FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 50
settembre/dicembre 2018

Aurora

 

ANTONELLA GIACON, QUALCOSA DI SPECIALE

di Vera Lúcia de Oliveira



Antonella Giacon, padovana, residente a Perugia da molti anni, dove, oltre a scrivere, insegna scrittura creativa nella scuola elementare e media, non è nuova in questo spazio. La conoscevamo per le dense raccolte poetiche, Sottopressione (Fara Edizioni, 1994) e Pegno d’amore (Edizioni Corsare, 2001), presentate nel numero 13 di Fili d’aquilone. Ora l’autrice ritorna e questa volta con un romanzo, Qualcosa di speciale.
Forse il più grande elogio che si possa fare a un romanzo è quello di un lettore che non riesce a smettere di leggerlo finché non è arrivato quasi alla fine. Dopo di che si ferma (almeno io lo faccio e so di non essere l’unica), perché dispiace che il libro finisca e che ci dobbiamo separare dai suoi personaggi. È quello che si prova leggendo Qualcosa di speciale, la storia di un bambino di 11 anni, Demis, che entra nella nostra vita, ci ricava uno spazio e ci resta.

Ma chi è questo ragazzino? Sentiamolo dalle sue parole, giacché il romanzo è narrato in prima persona: “Mi chiamo Demis, ho undici anni e faccio la quinta. Sono sempre stato un po’ grosso credo, anche se da piccolo non ci facevo proprio caso, per me era normale.” (p. 6)
Come tanti bambini, in un’età preadolescenziale, Demis si sente un po’ goffo, inadatto e vorrebbe avere qualcosa di originale. E a lui pare che tutti siano bravi in qualcosa e che solo lui non eccella in niente: non si vede bello, non è portato per il gioco del pallone, non è abile nell’aggiustare le cose oppure a fare disegni. Afferma, infatti: “Se guardo vedo tutti punti deboli e nessuno forte, anche a scuola. (…) E a me sembra che tutti un pezzo per volta si sono portati via tutto e a me non è rimasta neanche una briciola.” (p. 41)

Al contrario di quello che crede, Demis ha invece delle qualità che lo rendono un ragazzino davvero unico. Ha una sensibilità e una delicatezza che lo portano a vedere di più e più profondamente di altri, bambini o adulti che siano. È saggio e intuitivo e, anche se continuamente si pone domande essenziali sulla vita e i suoi misteri, sa proteggersi quando percepisce qualcosa che non è in grado di reggere o sopportare.
Il mondo, come lo racconta Demis, non è semplice e non appare diviso fra buoni e cattivi, come forse potrebbe sembrare a un bambino, e ce ne accorgiamo in molti momenti e scene del libro in cui analizza il proprio comportamento e quello degli adulti. Nel capitolo 5, ad esempio, cogliamo lo sguardo attento con cui segue la scena di un cliente che entra nella pizzeria dei genitori e sbraita contro un ragazzo straniero con queste parole crudeli: “Vedi? Sono tutti violenti. Sono delle bestie. Fortuna che se n’è andato da solo.” (p.20) Eppure il ragazzo nero era entrato solo per vendere calzetti e stracci per la cucina e, a modo suo, cercava di lavorare. Del penoso spettacolo, il bambino coglie il disagio e il dolore che si cela sul volto di un giovane sconosciuto, lontano dal suo mondo, sbeffeggiato perché nero e perché si guadagna la vita vendendo cianfrusaglie: “Era una cosa che faceva paura, ma anche piangere, almeno lo faceva dentro di me. (…) Lui ha cominciato a piangere a singhiozzi, c’erano tante lacrime che uscivano da quegli occhi e gli occhi diventavano subito rossissimi.” (p. 19)

Demis percepisce le sfumature e le mezze tonalità del mondo, gli interstizi in cui tante vite finiscono. Osserva che le persone sono spesso incoerenti, come il suo amico Bruno: “Bruno io non lo capisco, ma in verità non lo capisce nessuno perché non puoi dire che è una persona sola, ma tante.” (p. 13)
Un romanzo riuscito – si sa – si regge soprattutto sulla capacità di adeguare contenuto e forma. In tal senso, ben congegnato è il plot ed efficace il linguaggio, calibrato ad un narratore poco più che bambino. L’autrice ha saputo plasmare un italiano parlato da un ragazzo di periferia che non ha genitori particolarmente colti, non ha tanti libri a disposizione, non ha accesso a musei o a teatri e frequenta una scuola con poche risorse. Sembrerebbe difficile far suonare uno strumento musicale, mettiamo un violino, non con le sue quattro corde ben intonate, ma solamente con due o tre di esse. Eppure, con queste due o tre corde Demis dice cose importanti e profonde, oltre che poetiche. Dallo strumento apparentemente limitato che ha a disposizione egli trae, con originalità, la massima energia e potenza, sorprendendo e accattivando il lettore.

Si nota, ad esempio, nel modo di esprimersi di Demis, che lui non usa mai, o quasi mai, il congiuntivo, cosa questa che rispecchia la tendenza dell’italiano parlato in cui si ha spesso l’omissione di questo modo, sostituto con l’indicativo e, nel caso specifico di Demis, con l’indicativo presente: “è come se la terrazza è un aeroplano.” (p. 6); “ non dice niente, sbarra gli occhi come se ha paura...” (p.27); “Così è come se tra i due chi è più forte è Bruno...” (p. 38); “guarda fisso davanti, ma è come se non vede.” (p. 42); “è come se non succede niente...” (p. 47), ecc. Questo forma apparentemente sgrammaticata produce invece uno straniamento che ci permette di cogliere appieno le sottili riflessioni su tutto ciò che il bambino vede e vive.
La scelta stilistica della prima persona, fra l’altro, fa si che la linea di confine fra personaggio-narratore e lettore si confonda e ciò aiuta a entrare più agevolmente nel mondo del bambino.

Per chi scrive Demis? Sicuramente per bambini come lui, perché si preoccupa, quando usa un termine un po’ più elaborato, di chiarirlo, eseguendo una sorta di traduzione da un registro più colto a uno più popolare: “Lui da giovane si faceva le canne e una volta un infame che è un traditore ...” (p. 21); “c’è l’adorazione perpetua, che vuoi dire che pregano ventiquattro ore su ventiquattro.” (p. 66) Talvolta neppure lui sa bene pronunciare i termini nuovi che va scoprendo e li riporta storpiati: “Poi stava per cominciare a cantare una canzone di ali d’argento perché è carrismatica, che sono quelli che al sabato riempiono il secondo piano dell’oratorio...” (p. 32).
Se pare rivolgersi a bambini come lui, il piccolo scrittore è senz’altro capace di conquistare lettori di ogni età e lo fa perché è bravo a raccontare le storie e questo lo riconosce pure lui: “A me almeno piace scrivere e quando c’è da fare i testi ho sempre qualcosa da dire anche se la forma, dice la maestra Mara (...) non è proprio il massimo.” (p. 27).

Demis ha tanto da dire, visto che è un attento osservatore dell’universo attorno a lui ed è riflessivo, empatico, partecipa ai dolori degli altri. E, anche se molte volte preferisce il silenzio, ha dentro un mondo ricco che elabora e comprende più di tanti altri. Percepisce, ad esempio, che molti di coloro che si confidano con la madre in pizzeria sembrano arrovellarsi attorno a dei problemi che non esistono o che sono meno gravi di come li vivono: “…non riesco a non ascoltare e dentro di me faccio domande sulla loro vita (…). Certe volte gli dò anche i miei consigli, perché mi pare che le soluzioni sono molto semplici e non si sa come mai non le trovano…” (p. 48)

Entriamo, con lui, in queste vite e in queste storie, nelle quali tutti hanno importanza, anche gli animali. Demis non è mai indifferente e si pone istintivamente dalla parte del più fragile o di chi è bisognoso di cure, come vede fare alla madre, figura molto importante nel romanzo. Lo sguardo del ragazzino è lucido e solidale e la sua è la voce di un mondo periferico, di un quartiere abitato da persone spesso ai margini, a volte perché sbandate, a volte perché straniere, alcuni per metà integrati, altri ancora in uno spazio indefinito in cui replicano consuetudini anacronistiche. È il caso di uno dei compagni di scuola, Kirit, che è sik, il quale, pur essendo grande e grosso, fa portare alla madre mingherlina il pesantissimo zaino. E questa gli cammina dietro, perpetuando probabilmente una gerarchia arcaica fra i sessi che non considera neppure i rapporti parentali.

Un elemento che si nota subito è che Demis ha sempre fame. È una fame che, però, arriva da dentro, e la possiamo associare al bisogno che ha di dare risposte alla vita, di capire quello spaccato di società in cui si trova. Alcuni aspetti resteranno sempre misteriosi, perché sono gli stessi adulti qualche volta che ne ostacolano la visione e la comprensione.

Demis in apparenza è un bambino simile a tanti altri che incontriamo e che, nella fretta, rischiamo di non notare. Eppure sarebbe un errore non farlo. Questo romanzo ci ricorda che nessuno dovrebbe essere invisibile, neanche coloro che sembrano privi di fascino e con i quali forse avremo più fatica a identificarci. La forza e la potenza di Qualcosa di speciale di Antonella Giacon sta proprio nella sua capacità di portarci dentro il mondo di Demis e di farci scoprire, con sorpresa, quanta verità e poesia vi si celi.


TRE BRANI DA
QUALCOSA DI SPECIALE


“Ma anche se uno vuole dimenticare come si fa? Io già lo so che questa cosa mi tornerà in testa tutta la vita anche se non voglio. Lo so perché io mi ricordo ancora di cose di prima di imparare a parlare, cose che vedevo e toccavo, che mi facevano ridere o piangere, invece se chiedo a mio papà di raccontarmi di quando era piccolo mi dice: “Io non mi ricordo niente”. Ma proprio niente niente? E uno non si sente male che dietro di lui è tutto vuoto? O invece ci sta un pezzo nero che se volti la testa ci sbatti, lo sai che c’è qualcosa, lo tocchi anche, ma come quando è buo buio anche se lo tocchi non lo capisci, anzi ti fa paura, perché il posto dove stai non è più quello che conosci.

Allora è meglio chiudere tutto, tornare dove stai di solito e dire che non c’è proprio niente, magari è meglio. Ma questo non si fa con la volontà, io lo so perché tante volte ci ho provato a dirmi questo non è successo mai e invece mi veniva ancora più in mente.”


***


“Io non sono capace di mangiare di meno, soprattutto quando ci sono i momenti che non ho niente da fare, tipo al pomeriggio in estate dopo mangiato. Ci sono quelle due ore prima di andare a cominciare il lavoro, mio papà e mia mamma si riposano, chiudono gli scuri delle finestre e si buttano lei in camera da letto e lui in salotto. A mio papà piacciono i film di Totò e se li guarda sul computer registrati, oppure alla televisione che li ridanno spesso. Anche a me piacciono, ma dopo un po’ mi stufo. Mia mamma invece legge le riviste di moda e fa la settimana enigmista, si fa per dire, perché o dice in continuazione che è troppo difficile o si addormenta coi giornali sulla pancia e la penna premuta sulla guancia, che poi gli resta per un po’ tutto il segno.

Io dovrei fare i compiti delle vacanze e certe volte penso: “Che bello se ci fosse Bruno qui in cucina con me!” perché io da solo con gli scuri chiusi, mia mamma che russa di là e la voce di Totò che fa da radio mi annoio. Allora faccio così: apro il libro, faccio un giro della tavola, apro il frigo, bevo un po’ di sorsi dal cartone di succo di frutta o dalla bottiglia di coca, mi risiedo, leggo l’esercizio, faccio un giro della tavola, finisco un pacchetto di patatine cominciato che sta dentro al mobile, apro il quaderno, apro il plumcheik con le gocce di cioccolato, lo mangio tutto, tanto è piccolo. Faccio un altro giro, apro l’astuccio, prendo i bastoncini piccoli, quelli che si usano per gli aperitivi, faccio finta di essere un tritatutto che li spacca e li mangia uno dietro l’altro. Così, alla fine, dopo due ore forse ho fatto due esercizi, ma intanto ho fatto una pila di cartacce che devo nascondere da qualche parte, sennò mia mamma si arrabbia da morire. Se non fanno tanto volume le tengo per un po’ dentro la scatola da cucito di mia mamma, tanto lei non la apre quasi mai. Dentro ci stanno dei bottoni, dei fili colorati, dei gomitoli di lana piccoli più due portaspilli a forma di cuore di stoffa. Su uno giallo è ricamata la M di Monia, che è mia mamma, sull’altro azzurro c’è la S di Serena, che è mia nonna. In verità questa non è la scatola di cucito di mia mamma, ma di mia nonna. Quando mia nonna è morta mia mamma ha preso la scatola e quando la apri e ci metti la faccia dentro respiri un odore speciale che è quello di mia nonna che io non ho mai visto. A me questo odore piace, anche se è un po’ un misto di vecchio e di profumo, tipo quello che si usa in quadratini di plastica da mettere dentro gli armadi e i cassetti per non far mangiare le maglie di lana e di cotone dagli animali. In più c’è l’odore tipo di zucchero delle buste di plastica che metto io, tutte pigiate, finché non trovo un altro nascondiglio. A me piace questo odore anche perché mi sembra di sentire subito le braccia di mia nonna intorno a me, come se sto sulle sue ginocchia da piccolo. Mi viene da pensarla bella grossa, anche un po’ più di me, e tutta morbida che ci posso mettere le mani sulla pancia e sulle tette e tutte e due sono più grosse delle mie. Mi viene da pensare a una nonna che non si arrabbia con me e non mi prende in giro, ma che ride e dice: “Ma quanto sei” che non vuol dire quanto sei stupido, ma più quanto sei speciale. Invece mia nonna non era grassa, ma alta e magra più di mia mamma. “È morta troppo giovane” dice mia mamma, aveva solo un po’ più di cinquanta anni. Per mia mamma sono pochi, ma a me sembrano tanti. Dentro alla scatola ci respiro poche volte perché ho paura che se la tengo troppo aperta l’odore della nonna va via e mia mamma ha dispiacere. È stata lei a farmi vedere la scatola la prima volta, a dirmi che dentro c’era l’odore della nonna e quando l’ha chiusa dopo aver respirato una volta lungo lungo è stata zitta, con gli occhi chiusi per poco tempo. Mi teneva intanto il polso forte con le dita e secondo me voleva piangere, ma poi ci ha ripensato. Qualche volta quando metto la faccia dentro la scatola dico anche: “ Ciao nonna, come stai?” e mi viene che la scatola è come una specie di tubo che porta la mia voce dove sta lei sottoterra, non in cielo. Io la vedo proprio come che lei sta sotto a dove abitiamo noi e ci ascolta, ascolta i rumori, sente le voci e non ci lascia mai soli perché ha anche scavato un tunnel che la porta proprio sotto la pizzeria, in modo da seguirci sempre. Queste cose io le dico solo a Teo perché lui è un cane, e di sicuro anche se capisce non lo può raccontare. Però poche volte viene in cucina da me, come al solito preferisce stare con mia mamma in camera, anche se lei prova a mandarlo via perché gli fa troppo caldo. Allora lui di solito fuori dalla porta comincia a piangere e per farlo stare zitto bisogna fargli sempre le carezze perché appena ti fermi ricomincia. Così mia mamma lo fa rientrare e lui si sdraia tutto lungo sulle mattonelle, vicino a dove arriva l’aria del ventilatore.


***


Io certe volte penso che vorrei finirla di mangiare, ma è come una corsa con la bici, prima tu cominci a pedalare forte e poi smetti, ma i pedali continuano a girare. Io quando comincia il pomeriggio dei compiti non so cosa fare, ma il mio corpo sì e mi comanda di fare tutte quelle cose in quell’ordine. Se non lo faccio comincio a sentirmi qualcosa che mi dice che le devo fare e se le faccio mi viene che sono tranquillo, ma poi triste, perché so che ho fatto una cosa che non va bene. Certe volte quando mia mamma si accorge non si arrabbia e vuole parlare con me. Mi dice: “Demis, tu lo sai che non va bene” e io gli dico che lo so. Lei mi dice: “Allora perché lo fai?”, ma io non so che cosa dire. Lei quando è più triste che arrabbiata mi dice: “Cosa mi dici con questa faccia da straniero?” che è il titolo di una canzone di un cantante che piaceva tanto a mia nonna da giovane. Aveva tutti i suoi dischi che ancora noi li teniamo in un mobile sopra la televisione. Mio papà ogni tanto dice: “Perché non li vendiamo che sono pezzi da museo? Tanto non ce l’abbiamo il giradischi e ci facciamo un po’ di soldi”, ma mia mamma non vuole, diventa nera. Io ho guardato sulle copertine dei dischi e ho visto un uomo grande e grasso con i capelli lunghi, la barba e vestito con una specie di camicione tipo quello che si mettono gli africani alla domenica quando si incontrano tra di loro. Mia mamma mi ha fatto vedere lui che canta in un concerto su youtube. Ha una vocetta che esce da quel corpo grosso che di sicuro se lo sente Bruno dice che è frocio. Allora io mi sono vergognato e arrabbiato, ho detto a mia mamma: “Perché mi hai chiamato così? Non mi piace quel tipo, e poi canta malissimo”. Mia mamma invece che prendermi sul serio ha cominciato a ridere e si è messa a cantare la canzone finché non mi sono messo a piangere. Allora lei ha detto: “Per me è un nome bellissimo perché mi ricorda la mia mamma, ma se tu vuoi quando diventi grande te lo puoi cambiare come ti pare”. Io ho smesso di piangere, ma gli(le) ho detto: “Basta che nessuno sa chi è questo tipo e tu ti guardi youtube da sola, se lo vuoi sentire” e lei ha promesso. Io sto pensando come voglio chiamarmi quando divento grande, sono incerto tra Mattia o Edoardo. Mia mamma dice: “Vedrai che quando diventi grande ti passa”, ma io non credo.

Io penso se non faccio i compiti magari non mi viene (voglia di) da mangiare. Ho finito la quinta e tra tre mesi vado in prima media, vuoi vedere se i professori si mettono a guardare i compiti delle vacanze delle elementari, ma mia mamma questi discorsi non li vuole sentire. “Devi fare esercizio, sennò ti dimentichi tutto. Già non sei un’aquila, immagina se non fai niente!”.

Certe volte capita invece che se c’è qualcosa da fare prima di aprire la pizzeria, tipo le pulizie, noi arriviamo presto, mangiamo qualcosa e poi loro vanno al piano di sopra e si buttano sulle brandine a dormire verso le due tre del pomeriggio. Fa troppo caldo per cominciare subito a pulire e io devo fare sempre i compiti, ma mi metto di sotto, nella pizzeria chiusa. Allora guardo fuori dai buchini delle tapparelle e vedo la strada vuota, solo qualche macchina che passa ogni tanto, e tutto sole, sole e basta. Una volta però ho sentito qualcuno che gridava, sembrava da una finestra aperta dalle parti della casa di Gino, ma non si capivano le parole. Poi dopo poco ho visto Bruno che abita a due passi da lì correre velocissimo in quella direzione. Dopo due minuti l’ho visto uscire dal vicolo. Camminava lento, come se pensava. Io pianissimo, per non fare rumore, ho tirato sù le tapparelle e l’ho chiamato a voce bassa, tanto si sentiva bene perché non c’era nessun altro rumore. Quando ha alzato la testa gli ho detto a gesti se voleva venire sù da me e gli ho aperto la porta. Ha chiuso senza sbattere perché lui sa che a quest’ora i miei si riposano, ha aperto il rubinetto del lavandino e ha attaccato a bere. Quando ha finito gli ho chiesto cos’era successo e lui mi ha detto che ha sentito Gino chiamare aiuto, ma nessuno dei vicini aveva risposto perché a quell’ora il muratore Nico era al lavoro e l’altra famiglia di sotto era in ferie. Allora lui è corso da Gino e Gino gli ha aperto subito. Gli ho chiesto se stava male o era caduto. Bruno mi ha detto di no, stava col fornello spento e una padella con dentro la pasta da riscaldare e ha detto a Bruno che non si ricordava come si accende. Aveva aperto il gas di tutti i fornelli e c’era una puzza di gas fortissima, fortuna che la finestra era aperta. Bruno ha spento tutto e ha acceso il gas sotto la padella, mentre lui gli diceva grazie grazie e poi: “Noi poveri vecchi ci facciamo confusione”. Bruno mi ha guardato e mi ha detto: “Pareva scemo”, ma non diceva così per prenderlo in giro, più perché in quello che era successo c’era qualcosa che non andava. Anche perché Gino è tutto tranne scemo. Dove mette le mani riesce a aggiustare cose elettriche e anche fa dei lavoretti da idraulico, sa fare tante cose in campagna e ha anche gli attrezzi da falegname. Quando si rompe qualcosa in pizzeria mio papà va sempre da lui perché capisce subito cosa bisogna fare. Un po’ delle cose che sa fare Bruno secondo me le ha imparate da Gino. “E poi?” ho detto. “E poi sono andato via”, ha detto Bruno. Parlavamo bassi bassi che quando è arrivato mio papà d’improvviso nella stanza della pizzeria ci siamo presi un colpo. “Cosa fate? Vi fate le confidenze d’amore?” “Noo”, abbiamo risposto. Lui ha aperto il frigo, ha preso la coca, ce l’ha messa nei bicchieri e non se n’è parlato più.

Da quel giorno però quando vedo Gino e Ania li guardo di più. Ho visto che Gino è più gonfio e rosso sulla faccia, ogni tanto cammina strano come se zoppica per un attimo e poi riprende. Sta di meno in giro da solo e praticamente non lo vedi mai a chiacchierare sulla panchina davanti alla pizzeria con gli altri come faceva prima. Va ancora a camminare con Ania di sera quando lei torna dal lavoro, ma il cane lo tiene al guinzaglio sempre lei. Adesso passa molto tempo sulla sedia di plastica davanti alla porta di casa e certe volte stanno sdraiati vicino a lui Miti e Sissi. Ho chiesto a Bruno se in questi giorni è andato in campagna con l’ape, ma lui ha detto di no, adesso Gino l’ape vuole venderla. Bruno ha anche detto che se lui era più grande Gino gliela regalava, ma lui adesso l’ape non sa proprio dove metterla.


Antonella Giacon, Qualcosa di speciale, Edizioni Corsare, 2017, pp. 180, euro 12.




Antonella Giacon
è nata a Padova, vive e lavora come insegnante a Perugia. È stata per anni formatrice in scrittura creativa e didattica della poesia con le scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado. Tiene corsi di scrittura creativa e didattica della poesia con bambini, adolescenti e adulti in diversi contesti. Ha collaborato con la Cooperativa Fontemaggiore a vari spettacoli, tra cui: Visioni di città (2014) e Pieno di vita (2015).
Ha pubblicato le raccolte poetiche Sottopressione (Edizioni Fara, 1994) e Pegno d’amore (Edizioni Corsare, 2001) e il libro Manuale Piccoli alberi, piccole albere - Laboratorio di scrittura creativa e danzamovimentoterapia (Edizioni Effatà, 2006), con Elisabetta Forghieri.


veralucia.deoliveira.m@gmail.com