FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 51
gennaio/aprile 2019

Ostacoli

 

PLOTINO, QUALI SONO E DA DOVE VENGONO I MALI
Introduzione alla lettura del trattato 1.8 delle Enneadi

di Leonardo Zelli



Periodo di composizione del trattato 1.8

Porfirio, nella sua Vita di Plotino (§ 6.16 sgg.), ci informa sull’appartenenza del trattato in questione all’ultimo gruppo di quattro trattati redatti da Plotino, in un’epoca in cui il maestro era gravemente malato e ormai prossimo alla morte; a motivo della malattia che l’aveva colto (sulla cui natura, peraltro, si è molto discusso: probabilmente una forma di lebbra), egli era stato costretto, nell’anno 268 o 269, a lasciare Roma, in cui aveva sede la scuola filosofica da lui fondata, per ritirarsi in Campania, nella proprietà dell’amico Zeto, ormai morto (Vita Plot. 2.17-20); lui stesso sarebbe morto di lì a poco, nel 269 o 270. In quell’epoca, del resto, la cerchia filosofica formata da Plotino a partire dal suo arrivo a Roma (nel 244/245) si era ormai pressoché dissolta, e i suoi allievi più promettenti, Porfirio e Amelio, avevano lasciato poco prima la città, l’uno alla volta di Lilibeo in Sicilia (su consiglio di Plotino stesso, che l’aveva spinto a tale viaggio per curare uno stato di grave depressione{1}), l’altro per Apamea in Siria.

Gli altri trattati che vanno a comporre il gruppo degli ultimi quattro, spediti a Porfirio poco prima della morte, sono i seguenti: dopo il trattato 1.8 [51], fu redatto il 2.3 [52] (‘Se gli astri hanno un influsso’), l’1.1 [53] (‘Che cos’è il vivente?’) e infine l’1.7 [54] (‘Sulla felicità’). Gli argomenti di questi ultimi trattati (come degli altri cinque immediatamente precedenti, che nel complesso sono il frutto dell’ultimo periodo di attività di Plotino) denunciano verosimilmente un infittirsi di sollecitudini morali, che potrebbe spiegarsi almeno in parte con lo stato di solitudine e malattia cui era costretto Plotino in quell’ultimo periodo della sua vita: come si vede, si tratta di scritti incentrati per lo più sui temi della felicità, della provvidenza, del male, dell’influsso degli astri. Di questi ultimi scritti Porfirio afferma (Vita Plot. 6.27 sgg.) che risentono di un venir meno delle forze del maestro, tanto più in confronto alla perfezione dei ventiquattro trattati della maturità.

A dispetto di questa condizione di isolamento in cui fu composto, il trattato 1.8 esibisce una struttura di tipo scolastico, che comprende l’enunciazione di questioni preliminari, il riferimento insistito all’autorità dei testi platonici, l’invenzione di obiezioni ipotetiche seguite da possibili risposte. Ora, la circostanza che il trattato richiami metodi scolastici pur in assenza di un effettivo contesto di scuola, può essere agevolmente chiarita pensando che nella stesura del trattato Plotino si sia servito di appunti e note presi dalle sue precedenti lezioni, insomma lavorando su un materiale grezzo risalente al periodo di insegnamento; questa osservazione potrebbe anche render conto di un certo disordine compositivo nell’elaborazione di vari passaggi del testo (un tratto che aveva condotto alcuni studiosi tedeschi del primo ’900, come Thedinga e Heinemann, a considerarne addirittura spurie alcune sezioni, come è accaduto per alcuni trattati aristotelici).


Struttura del trattato

Lo scritto esibisce un’articolazione complessiva abbastanza chiara, anche se le singole sezioni non vanno esenti da qualche oscurità. Nel complesso, è possibile distinguere cinque sezioni: A) un’introduzione (§ 1) in cui sono presentate le questioni da risolvere; B) un’esposizione sistematica (§ 2-5) sulla natura del male; C) l’interpretazione di un passo del Teeteto platonico (176 a) riguardante il male (§ 6-7); D) una serie di obiezioni ipotetiche, seguite dalle risposte di Plotino (§ 8-15); E) una conclusione (§ 15).

L’introduzione (§ 1) ha lo scopo di delineare i problemi che dovranno essere trattati nel testo, e assolve il suo compito secondo una modalità abituale in Plotino e che risale agli scritti di Aristotele, vale a dire proponendo una rassegna delle questioni essenziali intorno alle quali dovrà essere condotta la ricerca. Ora, nella fattispecie la questione fondamentale è quella del male, anzi più specificamente: ‘Da dove provengono i mali?’; a dispetto dell’enunciazione asciutta e scolastica, si tratta di un tema in cui vibra un certo pathos. Tuttavia, le risonanze morali vengono, se non attenuate, almeno in parte coperte dalla domanda susseguente, che si incarica di condurre la riflessione su un piano più rigorosamente metafisico: ‘Qual è la natura del male?’. Come si vede, Plotino assume senza particolari difficoltà che si possa passare immediatamente dalla pluralità di mali attestati dall’esperienza ad un concetto unitario del male, che implica (in specie per un filosofo platonico, vincolato a una prospettiva di ‘realismo semantico’) una corrispondente realtà parimenti unitaria; questa transizione, non poco problematica, sarà appunto contestata esplicitamente, due secoli più tardi, da Proclo, come si evince già dal titolo dell’opuscolo dedicato alla questione (De malorum subsistentia). Accanto a queste due domande fondamentali, che guideranno la ricerca, vengono proposti dei quesiti secondari: in che modo è possibile ottenere una conoscenza del male, in che senso il male è contrario al bene, se il male rientri fra gli enti ed eventualmente in quale ambito risieda. Il passaggio alla sezione seguente è consentito dal riconoscimento che la scienza dei contrari è la medesima: pertanto sarà opportuno prendere l’abbrivo da una trattazione del bene, per poi passare a quella del male. Ecco allora che, coerentemente con queste premesse, lo scritto prosegue trattando anzitutto brevemente del bene (§ 2), poi si sofferma sulla natura del male (§ 3) e sull’origine dei mali derivati (§ 4-5).

L’esposizione sistematica (§ 2-5) inizia, come si è accennato, con un quadro sintetico dell’ambito del bene (§ 2), che viene identificato con il complesso delle tre ipostasi o princìpi sommi, cioè l’Uno (o Bene in senso stretto, in quanto perfettamente autosufficiente e oggetto di desiderio per tutti gli enti), l’Intelletto e l’Anima; insomma il bene comprende l’essere intelligibile e ‘ciò’ che lo trascende. Segue la trattazione sul male (§ 3), che mette capo all’assimilazione di questo alla materia, il passo fondamentale cui si giunge dopo aver caratterizzato il male in antitesi al bene: esso viene pensato come «una certa forma di non-essere» (εἶδός τι τοῦ μὴ ὄντος), un’espressione con cui Plotino, rifacendosi esplicitamente al Sofista platonico, tenta di elaborare un concetto di non-essere alternativo sia al nulla assoluto (τὸ παντελῶς μὴ ὄν) sia alla semplice differenza dal puro essere che è propria di ciascuna forma (e che la costituisce nella sua identità). La nozione di non-essere che Plotino intende proporre implica, più radicalmente che non la semplice differenza, la contrapposizione di quel non-essere che è la materia a tutte le Forme, considerate nel loro complesso (cioè a tutti gli Enti in senso pieno). Denis O’Brien ha messo in luce questa rielaborazione della struttura concettuale del Sofista, richiamando inoltre l’attenzione su un passaggio di Enn. 2.4.16, necessario per completare il discorso di Plotino sulla natura della materia: nel passo in questione (ll. 1-3) si afferma che essa è «identica alla parte della Diversità che si contrappone agli Enti legittimi, i quali sono appunto ragioni formali». Ebbene, questa definizione consiste in un più radicale ripensamento di quella fornita in Soph. 258 e 2 per individuare il non-essere: quest’ultimo è definito (se accettiamo la lezione largamente maggioritaria) «la parte [scil. della natura del Diverso] che si oppone all’essere di ciascun ente», ossia quella parte specifica del Diverso che si contrappone alla forma dell’Essere; tutte le Forme, partecipando di questa porzione, ‘non sono’, cioè risultano non identiche all’Essere (ma altrettanto ‘sono’ in quanto, ovviamente, di questo Essere partecipano). Invece Plotino fa del non-essere, inteso come materia, una parte del Diverso (per quanto questa sistemazione sia problematica, perché implica che la materia sia parte di una Forma…) che si oppone non già alla sola forma del puro essere, bensì ai veri Enti (le Forme) presi nel loro complesso, cioè all’intero ambito intelligibile.

Una volta riconosciuta la piena legittimità di questo nuovo concetto del non-essere, Plotino si studia di precisarlo ulteriormente caratterizzandolo in termini di perfetta opposizione all’ambito del bene: se quest’ultimo è limite, misura, forma, ‘autarchia’, il male è dismisura, mancanza di forma, indigenza insaziabile. Queste caratteristiche, che sono intrinseche al male e non avventizie, si attagliano perfettamente, come si è detto, alla materia, la quale va pertanto identificata col «male primo e in sé».
I mali secondari, cioè quelli del corpo e dell’anima (i vizi), derivano dalla partecipazione di queste due realtà alla materia; pertanto (e questo è un punto fondamentale) né i corpi né le anime sono origine dei mali, che al contrario giungono a essi dall’esterno. Ora, la mescolanza strutturale del corpo e dell’anima irrazionale con la materia fa sì che queste due specie di esseri non possano essere in alcun modo esenti dal male; invece l’anima superiore (quella razionale) ha sia la possibilità di rimanere intatta dal male sia di inclinare verso la materia (o meglio anche solo di «guardarla»), così da subirne il contagio.

Segue l’interpretazione di un passo del Teeteto, 176 a (§ 6-7), che si focalizza essenzialmente su due concetti: l’esclusiva presenza dei mali sulla terra (nell’ambito sensibile) e la necessità del male come contrario del bene. Il primo punto è necessario a Plotino per escludere il male dal luogo degli «dèi visibili», gli astri, ma più in generale significa che dal male non sono affatto toccati i princìpi sommi, le ipostasi. Quanto al secondo punto, Plotino espone quattro obiezioni ipotetiche (1. il vizio non è contrario al bene bensì alla virtù; 2. il male sarebbe il contrario di un Bene che è privo di qualità; 3. l’esistenza di un contrario è possibile ma non necessaria; 4. l’essere, in quanto sostanza, è privo di contrari) e ribatte affermando essenzialmente che è possibile un contrario dell’essere (nei termini della massima distanza concepibile, senza nulla in comune tra le due realtà), e che questo contrario è necessario per due fondamentali ragioni: esso è una componente indispensabile del cosmo (mescolanza di necessità e intelletto) e inoltre si pone come livello estremo della ‘processione’ di tutte le cose dall’Uno, in quanto tale completamente sprovvisto della ‘bontà’ originaria.

La restante parte dello scritto è costituita da una serie di obiezioni ipotetiche e relative risposte (§ 8-15); tali obiezioni si incentrano soprattutto su due questioni: pretendono di spiegare il male morale (il vizio dell’anima) escludendo l’azione della materia in sé stessa, oppure affermano che la materia non ha titoli sufficienti per essere designata come male assoluto.
La conclusione (§ 15) evoca infine l’immagine luminosa delle catene d’oro in cui sempre il male è avvinto: la materia, infatti, non si presenta mai in sé stessa bensì sempre già in-formata e ricoperta da immagini di bellezza, che sottraggono la sua vera natura alla vista di uomini e dèi e permettono di rammemorare l’origine.


Nel complesso il trattato che abbiamo in parte esaminato è innervato da un’intima problematicità, che potrebbe essere definita più precisamente come una discrasia fra il proposito esplicito che muove Plotino e la tendenza di fondo, in certo modo sotterranea, che si afferma nel discorso e che è sostanzialmente coerente al contesto complessivo del sistema articolato nelle Enneadi. Infatti il trattato è stato composto, molto verosimilmente, per dimostrare che i mali (quelli del corpo e, quel che più conta, i vizi) non sono un prodotto dell’anima, in quanto dipendono da una realtà effettiva che preesiste alle anime e ai corpi, cioè dalla materia, che andrà perciò assimilata al «male primo» o «male in sé»; insomma, lo scopo fondamentale dello scritto è il tentativo di sollevare l’anima dalla responsabilità dei mali, riconoscendone al contempo la natura trascendente e divina. Tuttavia questa tesi, che è indubbiamente il nucleo del trattato, va incontro ad almeno due difficoltà: in primo luogo, la prospettazione stessa di una realtà effettiva del male è altamente problematica, perché la concezione rigorosamente monistica di Plotino, enunciata a più riprese (l’intera realtà procede dall’Uno-Bene, origine assolutamente trascendente e sovra-essenziale), non può ammettere che si dia qualcosa come il male, né quale principio antitetico e alla pari dell’Uno, né (come pretende Plotino) quale massima estenuazione della potenza produttiva di quest’ultimo; in secondo luogo, è senz’altro vero che i corpi e le anime irrazionali sono irrimediabilmente commisti alla materia e perciò ‘viziati’ per natura, però, come Plotino stesso non manca di far intendere, il vero movente del vizio (il male nell’anima, che più interessa qui) è la colpevole inclinazione dell’anima razionale verso la materia, il suo cedimento all’oscurità e indeterminatezza di questa. Allora, in ultima analisi, bisognerà attribuire all’anima la vera e propria responsabilità del male; certo, se non vi fosse l’oscurità della materia, l’anima non potrebbe inclinare a una colpevole attrazione, ma di fatto è l’anima a innescare il processo di corruzione che conduce al male. In definitiva, potremmo dire che la materia costituisca un fattore necessario e l’anima la causa effettiva.



{1}Su questo episodio della Vita (§ 11.11 sgg.) si basa, come è noto, una delle grandi Operette morali leopardiane: il Dialogo di Plotino e di Porfirio.


Tratto dalla Tesi di Laurea magistrale in Filologia classica (Corso di Laurea in Filologia, Letterature e Storia del mondo antico), discussa presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (A.A. 2017-2018).
Titolo della Tesi: “PLOTINO, ENN. 1.8, § 1-7: TRADUZIONE E COMMENTO”.
Relatore: Gianfranco Agosti - Correlatore: Riccardo Chiaradonna (Università degli Studi “Roma Tre”)




PLOTINO
L’attività filosofica di Plotino (205-270 d.C.) si inserisce nel quadro del platonismo di età imperiale, che egli rinnovò così profondamente da avviare una nuova fase speculativa che i moderni definiscono convenzionalmente ‘neoplatonismo’. Della sua biografia abbiamo soltanto le notizie contenute nella Vita redatta dall’allievo Porfirio di Tiro.
Nacque a Licopoli, in Egitto, e si formò ad Alessandria presso la scuola di Ammonio Sacca; nel 244 si recò a Roma, dove fondò un’importante scuola filosofica e trascorse pressoché tutto il resto della sua vita. Nei primi anni il suo insegnamento, che godeva di grande rinomanza presso il ceto nobiliare di Roma, fu esclusivamente orale; a partire dal 254, ormai cinquantenne, fino all’anno 269, iniziò a redigere una serie di trattati che alla fine della sua vita ammonteranno a cinquantaquattro e andranno a costituire (grazie alle cure editoriali dell’allievo Porfirio, che frequentò la scuola nel periodo 263-268) l’opera detta Enneadi (il titolo significa ‘gruppi di nove trattati’ e deriva dalla scelta di Porfirio di organizzare gli scritti appunto in sei gruppi di nove trattati ciascuno, in base a una logica tematica).
Nell’anno 269 Plotino, malato, si ritirò dall’insegnamento per trasferirsi in Campania, ove morì l’anno seguente.


leonardozelli@tiscali.it