sguardo: “Mario, se qualche volta sono stato freddo, scusami. Quando t’hanno fatto del male diventi strano, duro. Sono passati anni, lo so che il tempo lavora per me, e qualche volta mi illudo che si possa dimenticare, io per primo. Poi senti un vuoto dentro, e capisci che certi danni non li ripari più. Sì, può succedere di scordarti il male che hai ricevuto. Ma quando t’hanno umiliato no, non t’abbandona mai”.

Tacque. Continuava a fissare il vuoto, attonito, perso, come quegli animali che ti guardano con le pupille spalancate anche dopo la morte.

Poi girò impercettibilmente il capo: “Mi ricordo quello che mi dicesti un giorno. Stavamo alla Pro-loco, da soli. Parlavamo di pippe, e tu mi raccontasti di quando tua madre ti disse che era un peccato, un atto contro natura”.

“È vero, disse proprio così. Sapevo che lo facevano tutti, per questo glielo dissi. Ma lei fu durissima, mi terrorizzò”.

“Sì, t’avrà fatto male, t’avrà condizionato, okay. Ma io, quanto fui invidioso di quelle parole! Io coi miei non parlavo, non sapevano dove andavo a ficcarmi, non mi cercavano mai. Vedevo tua madre, Beatrice, Gisella, che venivano a strillare sotto le mura, e guai a non rispondergli! Tu avevi paura di tua madre, e ti tiravi indietro per certe cose. Ma io potevo rimanere quanto volevo, il gioco non finiva mai. Un giorno si fece diverso... tu te ne andasti, quando lo tirammo fuori. Stavamo dentro la casa di Pacifico, era in costruzione, ricordi? Ci andavamo di sera, ci sdraiavamo sui cartoni per sentirci grandi con le pippe. C’eravamo io, Sandro e Luca, ci divertivamo solo a scherzare e a spipparci. Poi, fosse che qualcuno aveva parlato, o per caso, un giorno arrivò Nuccio. Entrò all’improvviso, e iniziò a minacciarci. Poi cambiò tono, fece quello sguardo furbo, quando pare che sorride, e intanto macchina qualcosa. Ci disse che gli piaceva come ci eravamo sistemati, che facevamo bene a spassarcela, ma che lui conosceva altri modi... Non ci fidavamo, eravamo impauriti, ma forse proprio per questo qualcuno di noi disse di sì, che voleva provare. Un ragazzo più grande di quattro-cinque anni è un’autorità, lo sai. Fece le cose per bene, ci parlò, ci diede le gomme americane, poi ci disse di calarci i pantaloni. Luca aveva paura e se ne andò. Io e Sandro ci sdraiammo sui cartoni… Non era più un gioco, lo capii subito, ma il giorno dopo ristavo lì, da solo. Lui mi mise in bocca una sigaretta, mi sentivo un Padreterno quando facevo quelle boccate di fumo… Tu non ci crederai, ma furono le sigarette a darmi il colpo di grazia. Le vendevano sfuse, erano in pochi a potersele permettere. E poi, i tabaccai non le davano ai ragazzini. Un giorno, usciti dal doposcuola, mi si accostò Renato, mi diede una sigaretta e mi disse se volevo fare pure con lui le cose che facevo con Nuccio. Renato era simpatico, era forte, lo ammiravamo tutti, ricordi? Dissi di sì. Adesso avevo due protettori, mi sentivo ancora più importante. Intanto la gente aveva cominciato a guardarmi in un certo modo, e qualcuno fra i più anziani, quando passavo, scuoteva la testa. C’è una cosa che ancora non posso credere: in nessun altro posto come in un paese sai che tutti sanno, e senti la vergogna. Come ho fatto a resistere? È questo che non mi dà pace. Come ho fatto a ingannare i miei genitori per tanto tempo? E Cristo, loro dov’erano? E gli altri? Solo Emilio, il nonno di Gaetano, mi disse qualcosa. Salvo lui, nessuno m’ha preso una volta da parte per dirmi: che fai? O per riempirmi di schiaffi, come meritavo. Nessuno è andato dai miei, devi crederci. E così è arrivato il peggio…”

Intuii che Fabio pensava che conoscessi i nomi delle persone cui aveva alluso. Ma io li ignoravo; erano state proprio alcune frasi impertinenti dei nostri compagni di classe a farmi ripudiare ogni altra curiosità, perché si erano inchiodate a sangue nella mia testa, insieme alla speranza che si stesse usando parecchia fantasia quando si diceva che “ormai ci vanno in tre o quattro per volta”, oppure “fra poco, se continua così, se la farà sotto”, e più terribile di ogni altra, “ci hanno infilato una mano”.

“Brave persone, vero?” fece muovendo solo le labbra.

“Fabio, non ho mai saputo chi fossero”.

Trasalì: “Ah, c’è qualcuno che non lo sa? Il fatto lo sanno tutti, chi è stato no… Te lo dico io, i bravi cristiani, i padri di famiglia. Avrebbero smesso se il padre di uno di loro non ci avesse beccati? Un uomo di sessant’anni che per poco non scazzotta il figlio davanti a un ragazzino...”

“Il padre di chi?”

“Di Mimmo Firri. L’altro brav’uomo è il caro presidente della confraternita, Anacleto. Uomini fatti, uno era fidanzato in casa, quell’altro era sposato. Dimmi, hai mai saputo che gli piacciono i ragazzini? No, non erano pedofili, e io non sono un invertito, eppure è successo...”

Chinò la testa, la voltò senza un sospiro, e nascose il viso; sapevo che gli si stava rigando di lacrime.

Quando, con una lieve torsione del capo, tornò a mostrare il profilo, gli feci la domanda cui mi dirigevo come verso l’ultimo lume acceso nel buio: “Ti hanno mai chiesto...”

“Non riesci a pronunciarla quella parola, vero? No, non me l’hanno mai chiesto. Però me lo sono immaginato che uno di loro mi dicesse: ‘Ho sbagliato, ti chiedo scusa’. Sai che gli avrei risposto? Vorrei sapere solo una cosa: ma non ti vergognavi? Mi chiedi scusa, ma che cosa cambia per me? Io me lo porto addosso due volte il male che mi hai fatto. Non sei un pervertito, potevi scegliere di non farlo. Io non posso scordare che quando sei entrato lì sotto eri come un Dio. Potevi salvarmi o distruggermi. Hai scelto”.

“Qualcuno”, mormorai, “ha detto che spesso le azioni cattive sono prive della malvagità che pensiamo e che ci fa soffrire ancora di più.”

“Mario, nemmeno io penso che siano persone così malvage. Ma questo non fa che peggiorare le cose, capisci? Ma adesso basta, scusa”.

Ero già molto legato a Fabio, ed è naturale che da quel giorno mi sentissi ancor più vicino a lui. Quando mi fece quella tremenda confessione avevamo appena superato il penultimo anno di liceo, e fui io a insistere perché la soluzione che era nell’aria – ovvero lasciare il paese – diventasse l’anno dopo cosa concreta.

Tuttavia, una volta stabilitosi in città, il nostro rapporto ne soffrì. Inutile chiedersi perché, i miei sentimenti non erano mutati, e credo neppure i suoi; nostro malgrado, ci avviammo verso quelle secche dell’amicizia dove non trova più gusto a nuotare chi è costretto a rimanere in acque basse. Quando ci si ritrovava era festa, gesti e sguardi degni di un sentimento fraterno. Ma quando Fabio riprendeva la via della città, i nostri contatti si riducevano a poche telefonate annuali e alle cene di rito in occasione dei rispettivi compleanni.

Lo accompagnavo, questo sì, con una sincera speranza: senza escludere che il destino potesse risarcirlo con qualcosa di grande e benefico, era in una sana quotidianità che vedevo il miglior lenimento alle sue ferite. Ma fabbricare una solida costruzione con materie prime deteriorate è difficile, se non impossibile. Fabio si era procurato un impiego interessante – faceva l’arredatore di negozi – ma era troppo discontinuo, si assentava spesso dal lavoro e, cosa peggiore, considerava queste fughe “doverose”, necessarie per non entrare definitivamente nell’ottica di considerarsi, così diceva, “un oggetto per sistemare oggetti”.

Ciò che soprattutto mi auguravo, però, era che il dolore e l’odio rinserrati in quell’animo non partorissero altri mostri. Invece, una sera, Daria, la sua compagna, mi comunicò la notizia che più temevo. Il giorno dopo chiamai Fabio al telefono e gli chiesi come andavano le cose.

“Mi drogo”, rispose a bruciapelo.

Assunsi anch’io un tono perentorio: “Padronissimo, ma così hai solo complicato le cose. E poi, Daria non meritava questo. Comunque, c’è una sola cosa da fare, non perdiamo tempo”.

Sulla necessità di un ricovero immediato in una comunità per tossicodipendenti ci trovammo tutti d’accordo, lui compreso. Accompagnandolo, mi pareva che stessimo portando un bambino al primo giorno d’asilo. Usai proprio queste parole, con lo scopo di sdrammatizzare la situazione; d’altronde, per molti versi corrispondevano alla realtà. Fabio fu rieducato a norme comportamentali la cui rigidità diventa fondamentale per un tossicodipendente, perché antitetica alla vita precaria e sregolata cui lo costringe il vizio. Non meno importante si rivelò la fase di socializzazione con persone accomunate a lui dalla sofferenza, e le sedute terapeutiche di gruppo, in cui ci si confessava e si discuteva assieme: forse per la prima volta nella vita, Fabio udì con le sue orecchie storie ancor più orribili di quella che lo aveva segnato.

“Non dobbiamo temere purgatorio e inferno”, mi disse la seconda volta che andai a trovarlo, “sono già qui. Guarda quello”, e indicò un riccetto con un torace da uccellino, “ragazzi più grandi di lui lo incatenavano a un albero e lo picchiavano. No, nessuna violenza sessuale, per fortuna. Ma c’è di peggio, c’è anche l’inferno, ti dicevo. Guarda quello col foulard, quel biondo elegante. È un avvocato del nord Italia. Nella sua città passava come il figlio brillante di una famiglia modello. Da bambino è un po’ introverso, ma è bello, ubbidiente, intelligente. Si diploma, si laurea, lo corteggiano tante ragazze, le mamme gli stendono davanti il tappeto, ma lui niente, niente donne, niente sesso. Un giorno, una collega lo convince ad andare in terapia; invece che migliorato, ne esce distrutto. È una storia assurda: l’aveva violentato lo zio, il fratello del padre, l’uomo più stimato della città. Siamo figli di Caino, ecco chi siamo.”

Fece una pausa, e mi fissò: “Ma... è peggio essere violentati da uno zio malato o da una persona sana?”.

Nonostante lo choc, vidi un indizio positivo nel terribile sarcasmo; in effetti, le condizioni fisiche e psichiche di Fabio migliorarono sensibilmente, e dopo circa tre anni la comunità ci restituì una persona che pareva innervata di nuove certezze.

Ma ci illudevamo. Fabio trascorse un anno intero senza accusare problemi; poi i fantasmi del passato e la dipendenza psicologica dalla droga, in un misterioso connubio di causa-effetto, tornarono a tormentarlo.

Temetti il peggio, anche perché altre macerie si andavano accumulando. Già prima di cadere nella tossicodipendenza, Fabio non tornava quasi più a trovare i vecchi genitori, che ormai riversavano tutto il loro affetto sull’altra figlia, di due anni più piccola di Fabio, e sul figlioletto di questa. Durante l’intero periodo del ricovero, Fabio non li vide mai, né scrisse o ricevette da loro una riga.

Volendo scongiurare che troncasse definitivamente i legami con la famiglia, colsi la prima occasione per parlargliene, e nonostante una certa cautela non potei evitare un tono di rimprovero. Lui mi fissò con uno sguardo che non gli avevo mai visto, cinico e sfuggente al tempo stesso: “Nessun problema, io non ne soffro, e se devo dar retta a mia madre non ne soffrono nemmeno loro. È stata lei a dire tante volte quella frase: ‘Il sole, tanto vede tanto scalda’.”

Forse il mio fu soltanto un alibi, ma realizzai che l’amicizia non può molto dove hanno fallito sentimenti più importanti. E per quanto egoistica fosse tale conclusione, si dimostrò vera, nel senso che fu un sentimento più forte dell’amicizia, e che andava crescendo nel tempo, a tenere viva la fiammella che avevamo accesa quando Fabio era entrato nella Comunità di recupero. Non avrei mai indovinato, però, che questo sentimento potesse riguardare la persona il cui amore Fabio non aveva ricambiato – a suo dire – se non in minima parte: Daria.

Da tempo insistevano perché facessi loro visita, e un pomeriggio mi decisi. Mentre parlavamo, si tennero stretti sul divano in un atteggiamento di tenerezza che non gli avevo mai visto; Daria era più bella del solito, e non mi sfuggì il nuovo, luminoso sguardo con cui Fabio accompagnava ogni suo gesto.

“È una donna leale”, mi fece quando lei si assentò per preparare la cena, “che meritava molto più di quanto finora le abbia dato. Ma forse è cambiato qualcosa. Tutto è illusione, sì, ma due illusioni messe insieme cominciano a contare qualcosa. È successo qualche settimana fa, ascolta. Torna dal parrucchiere, mi bacia, mi guarda con gli occhi lucidi e tira fuori dal cappotto una pagina strappata da un settimanale. Mi dice ‘leggi, forse io sto peggio dell’uomo di questa storia’. Prendo il foglio, comincio a leggere; alla fine, per poco non scoppio a piangere. Era la storia di un calciatore, di una promessa del mondo del pallone. Sa giocare, arriva addirittura in serie A, ma non regge allo stress e a ventitré anni molla tutto e ritorna al paesello. Lì ha un’altra delusione; la ragazza di cui era innamorato gli dice che ha un altro, e dopo un po’ si sposa. Lui si deprime, abbandona pure l’università e rimane a vivere con la mamma, lavoricchiando qui e là. Un giorno, tornato per una visita medica nella città dove giocava, incontra il vecchio allenatore, che lo abbraccia e gli chiede come sta. “Eh, mister, anche peggio di prima, sono innamorato di una donna sposata”. “Beh”, gli fa quello, “non sei così sfortunato, a te batte ancora il cuore”.

“È una storia bellissima, Fabio”.

“Lo sapevo che ti avrebbe commosso”.

Ebbi di nuovo la certezza che Fabio mi conoscesse meglio di quanto io abbia mai potuto comprendere lui. Ed è proprio in virtù di un affetto che non si nutre di illusioni che il nostro rapporto continua a viaggiare sui binari di sempre.

Io so che lui è un depresso cronico, che però non vuole darla vinta all’assurdità di un’esistenza diventata subito tragica, perché ha conservato un pizzico di fiducia negli altri, e soprattutto in sé stesso. Il giorno stesso che lasciò la comunità, volendo mettergli sotto gli occhi nuove motivazioni, gli feci un lungo discorso sui benefici che avrebbe potuto ricavare da un’attività “creativa”, insomma qualcosa di più allettante e soddisfacente del lavoro che svolgeva.

Mi fulminò con lo sguardo: “Come fai a essere così cieco? Io credo solo nella creatività, non ho altri obiettivi. Riparo ogni giorno gli sbagli che la natura ha combinato creando me e i tipi che conosci”.

Fabio sa che sarò sempre un amico fedele e un terapeuta fallito. Non totalmente, però. Di recente, alla fine di una lunga discussione, era tornato nei circoli viziosi dell’odio per sé stesso, per chi gli aveva rovinato la vita, per il mondo intero.

“Senti Fabio”, replicai con calma, “c’è un piacere anche nella sofferenza, nel continuare a sentirsi una vittima. Forse è il tuo caso. Se però mi sbagliassi, puoi sempre sperare che crepino presto tutti quelli che sanno. O farli fuori tu stesso. La soluzione finale, no?”.

Stavolta gliel’ho strappato, un sorriso, un sorriso che non vedevo da tempo sulla sua faccia da Cristo sofferente. E poiché Fabio è sempre il mio eroe, è con fierezza che sento di essere, in tali momenti, una persona importante per lui. Sotto questo aspetto, ho un solo “rivale”, per il quale tuttavia, provo solo affetto e simpatia.

Qualche giorno fa, su un prato di Villa Borghese, ho visto Fabio correre incontro al nipotino e abbracciarlo. Non so se abbia notato la mia commozione, che ho cercato subito di reprimere. Del resto, non sono sicuro che sarebbe stato in grado di interpretarla. Forse avrebbe ripensato a quella serrata discussione, l’unica volta che ci trovammo completamente in disaccordo, quando mi disse che non avrebbe mai voluto un figlio. Sapevo che dibattere a lungo sarebbe stato vano, così cercai di dare vigore al mio pensiero con le parole più convinte che mi riuscì di trovare: “Perché vuoi diminuirti per colpa di altri? Un figlio è comunque una ricchezza. Ti stai facendo sottrarre altra vita da chi te ne ha già tolta una parte.”

“È un argomento forte, lo riconosco”, replicò, “degno di un buon prete. Ma ci ho già riflettuto, anche con Daria. Non me la sento, non voglio un bambino. C’è gente sfortunata che vuole i figli nella speranza che a loro vada meglio. Ma io ero un bambino normale, inoffensivo, e la vita m’ha punito. Non voglio trasmettere certe paure. Sarei un genitore apprensivo e insicuro. No, non lo voglio”.

Ma la mia commozione non era dovuta al pensiero che il gesto affettuoso di Fabio avrebbe potuto riguardare un figlio, anziché un nipotino; la ragione era un’altra, e credo proprio che non avrebbe mai potuto indovinarla. Io ho l’abitudine di abbracciare i miei amici, e l’ho fatto tante volte pure con Fabio. Lui, però, non ha mai ricambiato il gesto, né con me, né con altri; ogni volta, davanti alle braccia protese, le sue sono rimaste penzoloni lungo il corpo. Quell’abbraccio al nipote era il primo che gli avessi visto dare a una persona di sesso maschile.


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