Con questa sua prima raccolta, uscita dopo una gestazione di un quarto di secolo, Andrea Ventura si situa tranquillamente tra i poeti inattuali, specie perennemente in via di estinzione, ma per fortuna mai completamente estinta. Ventura sfugge alla dittatura imperante della banalità sia declinando l’invito a scendere nell’arena del news cycle che ignorando l’ormai automatica ingiunzione di essere immediatamente fruibile. Di fronte alla singolare amnesia collettiva che affligge le lettere contemporanee, tornate ad appoggiarsi a una diretta e aproblematica correlazione tra segno e referente, raccolte come questa equivalgono a un accorato appello a ricomplicare la scrittura, perché nell’odierna corsa al ribasso semantico abbiamo evidentemente tutti perso di vista qualcosa.
Evitando il malinteso che confonde la realtà con il reale (ciò che sta al di là di ogni simbolizzazione, il nodo inconscio che organizza la nostra visione della realtà), Ventura punta alla giugulare della condizione umana, illuminando quell’algoritmo di desideri, sofferenze e fantasmi che ne costituiscono la cifra. La sua scrittura è laboriosa, non per partito preso ma perché il viaggio (figura principe nella raccolta) è tortuoso e complesso, e la verità espressa direttamente non è la stessa verità a cui si giunge attraverso un lavoro obliquo di approssimazione in cui tanto il progetto quanto l’abbandono al caso preparano il terreno all’incontro con la tuché, l’inciampo nella catena significante, secondo Lacan “ciò che non cessa di non essere scritto.” Da una parte, Ventura mette in evidenza la dimensione trascendentale della scrittura in quanto rete che sostiene e allo stesso tempo restringe il nostro esistere nel mondo, rendendolo incompleto: “Sono ostaggio di un avverbio”; “La mancanza di un verbo accanisce un freddo appuntito”; “Le costruzioni / grammaticali non perdonano”; “rassegno le dimissioni in poche righe, / sapendomi il solo a svanire”. Dall’altra, in guisa montaliana, un arsenale di segnali divinatori promette uno scarto dalla prigione del linguaggio: “il sortilegio”, “il vaticinio”, “le carte astrali”, “la combinazione”, “l’incantesimo”, “l’oroscopo”, “i tarocchi”. Ma che cosa c’è, dunque, oltre il linguaggio? C’è l’oggetto da sempre perduto, la totalità senza fratture, la mitica pienezza prenatale in cui non sussiste ancora alcuna divisione tra oggetto e soggetto. Ma il recupero di questa dimensione ci è impossibile, nella misura in cui la nascita del soggetto è abilitata proprio dal suo dissolversi. Al poeta, dunque, non resta altro – e in questo altro risiede appunto il suo godimento – che apprestarsi al progetto infinito di misurarne la distanza da noi.
Heidegger ha affermato che fare poesia è precisamente l’atto di “prendere la misura” tra noi e il cielo. Anche per Ventura, dunque, la poesia è un astrolabio che serve a triangolare la nostra distanza dal trascendente: “rimarrò fedele a questa vetrata / che stabilisce tra noi un disegno”; “Quali parole ho amato alla confluenza / di tutte le traiettorie possibili”. Ma se per Heidegger c’è un misurare autentico (appunto, la poesia) e uno inautentico (il sondaggio pragmatico) in Ventura non c’è quasi mai il senso che quest’ultimo appartenga a un’ermeneutica inferiore o falsa: anzi, l’insistita presenza nella sua scrittura della ritualità prosaico-burocratica (“milioni / di firme apposte in calce ai giorni”) suggerisce proprio che il basso è in un rapporto di immanenza con l’alto; che se esiste un ordine trascendente, insomma, esso non può che essere immanente all’ordine delle cose terrene. In tal modo, per esempio, “l’assemblea condominiale” è evento necessario e funzionale all’ “accesso alle terrazze, che sfiatano / sui tetti del Flaminio”. Analogamente, “il ritiro del voucher” alla “reception” è rito indispensabile alla fantasia del “trasbordo di chilometraggio / illimitato” che conduce alla visione paradisiaca di “Lipari e delle / accluse meraviglie”.
Nell’immaginario di Ventura, è il mare a rappresentare l’oggetto perduto. Il mare è “la marina dell’addio”; è “una vela apparsa felice / all’infanzia”; è “finzione di una terra / che non parla la lingua dei vivi”. Se il mare incarna la perduta pienezza ontologica, il reale precluso alla nostra dimensione linguistica, la strada è ciò che invece troviamo sempre presente. Ancora una volta, la relazione tra i due è immanente: è proprio l’assenza/perdita del mare in quanto pienezza a generare l’interminabile dedalo di strade su cui si spende la nostra esistenza. Nella poesia di Ventura, le “arterie dense d’asfalto”, “il marasma d’asfalto”, “i vialoni”, i sentieri fuori porta”, le “povere strade d’argilla” sono figura di una progettualità pertinace, del desiderio tentacolare che investe ogni verso. Ciò che ci attende alla fine della strada è inessenziale, perché ogni destinazione non è che sineddoche insufficiente di una meta irraggiungibile. In questo senso, il viaggiatore rimane scisso in una realtà scissa, condannato a perlustrare le tracce di un’assenza. Ma capita talvolta che l’assenza inerente all’Essere e quella inerente al soggetto si sovrappongano, ed è qui che può accadere il miracolo, l’unico che ci sia concesso: la fulminea presa di coscienza della loro indissolubile correlazione. È questo il tema della poesia Tangram, in cui si vede che il problema epistemologico che impedisce al soggetto di abbracciare l’intero Essere non è in ultima istanza che il riflesso di un problema ontologico che inerisce all’Essere stesso. Le grandi fantasie cosmologiche (“l’eterno ritorno”) hanno bisogno di una “zampa di coniglio” per ogni volta “ricostruire l’intero unitario”. Parafrasando Hegel, cioè, “lo Spirito è una zampa”.
Proprio in questa consapevolezza risiede l’opportunità di sciogliere il nodo libidico che ci mantiene asserviti a un determinato schema ideologico (la nostra “abitudine alla conta infinitesimale”), l’opportunità di riconfigurare il rapporto con il nostro io desiderante, e quindi con le cose. Questo, in ultima analisi, il compito del poeta: esporsi (e condurre il lettore) all’esperienza miracolosa-traumatica che rivela l’assoluta contingenza della nostra esperienza su questa terra, al fine di produrre uno scarto di prospettiva, una piccola, emancipatrice riscrittura del nostro destino. O più succintamente, con le parole dell’Autore, fare poesia è esporsi a “una combinazione / instabile per dividere e decidere / di cambiare calligrafia.”
POESIE DI ANDREA VENTURA da Mezzanotte in via Toledo puntoacapo, 2018
UNA ROSA BIANCA
Una rosa bianca è il lascito inatteso:
annientata la parola capace
di donare il mattino, neppure
c’è traccia di luna sulla povertà
di una poesia senza selciato.
Solo la tua bellezza riprende
piede, irrisolta e indecifrabile.
Un tempo di sabbia abita il mare
e ne popola gli incubi: le lacune
peggiori dell’incantesimo dove
uniamo le mani per separarci.
*
Un solito volto, questo articolo,
eremo testamentario di regni
invisibili ridotti alla loro
insolita apparenza. Sono cadenze
già state, ridate a rivivere
non lontano dagli occhi,
scintille di prodigiosi racconti:
perché il molto vieta una comoda
e comprensiva intestazione;
perché, avveduti, se qualche passo
improbabile si è fatto, alla lunga,
siamo caduti per quei quattro
dobloni che promettono le fate.
*
Con la penna scrivo una parola
e ne provo il sorteggio, come
se non potessi disattendere i miei
occhi lustri attraverso l’emblema
delle campagne severe con cui divido
il firmamento. Questa esedra applaude
una esistenza incapace che affolla
di volti la mia notte. La penuria
d’agosto conduce alle alture, bruciate
dal respiro dei padri; una flagranza
indora l’avvicendarsi delle sorti.
TANGRAM
Scomponi la figura riportata e passa
alla reception: il ritiro del voucher
non richiederà più di pochi minuti,
irrisoria fatalità per chi ha in animo
un trasbordo di chilometraggio
illimitato (mi parli di Lipari e delle
accluse meraviglie, sia pure l’aliscafo
una caravella dalla pesca miracolosa).
Dal quadrato multiforme ricavi
una fattoria di pennuti di sparuta
simpatia, come l’equivalenza delle
forme e delle esistenze: non che la fortuna
vi assomigli; ma la diversione, dove
le traiettorie si mescolano, è una
malinconica parodia dell’eterno
ritorno, per chi spera che, alla fine,
il coniglio sia disposto a cedere una
zampa per ricostituire l’intero unitario.
IL BANDOLO
Il fumo edulcorato del tabacco
da pipa bilancia la partitura
del pendolo che insinua con riguardo
l’ora di chiusura. Tra i clienti
che esitano cedo alla tentazione
di sbrogliare la matassa nascosta
nella rettitudine formale di un tuo
appunto plurilingue. Mi ragguagli
sull’uragano d’oltremare, una
digressione sincera del nostro
collasso: le lanterne delle barche
incagliate, dalla liquida pianura,
sembrano solo segnali, perse
nella loro predizione. E il sole,
sgualcito sopra la città, ritrova
la fine nella pronuncia incerta
di un sonno prosciugato di canti.
*
Perdona, adesso, lo snello miracolo
dei coriandoli, monelli per tre sole
spinte di meraviglia, bizzarro
sacrilegio alle stelle sparpagliate
di tanto. L’allineamento è ormai
imprendibile: ma io sono quello,
e con tutto lo spazio in mezzo.
MEZZANOTTE IN VIA TOLEDO
Mi sento sconfitto, quando vivo il tuo
sogno quale naufrago arrendevole
i giorni, nella finzione di una terra
che non parla la lingua dei vivi.
Io esisto, invece, nella tua voce
che stanotte declino sulle rive
di un’altra vita, apparsa
ad un uomo che neppure conosco.
Oggi il tempo del mare si è fermato,
e tu decidi questa immagine, folle,
indecifrabile del tuo senso, incredibile
e diverso. Non so che di queste pause,
come sia mai possibile incostanti,
alla ricerca di te, diffranta
nel labirinto di un’ora, la linea
imperdibile del giorno che sperde
l’ombra: fosse un’anima sarebbe questa.
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Andrea Ventura, Mezzanotte in via Toledo, puntoacapo, 2018, pagg. 77, euro, 12 – con una prefazione di Giorgio Mobili.
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Andrea Ventura si è laureato in Lettere Moderne all’Università degli Studi di Pavia, città dove attualmente vive, con una tesi di Laurea sui Canti di Giacomo Leopardi. Ha insegnato per anni materie letterarie nella scuola secondaria. Appassionato e studioso di poesia dell’Ottocento e del Novecento, ha pubblicato nel 2017 una prima raccolta di testi poetici sul n. 47 (luglio/dicembre) della rivista “Fili d’aquilone”.
giorgiomobili@hotmail.com
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