La forma epica sembrava finita. La circolarità irregolare di quello che chiamiamo tempo presenta però conti sempre nuovi. Quelli di Domenico Iannaco, giovane scrittore controcorrente, ad esempio, che con Aurora dai biondi capelli. Il Giudizio (ri)presenta il poema come unica possibilità comunicativa dopo il tramonto (dovuto paradossalmente al suo abuso) della forma lirica e l’imprigionamento della forma narrata nelle politiche editoriali. Il deserto non è stato sempre nei luoghi, si è insediato dopo la stagione dell’infertilità e dell’inaridimento, e Iannaco sa di riprendere un discorso – discorrere non vuol dire solo prendere passivamente in carico la parola – iniziato molto tempo fa. I riferimenti biblici non sono rimandi filologici, ma elementi di senso operanti dalle origini e che si riconfigurano in nuovi aspetti segnici e semantici. Soprattutto l’Apocalisse manifesta tutta la sua dirompente potenzialità, operando una sorta di separazione in fieri dal materiale inerte di una laicità esasperata e distruttiva. Verrà ovviamente alla mente l’exemplum per eccellenza, la Commedia dantesca, a patto però di ricondurre quell’opera nell’alveo della sua lenta genesi, e quindi in un’ottica in qualche modo evolutiva: Iannaco presenta all’interno di Aurora un cammino lustrale che parte da stagioni precedenti, come Dante non poteva non prescindere dalla stagione stilnovistica e da quella della crisi che lo portò per qualche tempo lontano dall’immagine femminile incarnata da Bice di Folco Portinari.
Anche in Iannaco è operativa la coscienza a posteriori di un cammino mai rettilineo e anzi sottoposto a contraddizioni ed eclissi di senso, e in questo sta la novità del suo discorso. Una ripresa passiva dell’itinerario dantesco avrebbe potuto rivelarsi una riproduzione rettilinea e scontata di quel modello, il che qui non avviene. La riproposizione dell’archetipo non è punto iniziale di un percorso imitativo, ma compimento in una eterogenesi di fini che pone alcuni testi come esito e non come collegamento diretto e di sudditanza semantica o formale. Anche gli altri esempi di cammino attraverso la città-metropoli, come nella Waste land di Eliot hanno tenuto conto dei modelli precedenti, anche in questo caso le Scritture, ma pur sempre attraverso nuove strade.
Le mitologie in Aurora si incontrano con la parola di Dio, la descensio di Lucifero, fatta di bellezza e di nostalgia già in Marlowe e in Goethe, qui si incontra con l’immagine di sé e di una stagione mai completamente separabile dalle altre, se non nel riconoscimento penitenziale dei limiti di quella antica bellezza. Gli antichi dèi sono come in Hölderlin ricordi di una stagione perduta, che rischia l’aridità eliotiana senza nuove presenze. Il fascino di Nausicaa, cui nel poema è dedicato un capitolo, deve lasciare, nella concezione figurale magistralmente approfondita da Auerbach, il luogo al Cristo, e poi, nelle alterne contraddizioni della storia, di nuovo alle guerre, alla violenza allo smarrimento della strada attraverso anche e nonostante il nome di donna che viene a incarnare di nuovo l’antica mea domina fiorentina e prima ancora provenzale.
Ancora una volta l’imago di Maria è la pacificatrice che rimanda alla misteriosa figura di donna dantesca del XXVIII canto del Purgatorio che raccoglie fiori, come un prima che aveva affascinato anche un narratore come il Chesterton di L’uomo che fu giovedì, e che poneva proprio in fine libro quella splendida immagine di mistero e di passaggio colta con finezza preraffaelita “nella sua inconsapevole grazia di fanciulla”. Il che assona molto, a dimostrazione della eterogenesi delle immagini femminili con quel
Io ti vedo Madre mia, raccogliere conchiglie e frammenti di stelle vive in riva al mare.
In Aurora la presenza della Madre acquisisce la funzione di finalismo dei tempi e di preparazione alla conoscenza finale per cui ogni passato è preparazione di un altro tempo-non tempo, come rivela l’invocazione “aiutami a non avere passato”.
La rivelazione finale è proprio in questo lèggere le epifanie del tempo come preparazione ad un Compimento che offre finalmente il senso ad un cammino che ne sembrerebbe privo. Un passaggio attraversato da improvvisi bagliori di senso che il poeta coglie come fiori e pone insieme nel vaso del Senso, dove trovano il loro giusto posto le antiche apparizioni (“nel gioco della palla/ l’essenza della danza”) che hanno travalicato millenni e divinità.
Una visione certamente legata al testo giovanneo, che però nel contempo ha il merito di presentarci in una sotterranea danza poetica l’alternarsi delle umane stagioni, le illusioni, gli errori luciferini legati ad una glorificazione assoluta del qui e dell’ora e del potere delle umane azioni che viene preteso divino.
Una riproposizione del poema epico-religioso che non è mero aggiornamento letterario, ma anzi una nuova realtà che travalica coraggiosamente le mode e gli ismi e propone un nuovo sguardo sul fare poesia nei deserti d’oggi.
Domenico Iannaco, Aurora dai biondi capelli. Il Giudizio., Fondazione Mario Luzi Editore, 2017, 244 pagine, 19,90 euro.
PROEMIO
Io chiamo a me il turbamento
dello stesso Paradiso e in questo
sono vinto e facendomi porta,
possa scacciare chi sporca l’equilibrio
di questo ritorno della mente che
posa lo sguardo sulla più bella
delle forme. L'alba sbianca e piange
seguendo il crescendo del vento che volteggia.
Apre la coscienza ad un senso fresco.
La tremenda apparizione della dea
che piange l’oro e addolcisce
la mano del mio Cristo, che ora tace,
riempiendo la membrana del silenzio
di terrore denso come droga
possa cedere il passo alla pietà di una Madonna.
La condanna è di essere voi stessi.
Il realismo non esiste.
Tutto quello che fu costruito nel deserto
ora implode ed esplode come un cuore
malato e disperato.
Voi vi vedrete negli occhi degli altri
accusando l’uno della fragilità dell’altro.
E quanto avete detto “umano”
ora vi è tolto perché questo
è il Requiem di un Romanticismo,
che ha pregato la sua santa,
che in me deve morire
con il furore dell’Aurora.
Allora la potenza si riveli pura
perché nulla di umano è quanto vi turba
e il senso di un dolce sfinirsi del finire
non appartiene a questa terribile agonia,
la morte nel tuo letto
cede il passo alla furia
dell’attimo che urla.
Ora chi ha detto il nome
trova pace e tutto quanto
si è aperto sotto il sole
si chiude in un mistero verginale
che fa fuggire il paradiso dove
lo sguardo della dea riposa.
In me muore e rinasce il mondo nuovo,
perché vi mostrerò cosa non siete,
cosa è il Giudizio,
cosa può togliervi l’Aurora.
Io vi dirò che cosa sono,
perché nella mia traccia umana,
nel mio sangue rosso come
un’iridescenza troppo acuta,
una bocca appassionata di baciare,
chi vuole, troverà nel sogno l’unione,
lontano da questa tremenda scissione
che ha privato la Bellezza dello sguardo
e rotto il corpo di ogni uomo,
quando si è creduto che tutti eravamo
come dei bestiali.
Allora la mia tremenda forza ha
rotto il cordone che lega chi nasce
ad una sorte umana,
distruggendo ogni decenza
in questa seconda unione.
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da Aurora dai biondi capelli. Il Giudizio.
Domenico Iannaco è nato ad Avellino nel 1980 e si è laureato Lettere Moderne nel 2002 all’Università di Napoli Federico II. Nel 2010 ha effettuato un Dottorato di Ricerca all’Università di Salerno.
Ha scritto: Vita (1998); Ambe’r (2003); Ellisse (2006); Galahad, Joker (2010, poi confluito in The death of Galahad); After Hell (2015); The death of Galahad (2016, questi ultimi tre libri sono stati scritti direttamente in inglese); Aurora dai biondi capelli. Il Giudizio. (2017).
testi.marco@alice.it
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