FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 51
gennaio/aprile 2019

Ostacoli

 

UNO

di Emanuela Chiriacò



È la prima volta che metto piede a Copyleft. Mentre cammino, mi guardo attorno; sembra una città fantasma. L’unico locale aperto esibisce una lavagna vicino all’ingresso da cui leggo perplesso: «Prova la minestra di ogni giorno!»

Non è invitante ma ho appetito. Entro e dietro la tenda a frange di plastica colorata, mi aspetta una donna dal seno generoso che mi guarda con lieta fierezza, e distrattamente dice:

«Che fai mi guardi le tette?»

Penso che un Buongiorno! Sei solo? Puoi accomodarti qui! si sarebbe abbinato meglio al mio ingresso. Con il pensiero puntualizzo comunque sono loro che insistono a fissare me! mentre lei rimane delusa dal mio silenzio.

Non faccio in tempo a posare il sedere sulla sedia che la donna prende il mestolo di legno, lo affonda nella pentola già colma di broda e mi riempie una scodella.

«Cos’è?» chiedo

«È Uno. Ti piace?»

«Uno?»

«Sì, Uno.»

Penso che preferirei piuttosto le sue tette stagionate ma non lo dico. Indugio nell’assaggio, lei nell’attesa; il mio imbarazzo è la somma di tutti i secondi taciuti davanti a quella faccia paziente, improvviso ruminando un sommesso e ambiguo:

«Mhmm…»

«Allora ti piace!»

«M»

«È il piatto tipico copyleftese, fatto con tutti gli scarti delle storie originali raccontate nell’anno precedente. È sempre diverso ma il sapore è simile. Secondo studi e analisi approfondite svolte in città, possiamo affermare con certezza che sia così, siamo consapevoli che l’aspetto possa ingannare ma in confidenza ce lo possiamo dire?»

«Che cosa?»

«Che lo stomaco non capisce! La partita del gusto si gioca in bocca, poi il viaggio fino al culo è tortuoso ma pur sempre inesorabile. Ti lascio finire. Se ne vuoi ancora, chiama me o le gemelle», dice guardandosi le tette. Si volta con la pentola posata sul fianco e sparisce dietro le porte basculanti della cucina.

Imbarazzato dal suo verbo diretto, mi guardo attorno e mi accorgo che il ristorante è quasi vuoto. I pochi ospiti mangiano a tempo, seguendo una coreografia che punta il gomito sul tavolo e regola il movimento del braccio avanti e indietro, un - due, verso la bocca che si apre e chiude, tre - quattro, fino allo svuotamento della ciotola. Questa città non mi piace. Sento però uno strano magnetismo che mi impedisce di muovermi, qualcosa dentro mi dice che devo restare. Neanche questa sbobba mi piace ma decido di provare a mangiarla.

L’ingresso di un avventore dai capelli diradati come filamenti unti di varia larghezza riportati su di un lato, mi distrae. Con fare affettato, mi chiede di accomodarsi al mio stesso tavolo.

Con tutto lo spazio che c’è, penso, proprio qui deve! Ma rispondo «Sì, prego!».

Si siede e attende di essere servito. La donna torna e ripropone l’intero rituale e lui con denti alterni come la tastiera di un pianoforte si gioca un’affermazione incomprensibile al mio olfatto:

«Che profumo! Si sente che cucini con amore», alla donna sorridono le fossette e l’imbratto cambia colore, fluidifica, nel versarlo fuma e si presenta come una vellutata che invoglia l’assaggio. L’uomo impugna il cucchiaio, lo sorbisce e si complimenta

«È squisito, mai mangiato nulla di meglio. Chi ti ha insegnato a cucinare così? Beato chi ti sposa!»

L’uomo ha cambiato capigliatura, è bionda e folta; con un leggero spostamento degli occhi nota che una O si è impossessata della mia bocca e ne cristallizza la forma.

«Ho cambiato pettinatura per l’occasione, è un tacito accordo tra me e Uno. È la tua prima volta, vero?» Rispondo con un gloglottio consumato senza ripetizione, una g incastrata in gola e vibrata.

«Uhm! Che suono occlusivo e velare!» mi fa e strizza l’occhio, poi prosegue: «Allora, imparerai. Lo spero per te giovane ragazzo. Io ci vengo da quando ho perso la mia donna. La amavo tanto.»

Posa il cucchiaio e cala la mano nel fodero della giacca. Pesca una foto e me la porge come un tozzo di pane nell’incavo formato dalle sue mani, che diventa un’ostia tra indici e pollici. La donna ritratta ha un’espressione sognante. Accenno un sorriso; l’uomo ha un lucore umido agli occhi e in tono confidenziale mi dice:

«È morta con il fiato amaro di fiele e aglio, ecco perché mangio solo cose profumate. Il pensiero fisso che ruotava come un sole nella testa mia terrena ha smesso il giorno in cui ho assaggiato Uno per la prima volta. Ogni anno per l’anniversario della sua morte, vengo a Copyleft di proposito. Tu perché sei qui?»

Non mi dà il tempo di rispondere che richiama la donna per chiederne ancora. Penso che sia qui per la cameriera, per guardarle le tette, non per Uno.

La degustazione del bis gli porta la levigatura del viso. Quando sorride le zampe di gallina attorno agli occhi non ci sono più, la pelle è rosa caldo e luminosa. La mia sbobba invece è diventata fredda e compatta, ha assunto un colore fecale, non posso mangiarla! È a quel punto che l’uomo dice «Sei pura superficie ragazzo mio. Non è il tuo posto questo, non ancora!»

Vorrei rispondere Fatti i cazzi tuoi che campi cent’anni in più ma in fondo non gli auguro tutta quella durata. Mi odio per aver deciso di visitare Copyleft. È una città indefinibile e si mangia di merda. Non è il posto per me, ha ragione questo signore dalla giovinezza posticcia:

«Temo di essere d’accordo con lei. Cercavo un bel luogo e buon cibo purtroppo mi è andata male.»

«Vedo che sei sulla buona strada per capire il concetto di incompatibilità caro ragazzo. Un essere che non ha dimestichezza con l’unità, non può capire le decine. Ci vivi solo in mezzo, la tua è necessità numerica. Ti lascio al tuo digiuno, cambio tavolo.»

La donna gli fa strada e lo fa accomodare dall’altro lato della sala. Lo serve ancora e lui sorride. I suoi denti sono lattescenti, brillano; piccoli fasci di luce si posano sui canini inferiori e superiori ogni volta che muove la bocca per parlare. Io e la mia dolenzia rimaniamo immobili mentre la ciotola con Uno si è solidificata, come calce secca e compatta ha catturato il cucchiaio in posa verticale. La donna torna e mi chiede se ordino ancora qualcosa, ma c’è solo Uno! vorrei dirle e frignarle gnegnegné.

«Ti consiglio di riprovare con lo spirito giusto ragazzo, non sciupare questa occasione! Ti suggerisco di uscire, prendere aria e rientrare con un nuovo animo, magari andrà meglio.»

Lo stomaco si torce di tracotanza e mi impedisce di seguire il suo consiglio. Poi non so come, mi alzo di scatto e con una vertigine che si irradia dalla testa agli alluci mi dirigo verso l’uscita, si voltano tutti per guardarmi, divento rosso come un corbezzolo maturo che si stacca dal ramo e precipito rovinosamente in terra.

Al risveglio, sono muto. L’avventore anziano e la cameriera mi dicono:

«Non preoccuparti, puoi scrivere cosa vuoi dire.»

Cosa mi è successo?

Rispondono insieme: «Sei al grado zero, e in questa neutralità si presenta una grande opportunità, scegliere di diventare Uno o il suo opposto: meno Uno. Dipende da te, dalla tua scelta, dall’abbandono del tuo orgoglio immaturo. Dall’ostacolo dietro cui ti nascondi per non cambiare!».

Allora scarabocchio un come si fa a diventare Uno?

Mi consigliano di scrivere d’istinto per valutare cosa mi freni. Accetto. Il foglio vuoto mi guarda. Il pudore si trasforma in complicità e la penna mi fa da guida per tutto quello che voglio dire. Ho sempre pensato che un giorno, coraggio permettendo, avrei scritto questa fottutissima cosa per raccontare ciò che non so perdonarmi. Scivolo nel foglio, camminando piano; le linee grigie chiare che separano gli spazi sono il mio passamano. Lo seguo e lo sfioro con la punta della penna dapprima con timore poi con confidenza. Dopo tre ore e un certo tremore alla mano disabituata al gesto, porgo loro il tema ma lo rifiutano e mi invitano a leggere. Stento a riconoscere la mia voce, è bassa e profonda, priva dell’addio che manifestava prima del mancamento.

Ho appetito e chiedo di mangiare. Sono al punto di partenza, la donna dal seno gigante mi riporta nella gargotta di prima e mi chiede

«Che fai mi guardi le tette?»

«Sì, sono belle e materne.»

Mi versa la minestra nella ciotola, ha un colore tenue, una consistenza fluida e sbuffa calore.

«Cos’è?» chiedo

«È Uno. Ti piace?»

Il profumo è carezzevole, lo assaggio.

«Sì, molto!»

Con fare spontaneo, l’uomo mi propone di accomodarsi al mio stesso tavolo.


emanuela.chiriaco@hotmail.com