FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 52
maggio/agosto 2019

Sorelle & Fratelli

 

SENZA MAI ARRIVARE IN CIMA
Riflessioni sul nuovo racconto di Paolo Cognetti

di Marco Testi



Il viaggio è una componente ineludibile della psiche umana. Quello che sorprende è che esso non è tramontato assieme a tanti altri idoli d’occidente: è una sorpresa di breve durata perché in realtà viaggiare è una rappresentazione psichica, oltre che una realtà. Le due componenti unite sono garanzia di per sé di alterità rispetto agli eìdola così come si sono configurati nella nostra cultura, come pure le rappresentazioni veicolate mediaticamente e destinate al tramonto consumistico. Basterebbe ripensare a quando il viaggio non è stato solo vagheggiamento d’altre dimensioni, come nello stesso Baudelaire che il viaggio reale la aveva abortito, o in Chateaubriand, ma esso stesso limen da superare nel tentativo di nuova comunione con qualcosa che è già stato nostro, come in Thoreau. L’esotismo può nascondere sorprese se non ci si fa prendere la mano dal vezzo dell’ipercriticismo, aprendo nuove dimensioni di dialogo e liberazione, mi si passi il paradosso, da vecchie libertà “borghesi” contrabbandate come la soluzione di ogni problema. Dopo Rimbaud, ad esempio, la concezione stessa di viaggio (in occidente, perché altrove aveva conservato questa valenza profondamente simbolica) ha subìto una ulteriore variazione che non è solo fuga dalla sazietà, ma anche, sorprendentemente in anticipo sulla età anagrafica del poeta di Charleville, capacità di ironia non solo sui vezzi dell’intellighentzia ma sulla propria arte: l’antico ragazzetto vagabondo rideva del borghese che si sdilinquiva a leggere poesie appartenenti, per l’antico-giovane poeta, ad un’età ormai tramontata.

Ogni cosa ha la sua epoca, una per corteggiare i vezzi poetici di una cultura ormai sazia, un’altra per diventare ciò che si pensa essere fuori dalle rotte turistiche. È così che il nuovo libro di Paolo Cognetti, Senza mai arrivare in cima, assume il difficile compito, se visto dal punto di vista del mercato editoriale, di continuare il successo, culminato con l’attribuzione dello Strega di Le otto montagne. Il rischio saturazione (ma anche, all’opposto, il vantaggio della serialità, che oggi ha ripreso fiato e spazi mediatici) è notevole, perché il discorso è ancora una volta quello della montagna e del viaggio. Ma il discorso non è né traduzione di altri discorsi, quelli religiosi e metafisici che continuano a popolare le fantasie di tanti, né sfruttamento di un filone, che in realtà è l’umile presa di coscienza di fare, in questo caso di scrivere, ciò che si conosce e si fa. Uno dei pregi di questo libro è proprio quello di dire quello che si è e si fa, senza i trucchi delle strategie del plot e della creazione di suspense. Anche quando Cognetti parla di visioni che probabilmente rimarrebbero impresse nella psiche di qualsiasi individuo non completamente addormentato dai media, lo fa semplicemente, senza cercare l’effetto a tutti i costi. È così che gli incontri con persone che non attraverseranno più la sua strada, a 4000 e passa metri d’altitudine, sono tutti nell’accadimento dell’incontro stesso, che le parole del dopo, figuriamoci la foto o peggio il selfie, non farebbero altro che cancellare nel tentativo di dire l’emozione. Qui le cose accadono con la lentezza della caduta della neve e la calma del ghiaccio e dell’albero. Gli stessi spettacoli naturali non vengono impiegati per stuzzicare la curiosità o la meraviglia del lettore, ma presentati nel loro semplice essere, senza le forzature retoriche dell’effetto per la causa (la spinta alla meraviglia invece che la presentazione di ciò che la ha motivata).

“Lo sguardo di chi attraversa il deserto è tutto interiore”, e le risposte a chi chiede perché si viaggia sono sia in questo libro, “impara che ben più prezioso della vetta è il sentiero. Trova un senso in ogni passo. Dentro questa concentrazione”, sia in tutto un processo culturale che non è rimasto tale, ma si è incontrato con l’essere.

A leggere queste parole vengono in mente quelle del Michelstaedter che scriveva che “Il porto è la furia del mare”, o l’inquietudine vagabonda non solo del già detto Rimbaud, ma di Dino Campana e del suo insaziabile camminare senza meta tra circhi, feste di paese, amori che parlavano di altri amori più radicati nell’essere. Una profonda e per questo apparentemente distaccata comprensione dell’incontro apparentemente casuale e di quella che in occidente chiameremmo pietas se non avessimo paura di essere fraintesi (non pietà, ma sporgersi dentro l’autenticità di sé attraverso il riconoscimento di una parte di questo sé del e nell’altro) regna in questo racconto di un’esperienza iniziatica. Già questo senso di incontro fatale e nello stesso tempo portatore di lontananza necessaria era apparso, nelle Otto montagne, nella figura di Bruno, l’amico trovato tra i pascoli e perduto anche per quella che qualcuno chiama lotta per la sopravvivenza e altri disperazione dell’arrivo di strade che portano apparente benessere e per di più a pochi.
L’incontro ha tanti volti, lo dimostra anche la storia nella storia del Leopardo delle nevi di Peter Matthiessen, libro-mantra che torna continuamente nel racconto, come icona del cercare come senso della vita.

Un elemento forte del libro è rappresentato dalla differenza tra sentieri e strade, quelle per le macchine e per il progresso. La costruzione delle strade tra luoghi che non le ricordavano segna la scomparsa dei sentieri. Talvolta questi si interrompono e devono essere ritrovati o semplicemente sfiorati da altri. E non solo materialmente.

La ricerca diviene il senso di questo libro fortemente permeato, mi si perdonerà il gioco di parole, di ricerca di senso. Ma non un senso definitivo, tutt’altro. Come nel Monte Analogo di Daumal, non è questione di una vetta definitiva. L’incompiutezza di quello strano libro, dovuta anche alla scomparsa dell’autore, non è che un segno di una ricerca più profonda. Senza mai arrivare in cima, già nel titolo, fa parte delle testimonianze di questa antica genìa di narratori-viaggiatori che fanno dell’essere stranieri e pellegrini su questa terra il senso stesso del viaggio.


Paolo Cognetti, Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, Einaudi 2018, 107 pagine, 14 euro.


testi.marco@alice.it