FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 52
maggio/agosto 2019

Sorelle & Fratelli

 

TERESA PORZECANSKI, LA PELLE DELL’ANIMA

di Marco Benacci



Da poche settimane è uscito per le Edizioni Centro Studi Jorge Eielson di Firenze il romanzo La pelle dell’anima [La piel del alma] dell’uruguaiana Teresa Porzecanski, da me tradotto e curato. Edito per la prima volta nel 1996 (Seix Barral, Montevideo) ebbe subito un grande successo di pubblico, tanto da essere stato ripubblicato varie volte, fino all’ultima edizione del 2017 (Planeta, Montevideo) da cui è stato tratto il testo per la versione italiana.
La scelta di tradurre e pubblicare il libro è nata dalla volontà di presentare anche al pubblico italiano un vero e proprio capolavoro contemporaneo della letteratura uruguaiana (e latinoamericana), grazie alle sue particolarità e unicità. Non è un caso che appena il volume è uscito, è stato adottato dalla Cattedra di Letteratura Ispanoamericana dell’Università di Firenze per il proprio corso accademico.

Il romanzo, scritto in maniera magistrale, si sviluppa su due strade distanti nello spazio e nel tempo: la Montevideo del 1950 e la Toledo del XV secolo; strade che con lo scorrere delle pagine si avvicinano per poi incontrarsi e infine fondersi. La genesi del libro è piuttosto curiosa, come ama spesso raccontare l’autrice: mentre stava scrivendo un romanzo giallo ambientato nella capitale dell’Uruguay, un amico le dona delle lettere antiche che aveva trovato durante un viaggio in Spagna; le parole e le storie delle missive fanno breccia nella scrittrice e, a poco a poco, entrano nel romanzo che stava scrivendo, creando una connessione tra le due storie. Sia per la parte ambientata a Montevideo che per quella di Toledo la Porzecanski ha effettuato molti studi su documentazione storica d’archivio, grazie anche alla borsa di studio Guggenheim, ottenuta nel 1992.

Il risultato è un libro pieno di musicalità e ora che lo vedo materialmente, sono ancora più convinto di non aver tradotto un romanzo, bensì un lungo poema, soprattutto grazie alla scrittura estremamente lirica. In effetti, per poter permettere al lettore italiano di percorrere gli stessi sentieri di uno di lingua spagnola, sia nei tratti di pianura che in quelli più irti, ho dovuto mettere un’attenzione enorme a certi piccoli elementi del testo, che non avrei sicuramente tenuto presente in altre opere di narrativa.

Qui sotto la mia introduzione dal titolo Respiri nella foschia che apre il libro e a seguire un capitolo del romanzo in cui si narrano i primi fatti ambientati nel 1950 a Montevideo.

Chiunque fosse interessato all’acquisto del libro può contattare direttamente la casa editrice alla mail: info@centroeielson.com


Respiri nella foschia

Un’aria velata da una sorta di foschia chiara e quasi immobile pervade questo libro di Teresa Porzecanski dall’inizio alla fine. È una nebbia intrisa di misteri, che non solo moltiplica gli interrogativi, ma addirittura non permette al lettore di sciogliere tutti i dubbi anche quando si arriva all’ultima parola, l’ultimo punto finale. Ogni cosa, nel romanzo, è come avvolta nella foschia. E questa caratteristica è il frutto di un’idea precisa dell’Autrice, che attraverso un capolavoro di maestria letteraria, ci proietta in una storia mai troppo definita, che spesso disorienta.

Ad esempio la stessa struttura del libro può confondere: mentre i primi capitoli si sviluppano nella Montevideo del 1950 con le caratteristiche del romanzo giallo, di colpo si cambia registro e veniamo proiettati nella Toledo del XV secolo, immersi tra la Storia, la Filosofia e la Teologia. Mediante una magistrale sovrapposizione di storie, questi due mondi ed epoche inizieranno a dialogare, intrecciandosi sempre più, per formare infine una massa unica, inscindibile; un dialogo affascinante che può avere luogo grazie alla scrittura assolutamente poetica e ricercata, che fa sì che si proceda nella lettura col ritmo del respiro, nonostante la struttura-foschia non proprio convenzionale.
La musicalità del testo ci dà proprio il ritmo della respirazione in tutto il romanzo, anche attraverso scelte brillanti, figlie dei profondi studi che l’Autrice ha condotto sul Medioevo, come il costante cambio tra il “voi” ed il “tu” nelle missive di Girolamo Narbona, come se ci fosse nel suo amore per Faride un costante avvicinamento (inspirazione) e allontanamento (espirazione).

Ed è da sottolineare come nel romanzo possano convivere espressioni tipiche uruguaiane con termini marinareschi, documenti storici, testi sacri, usi e culture del XV secolo, parole desuete, di origine araba o soprattutto sefardita, che alimentano la foschia ma non fermano il respiro; ogni minimo particolare di difficoltà ci aiuta a inserirci nelle storie e, per assurdo, ad addentrarci ancor più nei misteri, come quando l’Autrice decide di demolire il mito collettivo uruguaiano dell’estate del 1950, non tanto per distruggerlo, ma per ricrearlo, forse più mitologico e inspiegabile, ma non meno esaltante.

Della nebbia ne sono intrisi soprattutto i protagonisti che, con il loro passato oscuro, appaiono per brevi tratti per poi svanire, come la misteriosa figura di ragazza nella Pensión Altamira, conferendo un’aria di ulteriore mistero sul loro futuro. Come in ogni opera della Porzecanski, ogni personaggio è una persona che è stata segnata irrimediabilmente dalla vita o dagli esseri umani. I protagonisti sono coloro che, per colpa della società in cui gli è toccato vivere, nella loro esistenza protagonisti proprio non lo sono stati mai, ma addirittura vittime di un sistema che tende ad emarginare le diversità, come quelle personali (troppo grasso, carattere difficile, voglia di solitudine, difficoltà nel parlare, povertà, vivere di ricordi) della Montevideo del XX secolo, fino ad arrivare a quelle religiose nella Toledo di cinque secoli prima, in cui le “diversità” potevano costare la vita. Il risultato è che i protagonisti delle storie di La pelle dell’anima sono chiusi verso il mondo esterno, compreso quello fittizio del libro tanto che, avvolti in questa nebbia di mistero, è impossibile per il lettore metterli definitivamente a fuoco.

Da emarginati le storie dei protagonisti sono incentrate sulla ricerca di qualcosa di nuovo, sul movimento, sul viaggio.
Alcuni si spostano attraversando lo spazio, altri il tempo, altri ancora entrambi; ma soprattutto, di pari passo, il vero viaggio ognuno dei personaggi del libro lo compie verso se stesso, verso l’interno, attraversando le proprie foschie, per essere parte di un altro mondo, uno diverso, e per cercare le risposte a domande che li affliggono da una vita, siano esse la voglia di scoprire cosa c’è al di là del mare, sia la voglia di scoprire cosa c’è al di là della vita stessa; fuggire dal mondo crudele per addentrarsi nelle nebbie del futuro, grazie solo alla forza della fede o alla speranza, ci richiama alla memoria la storia del popolo ebraico, ma anche quella di tutti i popoli del mondo che hanno dovuto abbandonare le loro terre per andare incontro alla prospettiva di una vita migliore.

Nel romanzo il ruolo centrale è destinato alle donne: vittime dell’odio, lasciate sole a combattere le ingiustizie del mondo maschile, ognuna delle protagoniste (e ognuna a suo modo) affronta il male con coraggio, armate dell’amore. Aspirazione ultima è la serenità e la pace che non hanno mai conosciuto, per giungere a quella eternità propria di Dio a cui aspira l’essere umano. È grazie a loro che si inizia a sentire da dentro la foschia, quelle ondate di emozioni, quel respiro, nate dall’unione tra le protagoniste e l’Amore, che sia esso materno, per una persona, per il passato, o semplicemente per l’idea di un sé che si vorrebbe essere e che non si è.

Ma anche qui l’Autrice decide che persino l’Amore non debba essere esente dall’influsso di una nebbia disorientante e allora ogni atto compiuto con la forza di questo sentimento è privo di limpidezza, facendo apparire i gesti eroici, folli e, quelli sereni, irrequieti; ma nonostante questo, grazie alle donne, l’Amore è capace di vincere su tutto, oltrepassando i mari e i tempi, nutrendosi delle tragedie e dei dolori, per crescere e diventare più forte, fino a sconfiggere la morte, fino all’impensabile, fino a raggiungere un contatto vivo con qualcosa di superiore che Don Serafín del Mondo, attraverso i suoi esperimenti, sta cercando ancora oggi.

Per questo ogni cosa che nel libro finisce, in realtà ci viene presentata come qualcosa che inizia, la prima tappa del nuovo. Ecco che il respiro ci aiuta a orientarci ancora una volta nella foschia, attraverso un dialogo costante tra l’inizio e la fine, fusione tra la morte e l’amore come rappresentante di vita, ognuno che influisce sull’altro, ognuno indispensabile all’altro. Quello che è riuscita a fare attraverso questa “respirazione” la Porzecanski, è un vero capolavoro di scrittura, che mischia filosofie e teologie di tutte le epoche e territori.

Ma allora questa foschia, che abbiamo visto essere un artificio, che cos’è? Seppure una maestria, è davvero un’intenzione dell’Autrice di disorientarci? No. Creare questa foschia è una strategia per lasciare al lettore lo spazio per intervenire con la propria immaginazione nella storia, interpretando le storie e facendosi una volta di più invadere dai misteri, persino quelli suoi personali. In questo modo, la Porzecanski ci strappa dal ruolo di semplici testimoni oculari di parole impresse su carta per farci diventare parte integrante di questo affascinante e misterioso romanzo, permettendo al contempo al libro di respirare aria sempre nuova e rigenerarsi in maniera diversa davanti a ognuno di noi. Ecco dove sta l’infinita bellezza di questa opera, che ha nel suo involucro di carta quella stessa pelle del titolo del romanzo: un elemento vulnerabile che protegge qualcosa di prezioso, che nasconde i segreti e che, a volte, trattiene quelle foschie che abbracciano gli immortali respiranti sogni.

 


UNO

da La pelle dell’anima di Teresa Porzecanski, pp. 13-16
Edizioni Centro Studi Jorge Eielson, Firenze, 2019


Divorare animali vivi, mangiare stelle cadenti. Questo avrebbe voluto Liropeya Duarte quando improvvisamente lo vide là seduto, fumando, a gambe incrociate davanti alla fontana andalusa alle sette in punto di una sera di marzo. Non credeva che sarebbe venuto. E men che meno, che stesse ad aspettare. Gli appuntamenti combinati attraverso programmi radiofonici erano farse, macchinazioni, l’avevano avvisata.

Esitò mentre si avvicinava. Se solo avesse continuato a camminare come una delle tante passanti, lui non si sarebbe accorto che era stata lei che aveva inviato quella lettera firmata con uno pseudonimo – Afrodite, perché no? aveva deciso – dove confessava il suo desiderio di sposarsi e richiedeva di stabilire legami con un uomo alto, di bella presenza, impeccabile, non oltre i cinquanta. Lui non si sarebbe nemmeno accorto che lei aveva mentito sulla sua età – dieci anni in più dei quarantatré dichiarati –, sul suo colore degli occhi e sul suo peso, eccessivo. Non avrebbe mai saputo che era orfana, della sua segreta passione per ballare nuda al suono di melodie immaginarie, e che, alla sua età, non aveva ancora provato il sapore di nessun letto.

Questo sì, lei gli sarebbe passata accanto col suo vestito deliberatamente scollato, e quella gonna alla quale aveva tolto la fodera per renderla più trasparente. Sarebbe passata senza guardarlo pur avendolo visto, come se lei fosse stata un’altra, e lui un altro, e allora entrambi, vagando per il parco, si sarebbero persi per sempre tra la gente, con il volto imperterrito di coloro a cui non succede mai niente.

Lei avrebbe tirato dritto, voglio dire, sarebbe avanzata di qualche passo verso la Rambla, per poi girarsi, e osservare – indietro – la figura dell’uomo ancora seduto, osservare da un’altra prospettiva, non come aveva osservato prima, quella traccia mascolina che stava fumando, aspettando l’incontro con una donna con la quale era entrato in contatto attraverso un appuntamento fissato da un’emittente radiofonica.

Ma forse spinta da una vivace ribellione contro la sua stessa prudenza e contro quella laboriosa armonia coltivata con decoro ogni mattina della sua vita, Liropeya Duarte girò verso di lui il suo grande corpo rotondo, e discese come poté i tre grandi scalini che la introdussero al fresco patio della fontana, sopra il quale le ombre del fogliame si muovevano lievi. Lui allora sentì lo sguardo di lei posato sul suo profilo destro e girò il volto, deliberatamente inespressivo, per vederla arrivare.

«Lei?» balbettò la donna non sapendo cosa fare con le parole.

«Sì, io» abbreviò lui con una voce lenta e profonda, così solida che era come un altro suo corpo che nasceva dal primo.

Da vicino, lei poté guardarlo: era attraente nella sua quarantina, vestito di scuro, cappello grigio dall’ampio nastro sopra la lucentezza stirata dei capelli rigidi, spigoloso il volto e aggressivo il naso, occhi piccoli e penetranti sotto le folte sopracciglia, e quel baffo sottile sopra una bocca dritta, quasi senza labbra.

“Ceferino Viera, per servirla”, articolò con la sua voce sostanziosa, e lei sgattaiolò via la mano da quella di lui dato che la trovò sorprendentemente fredda e ruvida. E si sedette e pensò “si tratta di un uomo”. E solo allora si rese conto che gli uomini dispiegano uno spazio e un odore particolari, che si muovono con una autonomia propria e una forza piena che non ha bisogno di permessi. “Ed è bello”, si disse Liropeya, anche se girò gli occhi verso la fontana verdastra, non volendo fargli con lo sguardo una carezza tanto prematura.

Parlarono, o meglio, lui parlò. Disse che era arrivato da Buenos Aires da qualche giorno, e che aveva bisogno di una donna di bell’aspetto, che si potesse mantenere facendo qualche mestiere redditizio, visto che a lui non piaceva il lavoro mentre, questo invece sì, lo attiravano altri affari che non specificò. E che un vicino che aveva ascoltato il messaggio di lei, letto nella emittente, gli si era avvicinato mentre giocava a carte con degli amici – un professionista del gioco, nel caso volesse saperlo – per dirgli che c’era in giro una donna proprio come quella che lui stava cercando.

Lei mentì di nuovo quando disse che aveva inviato la lettera per noia, non che le mancassero le opportunità, che non lo pensasse. E mentì quando disse che prima aveva avuto due fidanzati, uno che si era ammalato e l’altro che era morto, entrambi sfortunatamente prima del matrimonio. E che, nonostante questo, la sua vita era stata fortunata, dato che il suo lavoro con la sartoria le faceva avere una vita agiata. E mentì una volta di più quando disse che aveva fatto abbastanza soldi al punto che pensava di comprarsi una fattoria, che aveva sempre sognato di viverci, e dedicarsi ad allevare pollame.

E allora, lui la invitò a camminare nel boschetto mentre scendeva quel sole imponente sulla spiaggia Ramírez e gli ultimi bagnanti rientravano faticosamente alla notte, e fu allora che lei notò la trasparenza della sua gonna sopra le gambe e che il vento le entrava dal basso come fosse uno strano respiro.

Allora non ci furono parole e la sabbia era ancora calda quando si sdraiarono sotto il fogliame che, dondolato dal soffio marino, sembrava una cupola mobile e oscura. Lui le sbottonò la parte alta del vestito ed esplorò i grandi seni che si aprirono come fari sotto la livida luce lunare. Dopo, le cosce di lei si liquefecero e sentì che lui saliva tra le sue gambe, come una cometa verso il cielo notturno – quella scia che sgorgava sciroppo e lei, che lo succhiava – elevandosi verso un luogo assoluto, definitivo.

Divorare animali vivi, disse lei, mangiare stelle cadenti, pensò lei. Assorbire infine, quello era, – aborigeno – l’amore, si disse. E pianse lentamente e senza tristezza, per tutti quegli anni in cui aveva atteso di entrare in quel primo cantuccio dell’estasi, istante dilatato e senza morte che la sollevava dal tempo.

Dopo, seguirono giorni di disordine. Lei scoprì che lui le rendeva possibile il levitare, e diventare senza peso, quasi senza sostanza. E che questo creava dipendenza. E per prendersi gioco della vigilanza dell’addetto e dei vicini, visto che nella pensione si viveva per controllare le vicissitudini della vita degli altri, Ceferino Viera scendeva dal tetto, senza che nessuno lo sapesse, dalla ripida scala di cinque scalini, che sprofondava nell’umido sottotetto di Liropeya Duarte, per offrirle diademi, elisir e animali vivi, tutte queste cose risplendenti.

Durante le due settimane circa che durò la relazione, lui sembrava disceso da qualche cielo compassionevole per fare a Liropeya da madre e da padre. Ma, soprattutto, da corpo. Perché lei lo palpava, nudo nell’oscurità – quella pelle dal pellame ardente, quel pellame elettrico sulla pelle immensa –, e desiderava solamente soffocarsi in lui. Si cibavano l’uno dell’altro, ma era più lei che si cibava di lui, come se prima mai si fosse alimentata dalle calde sorgenti di un altro corpo e succhiasse solo ora, da una madre mascolina, gli ignoti geyser della vita.

E di notte, quando Ceferino Viera, ruvido anfibio preceduto dal suo odore di tabacco nero e di carte da gioco di bettola, vestito di scuro, compariva furtivo sulla piccola scala, col suo cappello posato sopra lo sguardo angusto, lei credeva di scoprire un sottomondo. Un passato Eden abbandonato e dal tempo non trascorso ritornava, con le sue tartarughe sapienti che contemplano assorte lo strano mondo degli uomini, e con i suoi cobra neri dalle lingue letali, sentendo le frontiere di una antica e necessaria regione del male. Allora, avi sconosciuti prendevano forma e si installavano invisibili nelle cantonate dell’anima. In verità la genesi, profonda vertigine.

Lui era solito invitarla a ballare al suono di una musica interiore, inaudibile agli altri. Lei diventava un’odalisca violacea, sciolta e ondulante tra le sue braccia. Dopo, la conduceva alla spiaggia, e sotto un frammento di luna perlacea, la spogliava dei vestiti, degli ornamenti e dei tratti distintivi e la addentrava al battesimo in un’acqua nera, insolitamente tiepida per la stagione. Allora, provvedeva a farle il bagno, le versava dalla cuspide della testa una spuma perlata come un olio che la ungesse, le strofinava le spalle, le molteplici braccia, i seni che si duplicavano al contatto con le mani spigolose di lui. Lei allora si trasformava, diventava sconosciuta a se stessa, i suoi tratti e le sue qualità sconvolte, e non sapeva più chi era o com’era nata.

E c’erano notti in cui Liropeya Duarte poteva parlare lingue strane, tutte arcaiche, che sgorgavano da se stessa già strutturate e fluide, come se fossero state sempre lì, sepolte da qualche parte, sotto un fondo di ossa sapienti che non aveva mai sospettato d’avere. Di colpo le si moltiplicavano gli organi del corpo e le inviavano segnali e sinuosi messaggi. E certe parti di se stessa diventavano misteriose ed estranee. Frugava, allora, tra le sue pieghe, la profonda feritoia da dove a volte emergevano succhi spessi, cratere che si addentrava in un chiostro scuro e la scavava dentro come un tunnel. Non aveva mai potuto sapere dove conduceva quel vortice che si perdeva ombroso nelle viscere. Un giorno, separò le gambe davanti allo specchio e avvicinò la lampada. Quello che sentì la sprofondò nell’inquietudine: lì abitava da tempo immemorabile un animale degli abissi, un’idra dai tentacoli pulsanti e la cui pelle conteneva in segreto uno sciroppo appiccicoso, intenso.

Contemplava il suo stato di pletora, così esausta com’era, e percepiva in lui un certo odore di palude, di pantano, dove si infangavano e rivoltavano le correnti di acque sotterranee. Drizzata, volgeva lo sguardo al cielo nello stesso istante in cui la nebulosa di Orione partoriva, dai suoi agitati uteri di polvere e gas, stelle appena accese. Pletora, luogo carente di passato e di futuro, e contenuto tutto in se stesso, istante che si tende senza limiti verso l’angoscia, o l’euforia, pensò Liropeya Duarte. “Il momento in cui sei sotto un uomo e lui ti copre e tutto è caverna bollente, tana, nicchia, pelle”.

 


Teresa Porzecanski
è nata in Uruguay nel 1945. Scrittrice e antropologa, si è laureata in Ermeneutica oltre a un dottorato in Scienze Sociali e studi di specializzazione in Comunicazione Sociale; è stata investigatrice e docente presso università di tutto il mondo come Uruguay, Argentina, Brasile, Messico, Perù, Stati Uniti, Porto Rico, Svezia e Israele.
Ha pubblicato le seguenti opere che abbracciano racconti, romanzi e antologie poetiche: El Acertijo y otros cuentos (1967), Historias para mi abuela (1970), Esta manzana roja (1972), Intacto el corazón (1976), Construcciones (1979), Invención de los Soles (1982), Ciudad Impune (1986), Mesías en Montevideo (1989, 2005), La respiración es una fragua (1989), Perfumes de Cartago (1994, 1995, 2003), La piel del alma (1996), Nupcias en familia y otros cuentos (1998), Primeros Cuentos (1998), Una novela erótica (2000), Felicidades Fugaces (2002), Palabra líquida (2006), Su pequeña eternidad (2007, 2016), Cosas imposibles de explicar y otros cuentos escogidos (2008), Irse y Andar (2011, 2017) e, di prossima pubblicazione, La vida simple, un monologo teatrale messo in scena nel 2017. È Anche autrice di oltre un centinaio di saggi che hanno come tema l’immigrazione, le etnie, le minoranze, i pregiudizi sociali e le nuove religioni.
Alcune delle sue opere sono state tradotte in olandese, francese, inglese, tedesco, portoghese, rumeno e ungherese.
Ha ricevuto le seguenti onorificenze e premi: Ministerio Educación y Cultura (1967, 1976, 1995), Intendencia Municipal de Montevideo (1986, 1989), Beca Guggenheim (1992), Premio de la Crítica Bartolomé Hidalgo (1995), Premio “Morosoli” de Literatura (2004), Beca Residencia Bellagio de Fundación Rockefeller (2006).


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