L’antologia italiana Ai margini di un mondo sconosciuto (Edizioni Fili d’Aquilone, 2019) del poeta, saggista e traduttore Adalber Salas Hernández (Caracas, 1987) raccoglie una selezione di versi tratti dai libri Salvacondotto (Salvaconducto, Pre-Textos, 2015, vincitore del XXXVI Premio Internacional de Poesía Arcipreste de Hita) e La scienza degli addii (La ciencia de las despedidas, Pre-Textos, 2018), oltre a dieci poesie da Nuove Carte Nautiche (Nuevas Cartas Náuticas, 2019), pubblicate per la prima volta in questa edizione curata da Alessio Brandolini.
Partendo da un senso di estraneità nei confronti della realtà che lo circonda e scavando a fondo nella memoria collettiva, il poeta si confronta con le complessità di una società in crisi come quella venezuelana e tenta di conservare il ricordo di vite e storie stroncate dalla violenza e soffocate dal dolore. In Salvocondotto si descrive la realtà urbana della città di Caracas, che appare agli occhi del lettore come una sorta di inferno dantesco (difatti, le raccolte del 2015 e del 2018 si aprono citando in epigrafe versi del III Canto dell’Inferno e del XIII Canto del Purgatorio), in cui ogni cosa sembra priva di spessore ed ogni esperienza è come minata dalla degradazione della vita quotidiana. Le voci e i racconti offerti dal poeta riportano gli esempi di un malessere profondo e lacerante, le storie di figure umane semplici ma intense che sopravvivono in silenzio o che si difendono senza tregua dall’indifferenza e dalle ipocrisie della vita. Ciò che viene trasmesso al lettore è il profondo senso di inquietudine che accompagna chi percepisce e vive il dolore del presente e, al contempo, assiste al progressivo logoramento del tempo passato. Per questo motivo, il poeta si interroga sul valore dell’esperienza all’interno di una civiltà ormai ridotta allo stremo e sul profondo significato della parola nella realtà quotidiana: “Dovrai lasciar suonare le parole nelle viscere intatte di quella sordità”.
La parola, oltre a rappresentare uno strumento di cui servirsi per entrare in contatto con il tempo attuale e provare a comprenderlo, rievoca con toni cupi una serie di eventi tragici e difficoltà riuscendo a registrare messaggi che ripercorrono epoche, generazioni, storie. Soltanto in questo modo è possibile individuare ciò che può essere ancora considerato stabile e saldo in una realtà che sembra sfaldarsi lentamente: “Loro saranno il tuo salvacondotto”. Le parole del poeta venezuelano sono animate da una forte passione per gli aspetti morali e culturali del suo paese, per la vita e la partecipazione al tempo presente, resa possibile grazie al rifugio offerto dalla poesia, sospesa oltre i limiti del tempo e in cui sono raccolte le tracce di un’origine perduta.
Il ponte eretto grazie a questi versi rende possibile il dialogo con il passato e permette di rievocare le ultime briciole di una “infanzia irrigidita”, quella genuina freschezza ormai prossima a dissolversi, la “pelle rugosa e amara” della nonna o l’auto “sotto un cielo arido” mentre tutta la famiglia si reca a sistemare la tomba del nonno. Ma il contatto con le proprie radici, con la realtà originaria e pura, può dar vita a nuove forme di inquietudine, a nuove lacerazioni e perplessità: “Forse qui tutti stiamo morendo la stessa morte senza rendercene conto“. Ogni varco permette di attraversare questa realtà priva di autenticità per avvicinarsi ad un significato più profondo, ma questa distanza non fa che accrescere il vuoto e amplificare la solitudine; persone, oggetti e ricordi vanno alla deriva e cercano la verità nella morte: “Quando uno muore, impara un sacco di parole nuove. All’improvviso conosce racconti che mai prima aveva sentito.”
Il linguaggio elaborato in questi versi è caratterizzato dall’accostamento di più registri, dalla miscela di livelli differenti ed è solo in apparenza nitido ed immediato. Spesso, dietro una comunicazione diretta è celato qualcosa di più oscuro e complesso: ambiguità, scatti ironici o polemici, elementi meditativi e malinconici. Le parole sono infatti immerse nella confusione e nelle contraddizioni della contemporaneità: le immagini e i segni della sofferenza e della rovina sprigionano frammenti laceranti di violenza che rispecchiano il caos in cui è immersa un’intera società dominata dal senso di vuoto. Ad esempio, nella poesia Storia naturale dei detriti: ossa un bambino racconta l’episodio della propria morte con particolari esiti di violenza espressionistica: “Papà dice che sono pazzo e credo che per questo picchi più me degli altri fratelli. Pam pam pam pam pam. Un giorno ha esagerato e così sono finito qui”. E ancora: “Poco dopo mi ha trascinato fino al patio per gettarmi qui, nel recinto. Lì per lì i maiali hanno iniziato a mordermi”. Del corpo della povera creatura non resta più nulla, “Quando non è rimasta carne, hanno divorato persino le mie ossa”, così come svaniscono le tracce di un’intera generazione costretta alla fuga e oggi dispersa nel mondo o di coloro che, restando immobili, si rifiutano di partecipare al flusso della vita, chiudendosi in sé stessi e costringendosi ad un esilio interiore. Per questi individui il movimento è possibile solo in totale solitudine ed è, al contempo, regolato da una forza invisibile e a tratti nemica che annulla qualsiasi scopo, qualsiasi genere di obiettivo (“Questa mattina, Caracas si è svegliata/ strapiena di fantocci di cera”), e costringe ad osservare “da una distanza di sicurezza” le rovine di un lontano passato e le macerie del presente.
Attraverso la sua poesia, Adalber Salas Hernández descrive le forme che possono assumere la violenza e l’alienazione nella capitale venezuelana, dove gli individui sono schiacciati dalle tragedie e diventano testimoni degli effetti dell’angoscia e della corruzione: “Nessuno dà conto di questa morte lunga e piccola, fatta soltanto di deboli numeri. Non fa notizia”. Ogni lirica diviene una risposta al tormento vissuto da un intero popolo: “Caracas, sono tue tutte le bocche prosciugate”. Scontrandosi con la diffusa tendenza alla negazione o alla rassegnazione e sottolineando il carattere conoscitivo della poesia, il poeta ne approfondisce il suo valore di esperienza totale e di emblema del tortuoso legame che unisce l’io con il resto del mondo, offrendo al lettore un chiaro segno di resistenza agli oltraggi e agli orrori di un meccanismo rovinoso e perverso.
POESIE DI ADALBER SALAS HERNÁNDEZ da Ai margini di un mondo sconosciuto Edizioni Fili d’Aquilone, 2019
I
Caracas, quelli che moriranno non ti salutano.
Non hanno più mani da sollevare,
gliele hanno tagliate, gliele hanno strappate
i cani che di notte camminano a zampe sottosopra
o le hanno smarrite in una azzardata scommessa
e cruenta come il tuo nome.
Nemmeno s’inginocchiano, quelli che
moriranno, non li abbandona il metallico
tremore che attraversa la loro schiena
e gli s’infila tra le vertebre e gli
torce l’andatura. Un tremore che sembra giunto
con il primo freddo di questo mondo.
Respirano il tuo fumo, il tuo odore di capín melao
e carne putrefatta e piombo
caldo sotto il sole che gli riempie
i bronchi, gli spiana il palato. Indegno odore
di camion della spazzatura e asfalto mortificato.
Caracas, sono tue tutte le bocche prosciugate.
Ti lasciamo l’infanzia irrigidita
in una manciata di strade, nel sapore del pane,
nel primo colpo, il primo chiarore
svuotato dagli spari e dalla pioggia. È tuo
tutto l’alito che possediamo, te lo portiamo via. Noi che
andiamo a morire ti guardiamo come bestie
da domare con un sorriso senza denti.
Non ti salutiamo, pur stando
fermi nella tua sabbia, nella polvere che ci creò
e che ora si confonde con la nostra pelle.
Abbiamo attraversato già le tue ossa stanche, sporche,
scorticate dalla cecità. Sappiamo cosa sei, Caracas.
Ogni mattina, la pietra della tua risata
esplode contro le nostre teste. Conosciamo i tuoi gesti
di madre carnivora, abbiamo visto
dove ti mordi la coda.
Non salutiamo e nessuno si offende.
Nessuno nota l’ossido accumulato nelle
nostre voci, nessuno vede sulle nostre facce
che abbiamo già compreso, che comunque
la prosa dei nostri giorni sarà drastica
come i tuoi vicoli
e l’ora della nostra scomparsa
avrà la pietà delle tue pallottole vaganti.
XXXIII Salvacondotto
Una di queste mattine le parole forzeranno
la porta della tua casa. Incedendo senza far rumore, andranno a
cercarti nella tua stanza abbagliandoti con torce, ti chiuderanno
con un pugno la bocca, strapperanno le lenzuola per consegnarti
ai cani del freddo. Non potrai far nulla, avrai un
cappuccio in testa e il peso di una canna sulla fronte.
Non potrai far nulla. Quando ti trattano così, quando le parole
ti insultano, quando ti legano mani e piedi e senti il loro fetore
di grappa e le loro scosse da crack, quando ti lasciano in
gola il loro cigolio, la polvere da sparo e la loro ruggine - allora
finalmente saprai che la paura è il tuo pane, il tuo alfabeto -.
Ormai non potrai
mettere pietre sulle palpebre delle poesie affinché non si
sveglino, pietre a mucchi nelle loro bocche, pietre nelle
orecchie per rompere i timpani con questo silenzio. Dovrai
lasciar suonare le parole nelle viscere intatte di quella
sordità. Permetterle di scuotersi come animali di latta, andare e
venire col loro aritmico respiro, di motore che strappa la notte.
Le stesse parole che furono scritte sulla parete e ti
ruppero il naso. Quelle che sembrano sparo, ambulanza, pattuglia,
padrenostro. Quelle che ti offrono a volte una sigaretta per
spaventare la fame. Quelle che non stanno in nessun passaporto,
in nessun codice fiscale, certificato di nascita o morte, quelle
che ti rubano il nome per venderlo di contrabbando.
Loro saranno il tuo salvacondotto.
XXII
La lingua che parlo è fatta di domande
difettose, di frasi spezzate, ricorrenti.
Ogni giorno bussano alla porta chiedendo qualcosa
da mangiare, minacciando di rompermi i denti.
Non sa con precisione da dove arrivi; nemmeno
le interessa: lingua materna, lingua paterna,
per lei cambia ben poco.
Entra con le sue stampelle e riempie la casa di terra.
A tavola non ha buone maniere, non sorride
mentre ascolta come mi lamento. La mia lingua
non ha pietà di me. Viene a visitarmi perché
è alla fine, perché ha bisogno di un piatto e un letto.
Viene, si butta e mi ignora; diventa amica di
topi, formiche, scarafaggi che si
nascondono negli angoli, sotto i mobili. Raccoglie
le sue storie, le disegna nella polvere col suo dito
fiacco, vicino ai vasi di fiori zeppi di sigarette
fumate a metà.
La mia lingua non ha sacramenti
né miracoli. Crede che ne abbia bisogno per
coprire la sua nudità, ma forse no. Crede
perfino che per pregare basti palparsi,
sentire il proprio peso che ci trasporta
verso il centro assopito della terra.
È ossessionata dall’esattezza scandalosa
della fame, per questo si sta demolendo un po’
alla volta, come se volesse mostrarci le sue ossa.
Vorrebbe spogliarsi di sé, farsi graffito o insegna
pubblicitaria o scarabocchio sul cemento
fresco. Vorrebbe maledire e bestemmiare con
proprietà, ma nemmeno questo le è stato concesso.
La mia lingua non ha saputo mai somigliare
a sé stessa. È fatta di parole che
se ne vanno appena arrivano. In lei,
tutte le figure sono corpi abbagliati,
tutte le cose si incurvano come se la luce
volesse spremerle. Parla nervosamente
e resta a fissarmi: in questo momento siamo
i due abitanti di un continente circondato
da acque che non dormono.
NIL NON MORTALE TENEMUS
Il canto richiede da chi lo scrive
ozio e solitudine. Un tavolo che non
galoppi nella stanza, un buon caffè
o qualcosa di più forte, una robusta
lampada
– e io ai mari, ai venti
al selvaggio inverno
sono stato scaraventato.
Ora sono un tuffatore:
mi lascio cadere su una linea precisa,
nitida,
fino al fondo marino, dove ogni
vocabolo suona opacamente,
conchiglia striata e ruvida,
sordo rumore, insabbiato,
dove la respirazione non è più
che un disturbo:
ed è dolce naufragare in questo mare.
IN EXTREMIS IGNOTI PARTIBUS ORBIS
Qui ho dovuto imparare
a camminare sotto l’acqua,
a convivere coi lenti animali pallidi
della profondità, a condividere
la loro preistorica cecità.
I ricordi passano lassù, sulla mia testa,
lontani
come barche nella notte,
e qui sotto ogni vocabolo è una pietra
lanciata nelle circostanze infinite
dal fondo di un naufragio.
Parlo da solo per non dimenticare la mia lingua:
vivo sull’ultimo bordo
del globo,
terra della mia terra remota.
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Adalber Salas Hernández, Ai margini di un mondo sconosciuto, a cura di Alessio Brandolini, 2019, Edizioni Fili d’Aquilone, pagg. 118, euro 15
Adalber Salas Hernández nato a Caracas (Venezuela) nel 1987 è poeta, saggista e traduttore, risiede a New York per un dottorato di ricerca alla New York University.
Ha pubblicato i libri di poesia: La arena, el vidrio (2008), Extranjero (2010), Suturas (2011), Heredar la tierra (2013), Salvoconducto (2015), Río en blanco (2016), mínimos (2016), Materia intacta (2017), La ciencia de las despedidas (2018) e [a love supreme] (2018).
Ha pubblicato anche libri di saggistica e di traduzione dal francese, inglese e portoghese.
federicasilvino@yahoo.it
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