Ci sono racconti che lasciano una sensazione di abbandono, di riconoscimento di un percorso nascosto, che talvolta ci capita di scoprire di non aver compiuto, almeno nella sfera della ragione. Libri che apparentemente non parlano di noi, talmente elusivi da porre al loro centro soggetti che la letteratura aveva perso di vista dopo Dickens o Twain, come le due bambine e i vagabondi, di Le cure domestiche di Marilynne Robinson (1943), scrittrice statunitense tra le più importanti (l’ex presidente Obama aveva pubblicamente rivelato la sua grande ammirazione per lei), conosciuta soprattutto per la trilogia Gilead, Home e Lila, uscite nel tra il 204 e il 2014 e premiata con il Pulitzer nel 2005. Ma prima di questo grande riconoscimento c’è stato altro. Un libro scritto vent’anni addietro e che è qualcosa di più di un romanzo d’esordio, che ci pone di fronte al destino, alla sua indecifrabilità ed alla possibile ricostruzione di un senso che vada oltre il nostro singolare cammino. Qualcosa che richiama, senza mai porlo come atto di fede, anzi, spesso eludendolo, l’antico racconto di origini proprio di tutte le fedi:
Il primo evento di cui abbiamo conoscenza fu un’espulsione, e l’ultimo si spera sia una riconciliazione e un ritorno. Così la memoria ci spinge in avanti, così la profezia è geniale memoria.
Uscito con il titolo Housekeeping nel 1980, è stato già tradotto da noi da Serra e Riva come Padrona di casa nel 1988 e ora da Delfina Vezzoli per Einaudi con il titolo Le cure domestiche. Non si potrebbe capire fino in fondo Lila, l’ultimo della triade che ha definitivamente consacrato nell’olimpo della letteratura la Robinson, senza questo racconto, che è in realtà una profonda riflessione sul mistero dell’esistenza, in cui si incrociano in modo asimmetrico fede, racconto biblico, noir, avventure in terre diverse, che rivelano profondità interiori (Moby Dick non è estraneo a questo percorso), attraverso la capacità di dire ciò che è difficilmente accessibile alle umane possibilità di espressione.
Due sorelle si trovano a vivere vicino ad un lago che pervade ogni cosa, grande madre che fa nascere e che però riprende alcune delle creature che ci vivono accanto. Il mistero della morte accidentale e di quella cercata senza una apparente ragione (il nonno nel primo caso, la mamma nel secondo) fa da cornice alla loro storia, attraversata dall’arrivo di una sorella della madre, Sylvie, che riceverà il compito (le altre parenti sono troppo anziane o indaffarate) di accudirle. Ma Sylvie è una vagabonda, lo scopriamo poco a poco: dorme vestita, con le scarpe sempre ai piedi, pronta a scappare, tira i sassi ai cani che abbaiano al suo passaggio, sparisce all’improvviso e viene ritrovata sdraiata sulle panchine con un giornale sulla testa, frequenta le stazioni dei treni, ne conosce perfettamente gli orari a memoria. Questo crea numerosi problemi alla comunità di brava gente di Fingerbone, che non vede di buon occhio un’educazione apparentemente distratta e di strada. In realtà Sylvie vive (non teorizza, il che è qui davvero importante) una visione diversa della vita, che ha molto in comune con quella, purtroppo obliterata dalla riduzione cinematografica, di Pamela Travers e quella di un altro statunitense, da noi ancora sconosciuto, Wendell Berry, fatta di gente di passo, di inquieti visitatori che sembra abbiano molto da insegnare anche senza che loro ne siano davvero consapevoli.
Nella cittadina presso un lago che talvolta sembra incarnare l’archetipo della madre divoratrice, si assiste allo scontro epico, sempre latente nelle comunità umane, tra una vita libera e apparentemente senza senso – per i locali – e una quotidianità domestica fatta di proprietà, di regole, di destini già scritti.
In ogni riga di questo racconto si avverte una gigantesca energia religiosa, che soffia dove vuole, dal pellegrinaggio paolino di casa in casa alla libertà francescana da ogni costrizione sociale, fino alla ricerca delle radici che talvolta è fonte di dolore e di morte.
Il punto di forza del romanzo è che sacro, adolescenza, provincia profonda, quotidianità, fine, si incontrano senza mai fondersi, lasciando aperte inquiete domande e soprattutto immagini di una vita che non è localizzabile solo nel Midwest, ma condizione aperta, riguardante ognuno.
La fascinazione della vagabonda sembra attraversare le pagine e il loro oltre. Le ragioni di questa attrazione non è mai detta apertamente dalla protagonista, né direttamente da altri, ma sussurrata dalla memoria monologante di una delle sorelline, Ruth:
Se ci fosse stata la neve avrei fatto una statua, una donna in piedi sul vialetto, tra gli alberi. I bambini si sarebbero avvicinati per guardarla. La moglie di Lot fu trasformata in arido sale, perché era piena di rimpianti e di lutto, e si girò a guardare.
Altri si sarebbero messi a spiegare i perché di una contrapposizione tra civilizzazione sedentaria e ricerca di nuovi sentieri attraverso le voci del racconto. Qui la narrazione scopre i nervi nascosti di una delle cause della melancholia e dell’insoddisfazione: l’avere. Il guardarsi indietro biblico del monologo non è che una parte non separata di un tutto che parla di paura di perdere il possesso, che rimane attaccato alle dita attraverso il rimpianto di quello che si è perduto come fatalmente accade a ciò che, da essere, viene trasformato in cosa. Sylvie è la viaggiatrice divina, che con la sua semplice presenza ammonisce a non attaccarsi alle cose. Non a temperare il senso di possesso, a moderare l’appetito metaforico, ma più semplicemente a non avere.
Sylvie ed io (penso che quella notte fossimo quasi una sola persona) non potevamo lasciare quella casa, che era ingombra come un cervello, un reliquiario, e lasciare che le sue reliquie venissero saccheggiate, scelte e impacchettate e distribuite tra i bisognosi di Fingerbone.
Il perché e detto in modo impassibile, rapido come l’apparizione di un Messaggero, subito dopo, parlando di ricordi minimi, come una ciocca di capelli o un vestito, che si trasformano in cose elencate ed elencabili:
Alla luce eguale di uno scrutinio disinteressato queste cose non sono se stesse. Vengono trasformate in puri oggetti, e sono orribili, e devono essere bruciate.
Il fuoco è l’elemento chiave. Purificatore e distruttore, ineludibile nell’inesausto svolgersi del mutevole, rende possibile l’avvicendarsi cosmico. purché si guardi avanti. Perché lo si accetti nelle sue polarità che partecipano alla transitorietà e non ci si irrigidisca nella fissazione nell’oggetto o non ci si volti come la moglie di Lot.
La vagabonda delle Cure domestiche è il visitatore fatato che sarebbe molto piaciuto ad un James Matthew Berry più prosaico e indagatore dei motivi sociali alla base di ciò che chiamiamo diversità.
Ma ciò che rende unico questo romanzo è la persistenza latente di un sacro che non appartiene unicamente alla dimensione confessionale. L’elemento altro non è affatto altrove, ma precipita nella umana condizione come mistero e come presenza. Gli elementi di un divino radicalmente intrecciato con l’umano sono ravvisabili certamente nei grandi grumi simbolici della tradizione, ma qui sono ravvivati da una percezione di mistero che non è solo quella delle religioni rivelate. I grandi temi del lago come placenta e come ameba divoratrice, della divina viaggiatrice, del viaggio iniziatico oltre che fisico non sono mai ostentati o separati dal nucleo narrativo, ma ne fanno parte inestricabile. Il discorso di Le cure domestiche non potrebbe sussistere senza questi grumi che partecipano dell’umano e del numinoso senza soluzione di continuità. Di più: da essi non è coraggiosamente assente il motivo del dolore insensato. Una madre che sceglie di sprofondare senza una ragione nel lago, lasciando due ragazzine sole, non appartiene al senso narrativo, spezza la mimesi spazio-temporale di un prima e di un poi e inserisce un altro grande motivo, quello dell’insensatezza, senza il quale qualsiasi racconto sembrerebbe votato all’edificazione, ma non alla presentazione dei conti salati dell’esistente.
Marilynne Robinson, Le cure domestiche, Einaudi, 2016, pp. 199, euro18,50.
testi.marco@alice.it
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