FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 51
gennaio/aprile 2019

Ostacoli

 

LA POESIA PARTECIPE DI ALEXANDRE PILATI

di Vera Lúcia de Oliveira



Autofonia è il titolo dell’ultimo libro di Alexandre Pilati (1976), poeta brasiliano contemporaneo, saggista o professore di letteratura presso l’Università di Brasilia, appassionato dell’Italia, lettore dei più grandi scrittori di questo paese, soprattutto di Dante e Pasolini, sui quali si è soffermato nelle sue ricerche e ai quali ha dedicato diversi testi pubblicati in Brasile.

In Alexandre Pilati il poeta, il saggista e il professore non si separano mai, come ha dichiarato in una recente intervista curata da Maristella Petti: “Non riesco a separare queste dimensioni dalla mia ‘professione’. Non riuscirei a essere professore senza essere poeta. Non riuscirei a essere poeta senza essere critico letterario. È tutto a servizio della creazione e dell’interpretazione del mondo. È il mio modo di ‘stare al mondo’.”{1}

Il termine “autofonia” non è di uso comune e indica un disturbo dell’udito, una patologia che porta il soggetto a sentire in modo amplificato le vibrazioni e suoni del proprio corpo. Detto questo, perché l’autore ha scelto un titolo in apparenza così poco poetico per il suo libro? E di quale corpo si tratta, dove si insidia la patologia che indica? Forse nel corpo stesso del poeta, ripiegato su di sé? Indica, d’altra parte, il corpo della poesia contemporanea in generale, che si ausculta in un metalinguaggio che la segrega e la allontana dai lettori? Oppure, ampliandone il significato del termine, esso può includere un paese, il Brasile, sordo alle istanze sociali, interessato al profitto e all’arricchimento di coloro che già godono di ogni privilegio? In ultima istanza, “autofonia” è una malattia sociale di un tempo e di un mondo che si è perso inseguendo il profitto ad ogni costo?

Per rispondere a tali domande, forse possiamo utilizzare le parole di un altro poeta brasiliano, Nicolas Behr (1958), che, nel riferirsi alla poesia di Alexandre Pilati, afferma che essa “ci porta via dalla nostra zona di comfort”.{2} In altri termini, è poesia scomoda e critica nelle sue indagini di senso e di forma, è poesia che ci sollecita e non consola, anche se non è mai nichilista perché il poeta crede al ruolo della poesia e della letteratura come forze umanizzatrici potenti, capaci di ricordarci valori come la solidarietà, l’empatia, la sensibilità, l’amore, il rispetto per ogni essere e per la natura in generale.

Proprio questo fa il poeta in questo e nei libri precedenti, utilizza la poesia per vedere, per ampliare la sua e la nostra capacità di analisi. Troviamo un io lirico che espone il corpo nudo della parola e si interroga sul rapporto fra letteratura e società. Dove sta, dove va la poesia oggi, si chiede in diversi modi. Riesce ad andare oltre se stessa e ad ascoltare altro? È capace di trovare risposte alle grandi sfide del nostro tempo, come le migrazioni di massa, i conflitti, le guerre, la fame in vaste aree del pianeta, i disastri ambientali causati dai cambiamenti climatici, la disparità fra Nord e Sud?

Di nuovo, per rispondere, bisogna considerare che Alexandre Pilati è un poeta molto lucido e riflessivo, radicato nella geografia e nella storia del suo paese e allo stesso tempo cosmopolita. Nato e cresciuto a Brasilia, la presenza di questa città è ovunque nei suoi testi. Brasilia incarna, più di ogni altra capitale, il progetto utopico della città avveniristica, ma è anche, al contempo, il fallimento di un’utopia. Pensata e concepita come urbe del futuro di un Brasile, anch’esso del futuro (che mai arriva), finisce per incarnare le contraddizioni di questa grande nazione sudamericana.

Se il piano urbanistico e architettonico di Oscar Niemeyer e Lúcio Costa traccia le linee minimaliste e avanguardiste che appagano l’occhio del viaggiatore alla ricerca di spazio e bellezza, i veri costruttori della città, i cosiddetti “candangos”, brasiliani arrivati da ogni parte del paese negli anni sessanta per edificare la nuova capitale non vi hanno trovato posto: nessuno aveva pensato a loro. Essi sono stati respinti e insediati quasi a forza nelle città-satellite, che circondano la capitale brasiliana come una sorta di corona di spine, come Ceilândia, Brazlândia, Sobradinho, Planaltina, Paranoá, Candandolândia e altre, in cui vivono circa quattro milioni di persone.
Tutto ciò è dentro la poesia di Alexandre Pilati come inquietudine e domanda viscerale di senso che pone l’uomo e l’intellettuale in primis a se stesso, ma anche ai suoi connazionali e a noi, forse tutti affetti dal male dell’autofonia.

Da questo avamposto, Brasilia, l’io lirico parte per osservare il suo tempo, transeunte di se stesso, passeggero attento e presente che si decentra, sposta la sua ottica verso le periferie e le incorpora come frattura, ferita aperta nella coscienza. Ma Brasilia, a guardar bene, non è altro che un ritratto in scala minore di come si configurano i paesi. Ed ecco che allora lo sguardo si allarga ulteriormente su tutto il mondo, al cui centro stanno i paesi ricchi come Stati Uniti ed Europa e le periferie sono ovunque ed è inutile sfuggirle, cancellarle dal nostro orizzonte: da esse arrivano nei barconi i disperati che attraversano i mari e gli oceani, scavalcano recinzioni e muri, perché ogni essere ha il diritto alla vita e la sopravvivenza è un istinto.

Non è un caso se uno dei testi del libro, “Amor”, sia ambientato a Roma (fra l’altro “amor” è anagramma di “Roma”), seguito dalla poesia “Brasília, setembro, 2016”. Nel primo, il poeta cammina per i viali di Roma, fra ponti, chiese, palazzi, ville rinascimentali e rovine antiche. Il suo corpo si fonde e confonde con quello della città millenaria, orgogliosa e imponente:

      Membro vivo, meu corpo breve
      é inchaço de eras. Rijo, mármore, desejo.
      Evolo as perdas num império de pedras!
      Morro com meu presente.
      Sou outro: sou milhões de esmagados
      gritos sob colunas divinas.
      Aqui me perdi do nome
      e fulguro este braço etrusco fraturado,
      estendido sobre um Tevere de sedas.
      (...)
      Roma é negra, como o sexo.
      Roma é perigo de flores, como o amor.
      Roma, num carrossel de litanias de África!
      Roma: Píer Paolo e massacres.
      {3} (pp. 38-39)


      [Membro vivo, il mio corpo breve
      è gonfiore di ere. Solido, marmo, desiderio.
      Mi libro su perdite in un impero di pietre!
      Muoio con il mio presente.
      Sono un altro: sono milioni di schiacciate.
      urla sotto le colonne divine.
      Qui ho perso il mio nome
      e ritraggo questo braccio etrusco fratturato,
      esteso su un Tevere di sete.
      (…)
      Roma è nera, come il sesso.
      Roma è pericolo di fiori, come l’amore.
      Roma, in una giostra di litanie d’Africa!
      Roma: Pier Paolo e massacri.]

Nella città dell’arte, nella città di Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Bernini e nel corpo imponente e millenario di Roma il poeta vede “pelo avesso” [al rovescio] (p. 40) e cerca le “cicatrici” di coloro che sono morti per edificare un grande impero.

Dal Nord al Sud del mondo, dal passato al presente, troviamo lo stesso tipo di approccio nella poesia che segue, “Brasília, setembro, 2016”, dedicata appunto alla sua città, vista e percorsa in una giornata di primavera, a settembre, in cui fioriscono nelle larghe strade centinaia di ipês gialli, forse l’albero simbolo di Brasilia. I colori, la luce, il profumo, tutto si apre allo sguardo e la natura pare festeggiare la fine dell’inverno. Se c’è innamoramento del poeta per i cieli aperti della capitale del Brasile, tutto questo non può essere dissociato, anche qui, dal suo opposto. Lo sguardo critico non disgiunge mai dal bello le sue incrinature e contrasti, anzi essi appaiono ancora più evidenti se accostate:

      o abraço de sépia de certas manhãs
      e setembro conduz as entrequadras (...)

      amada pátria!, onde o tempo ferve, gorjeia, flerta e fica.
      o morno não passar das horas enquanto
      a vida passa, feito na música de ednardo.
      ‘arrepare não’: tudo parece com morrer, com não ter crescido, com ter secado.

      o tempo voltou ou o país está de pés descalços? a vida perdeu
      a razão e o passado é um ‘pois não?’ os olhos carecem de vento
      para ver, sem ele, os olhos são velhos móveis diante do horizonte
      cerrado pelos anos que retornam: o abraço de açame em nossa boca.
      (pp. 42-43)


      [l’abbraccio di seppia di alcune mattine
      e settembre conduce alle piazze (…)

      amata patria!, dove il tempo arde, cinguetta, flirta e rimane.
      il tiepido non passare delle ore mentre
      la vita passa, come nella musica di ednardo.
      arrepare não’: tutto somiglia a morire, a non essere cresciuto, a essersi inaridito.{4}

      il tempo è tornato indietro o il paese è scalzo? la vita ha perso
      la ragione e il passato è un ‘prego?’ gli occhi hanno bisogno di vento
      per vedere, senza di esso, gli occhi sono vecchi mobili di fronte all’orizzonte
      chiuso dagli anni che tornano: l’abbraccio che imbavaglia la nostra bocca.”]

Abbiamo dunque un soggetto, il poeta, che si aggira per le strade di Brasilia, capitale di ogni utopia e scorge, come si è detto, l’altro lato, la parte che si nasconde sotto il tappeto, la donna che gli pulisce la casa e che entra dalla porta di servizio affinché continui a essere, dopo cinquecento anni, invisibile, come lo sono stati forse i suoi avi arrivati nella stiva delle navi negriere portoghesi.

Eppure Alexandre Pilati è un lirico inebriato dalla bellezza, capace di scorgerla ovunque, senza chiudersi in un’idea astratta di arte e di poesia, in una nicchia dissociata dal reale di ogni giorno. Le figure, i suoni, le immagini entrano anche nella forma di un quadro forte che spiazza:

      lembra-te, poeta:
      contra as certezas aéreas do poema se ergue a espinha
      de sísifo
      da diarista
      que brande derrota dia após dia pela porta
      dos fundos
      (p. 20)


      [ricordati, poeta:
      contro le certezze aeree della poesia si alza la spina dorsale
      di sisifo
      della domestica
      che sfoggia la sconfitta giorno dopo giorno dalla porta
      di servizio]

L’io lirico pare una sorta di clinico che cerca di auscultare il corpo malato della poesia-paese. Percepisce, tuttavia, che anziché sentire la voce esterna sente quello del suo stesso corpo come se fosse murato, afasico e sordo ai rumori esterni. Il libro è un’impietosa e allo stesso tempo ironica e autoironica diagnosi dell’incomunicabilità, della chiusura all’altro, del fallimento di un progetto di società più giusta in cui tutti hanno posto e tutti abbiano riconosciuti i diritti fondamentali.

In “Erros” [Errori], Alexandre Pilati fa una sorta di elenco degli errori (come indica l’omonimo titolo) compiuti non solo da chi detiene il potere e difende i suoi privilegi, ma anche da chi, apparentemente con buone intenzioni, crede di lottare per un mondo più giusto dal chiuso di uno studio o di una biblioteca, forse in una comoda casa di un quartiere residenziale, e di risolvere ogni problema con soluzioni teoriche che sulla carta funzionano, ma che non resistono alla prova dei fatti:

      Lembre-se de que estamos sempre projetando o futuro
      A esquerda chegou a ser o máximo valor da burguesia
      O corpo antes de tudo
      O corpo e seus barulhos
      O corpo como experiência da verdade

      - A noite que queríamos não existe mais lá em cima
      Ela é um grande lençol onde se deita a realidade
      (p. 35)


      [Ricordati che stiamo sempre a progettare il futuro
      La sinistra è arrivata a essere il massimo valore della borghesia
      Il corpo prima di tutto
      Il corpo e i suoi rumori
      Il corpo come esperienza della verità

      – La notte che volevamo non è più lassù
      Essa è un grande lenzuolo che giace sotto la realtà]

In questo senso, “Luz do chão” [Luce del suolo] (p. 21) è non solo uno dei più belli e significati testi della raccolta, ma è la risposta del poeta a se stesso e ai suoi lettori. Se è vero che nel libro abbiamo una sorta di diagnosi della poesia contemporanea, esso è allo stesso tempo un invito a uscire dal nostro spazio protettivo: “dá o que falta ao poema / consistência de matéria de coisa chã / ou de vento ar: que é a coisa mais concreta e mais azul” [dà ciò che manca alla poesia / consistenza fisica di cosa ordinaria / o di vento aria: che è la cosa più concreta e azzurra] (p. 20). Indica un percorso per la poesia, affinché si rituffi nella mischia sporca della vita, si bagni di sudore, in fila per l’autobus ogni mattina, e si asciughi al sole impietoso di chi lavora sotto la calura.

In questa poetica, le parole si staccano e prendono vita anche da sole, come se fossero loro a insegnare al poeta e a noi a sentire di nuovo quello che dicono. Se uno dei mali della letteratura e dell’arte oggi è l’autofonia, allo stesso tempo la poesia ha l’antidoto nella sua voce critica, dissidente, ribelle: “ouve, então, (o poema ouve, não duvides!) alguém / ouve a meio da rua ou dentro do corpo” [ascolta, allora, (la poesia ascolta, non dubitare!) qualcuno / sente in mezzo alla strada o dentro il corpo] (p. 21) Il corpo-paese-mondo è qui, davanti a noi, smemorato e sordo, incapace di intravedere il futuro e pronto a ripristinare il passato per paura, per mancanza di autocritica, per incapacità di dialogo, per autolesionismo, per mancanza di altruismo, per coltivare valori che non contemplano l’umano e le sue fragilità e debolezze. A esso, la poesia oppone un altro dire, un’altra voce, che è dentro e fuori dal corpo:

      Dizer o que o ouvido
      receita, reclama e rejeita
      vindo de dentro do próprio
      corpo dos tambores de dentro
      do navio negreiro do mundo.
      (p. 63)


      [Dire quello che l’orecchio
      prescrive, richiede e rigetta
      che arriva dall’interno del proprio
      corpo dai tamburi dell’interno
      della nave negriera del mondo]

Se sono tutti un po’ sordi, non lo sono intellettuali come Alexandre Pilati, consapevoli che in ogni tempo i poeti sono rari e che essi sono le voci dissenzienti della nostra coscienza etica, sociale e politica. Autofonia è così una coraggiosa anamnesi e una diagnosi dinamica, che ci coinvolge in una possibile alleanza fra letteratura e società per avviare insieme un cambiamento interiore. E non solo.



{1}“Maristella Petti intervista Alexandre Pilati”, Insula europea, 13 ottobre 2017, in www.insulaeuropea.eu.

{2}BEHR, N., quarta di copertina, PILATI, A., E outros nem tanto assim, Rio de Janeiro, Editora 7Letras, 2015.

{3}Tutte le poesie presenti nel testo sono del libro PILATI, A., Autofonia, Guaratinguetà, Penalux, 2017. Le traduzioni sono mie.

{4}arrepare não’, lasciato in originale, è l’inizio del primo verso della canzone “Enquanto engoma a calça” (1979), del cantautore brasiliano Ednardo, nome artistico di José Ednardo Soares Costa Souza (1945), artista eclettico molto noto anche per aver composto alcune canzoni che sono dei classici della musica brasiliana, come “Pavão misterioso”. Il riferimento a Ednardo è anche un dialogo intertestuale del poeta con il cantautore del Nordest. In effetti, il refrain della canzone recita “Porque cantar parece com não morrer / É igual a não se esquecer” [Perché cantare somiglia a non morire / È uguale a non dimenticare], mentre il verso di Alexandre Pilati è quasi un rovesciamento di senso: “tudo parece com morrer, com não ter crescido, com ter secado” [tutto somiglia a morire, a non essere cresciuto, a essersi inaridito.]. In questo contrappunto fra i due, Pilati segnala il tradimento delle speranze in un paese che pare rinunciare alla democrazia.




Alexandre Pilati
è nato a Brasília (in Brasile) il 3 febbraio del 1976. È professore di letteratura brasiliana all’Università di Brasília, critico letterario e poeta.
Ha quattro raccolte pubblicate: sqs 120m2 com dce (2004), prafóra (2007), e outros nem tanto assim (2015) e Autofonia (2017).
Maggiori informazioni sulla sua opera possono essere trovate nel sito www.alexandrapilati.com.


veralucia.deoliveira.m@gmail.com