FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 48
gennaio/aprile 2018

Piccolo & Grande

 

NÉ GRANDI NÉ PICCOLE: LE CIPOLLE

di Armando Santarelli



Dopo aver percosso più volte il battaglio della porta, senza ottenere risposta, Dario diede un ultimo sguardo alla finestra illuminata. Aveva deciso. Salì le scale, girò la chiave nella toppa ed entrò. Il vecchio era riverso come un morto sul tavolo della cucina, le braccia allungate, una penna ancora stretta fra le dita, gli occhiali schiacciati tra il viso e il marmo bianco. Dietro di lui scoppiettava il camino e ticchettava forte un grosso orologio a muro.

“Ottaviano! Ottavianooo! Sono Dario!”

L’uomo rizzò la testa e la scosse, riaggiustò gli occhiali sul naso e si levò dalla sedia con un balzo. “Chi è? Ah, Dario, scusa, me so’ mezzo addormito, me so… Ehh, ‘sto fuoco traditore… Sei venuto per le cipolle, vero?”

“Sì, voglio proprio vederlo, l’esperimento”.

Il vecchio gli gettò un’occhiataccia: “Esperimento?! Gli esperimenti possono falli’, figlio mio, le cipolle no! Vedrai, vedrai. Accomodate, sarai servito, prendo tutto l’armamentario e... Che ore so’? Ah, quasi le due. Trebièn, è l’ora giusta”.

Girato lo sguardo dappertutto, Ottaviano si chinò sotto il lavello e da un cesto raccolse due cipolle, dopo averne palpate diverse. Dal cassetto del tavolo prese un cucchiaino e un coltello, e dalla dispensa incassata nel muro un coccio con del sale e uno scifello; sul fondo di questo era adagiato un cartoncino rettangolare, diviso in dodici riquadri, ciascuno col nome di un mese, scritto in stampatello.

“Trebièn: cipolle, coltello, sale, c’è tutto. Cominciamo, sei pronto?”

Dario sorrise: “Io sì”.

Il vecchio nettò il marmo del tavolo, posandovi tutti gli oggetti. “Allora”, disse prendendo la prima cipolla, “né grande né piccola, la vedi? E bella tonda, non schiacciata!”.

Ottaviano la divise in due col coltello, poi ne prese una metà e staccò con cura la prima scaglia, un guscio emisferico che depose sul cartone, nella casella del mese di gennaio. Separò un secondo guscio, mettendolo nel riquadro del mese di febbraio, poi un terzo, che osservò con attenzione, prima di porlo nella casella di marzo. Dall’altra metà della cipolla ricavò altre tre scaglie, con le quali riempì la prima fila di mesi. Dopo, affettò la seconda cipolla e ripeté le stesse operazioni, fino a coprire coi gusci tutte e dodici le caselle. Poi, con mani tremanti, prese col cucchiaio un po’ di sale, ne dosò accuratamente la quantità e lo versò nella prima scaglia; borbottando ogni tanto degli strani versi, riempì col sale anche le altre undici.

“Fatto!” esclamò alla fine, “ci vediamo domani mattina, bello!”.

Il ragazzo sbottò in una risata: “Come domattina? Ma adesso non...”.

“Adesso non succede un bel niente! Dobbiamo aspetta’ la reazione delle cipolle, no? Senti, lo vuoi vede’ il risultato? E allora, figlio mio, devi veni’ domani”.

“Ma... ma domani io non posso, Ottavia’. C’è il veglione di capodanno stanotte, andiamo fuori, forse neppure torno in giornata”.

Il vecchio abbassò lo sguardo, prese il ragazzo per un braccio e lo fissò: “Senti, puoi veni’ stasera? Non sarà ancora perfetta la cosa, ma ne capiremo, vedrai. Ehh, figlio mio, ognuno alla sua arte, e il lupo alle pecore... Allora?”.

«Sì, sì, potrei venire prima di partire. Gli dico che arrivo una mezz’oretta più tardi. Va bene, vengo stasera, ci vediamo intorno alle dieci, allora”.

Un po’ prima delle ventidue, Dario bussò di nuovo alla porta di Ottaviano.

“Avanti, gioventù”.

“Buonasera Ottavià, e tanti auguri”.

Il vecchio spalancò la bocca: “Caspita, che damerino! Forza, ché stasera je dài! Beato te! Va be’, aspetta, vado al belvedere”.

“Al belvedere?”

“La terrazza, la loggia! Devono sta’ all’aria le cipolle! L’aria, la luna, tutto ha influenza! Ehhh, bello mio”.

Ottaviano tornò sorreggendo lo scifello, che appoggiò con cautela sul tavolo; poi cominciò a scorrere con lo sguardo i gusci di cipolla, nicchiando ogni tanto.

“Ohhh”, esclamò infine, “adesso guarda, guarda il sale dentro la prima scaglia. Com’è? Quasi intatto, vedi? Dunque, a gennaio poca acqua. Ma se fa freddo è neve, ricordati!”. Spostò il dito sul secondo guscio: “Febbraio, lo vedi? Pure qui, tutto solido: è secca, figlio mio! Marzo, sale un po’ sciolto: pioggia, ma non tanta. Aprile, ehhh, guarda: il sale è tutto liquido: acqua a volontà! Pure a maggio, vedi, acqua! Giugno e luglio, asciutti. Agosto, ahh, pericoloso! Sale sciolto, granelli: grandine! Addio, belle speranze! Va be’... settembre e ottobre, un po’ de acquetta, e sta bene. Dicembre, idem con patate, ma... sacramento! Guarda novembre, guarda! L’acqua già esce dalla cipolla, domani bagna pure il cartone. Ahhh! Piogge a volontà, alluvioni! So’ dolori, caro ragazzo!”.

“Porca miseria! Ottavià, sei forte, complimenti. Ma senti: funziona sempre? È attendibile?”

“Attendibile? Sacramento! So’ cinquant’anni che ci azzecco! Senti, te ricordi l’alluvione de tre anni fa, te la ricordi? Allagamenti, frane, morti. Tutto previsto! Aveva avvertito Ottaviano, chiedilo a Sebastiano Cappellone.”

“Incredibile! Cioè, scusa, volevo dire che è fantastico. Ma dimmi una cosa, perché... insomma, a che serve tutto questo?”

“A che serve? Ah-ah-ah! E che te credi? Io le cipolle le spacco... per le cipolle! Per l’agricoltura! Mica faccio le previsioni pe’ anda’ a passeggio, io! E mica è questione solo de cipolle! Quante altre beghe ce stanno! La luna, la patta... vieni, vie’ qui”.

Ottaviano indicò il calendario appeso al muro. “La vedi ‘sta faccia scura? Luna nuova! C’è stata il venti, dunque al trentuno ne mancano undici. Allora, la patta è de undici giorni, perché le lune so’ tredici, ma i mesi dodici. Me spiego...”.

“Ecco, bravo, volevo proprio sapere se è importante, la luna”.

“Ehhh! Addio veglione allora, ah-ah! Vuoi sape’ se la luna è importante? È tutto! È tutto! Invece, certi babbei non tengono conto de ‘na mazza quanno lavorano la terra; poi je va tutto in malora. Ve sta bene! Noce de collo! Gliel’ho detto mille volte, ma se ce comanda a noi, la luna! Quanno certe mattine te alzi e te rode il piripì, chi è stato secondo te? Comunque, sentime bene: mai pota’, pianta’ e trapianta’ con la luna tenera, cioè crescente. Mai! Solo con la luna dura! Seminà e raccoglie frutti sì, vendemmia compresa. Vuoi saperlo? Io vendemmio solo con la luna crescente, e i risultati... chiedi a Peppe Maschera che vinello ha fatto Ottaviano l’anno scorso. Sta qui, lo puoi assaggia’. Ma te dirò di più. Anni fa avevo previsto un dicembre secco, bono insomma. Non me mossi! Tanti malfidati non vollero damme retta e colsero l’oliva a novembre, come dice il proverbio, lo sai, no?: A Santa Caterina, sia la bianca sia la nerina. Ma siccome l’annata era stata cattiva, l’oliva era verde, acerba, e l’olio fu uno schifo. Io invece aspettai: fatte di’ che nettare! Biondo, pulito, gustoso, uhhh! Me feci certe risate! Era bono pe’ l’arrotino, l’olio dei San Tommaso».

“Grande Ottaviano! Grazie, m’ha fatto davvero piacere. Ma senti, voglio farti l’ultima domanda. Ci vengono i contadini a chiedere il responso delle cipolle?”

“Se ce vengono?! Ma sei matto? Vedrai domani mattina che processione, qui dentro!”

Il primo di gennaio, tornando dalla messa seconda, Assunta, senza bussare, aprì la porta della casa di Ottaviano e salì faticosamente le scale. Sorrise con la mano sulla bocca non appena vide il vecchio che avvitava la caffettiera.

“Buon principio e buona fine», disse con aria solenne.

Ottaviano ammiccò: “Auguri pure a te, comare. Tu ce indovini sempre, pure a capodanno…”.

“Veramente ridevo pe’ n’altra cosa, compa’. So’ venuta a vede’ le cipolle”.

“Eccole, hanno parlato pure quest’anno. Aprile e maggio, acqua a barili, agosto, grandine. Ma è novembre il più cattivo! Avverti i parenti, i padani, so’ cavolacci, lassù”.

Assunta sgranò gli occhi: “Davvero? Santo Dio, non gli bastava la nebbia? Va be’, telefono, così gli faccio pure gli auguri. Ma ascolta, compa’, è venuto Filippo?”.

Ottaviano fece spallucce: “So’ due anni che non se presenta, non lo sapevi?”.

“E Rocco?”

“Sta male, sacramento! Come faceva a venì?”

“E Franceschino?»

“Ma ‘ndo vivi? Non la coltiva più la Cannavina! Ce va ancora a tempo perso, ma...”

“Madre mia! Prima, a quest’ora, era già venuto mezzo paese! Insomma, non è venuto nessuno.”

Ottaviano scrollò la testa e batté una mano sulla coscia: “Ma non è venuto il figlio de Maria Luisa? Dario, il più grande, quel pennellone. C’è stato due volte, quando l’ho spaccate e alle dieci, pe’ vede’ il responso, come dice lui”.

“Ma tu guarda! E com’è che era interessato alle cipolle?”

“Sacramento! Per curiosità! Che te credevi, è venuto solo per curiosità! Che gliene frega a questi del tempo, della terra...”

“Insomma, è venuto.”

“Sineee! Adesso se lo metterà a racconta’ agli amici, stanne certa. Diranno un po’ de stupidaggini, me l’immagino, anzi, ce prenderanno pei fondelli, che te credi.”

“Ah, questo è sicuro. Però chissà, forse pure loro un giorno…”

Ottaviano saltò come una molla: “Che?! Come?! Ma non li vedi? Questi so’ allevati coi fru-fru, pure andà al cesso je pesa. Questi le cipolle le spaccheranno, te lo dico io, ma pe’ mangiassele a colazione, pranzo e cena! Sempre che se trovino, perché quanno la pacchia finirà, le ghiande dovranno raccoglie, e no pei porci, ma pe’ loro, come Michele Sbucafratte, te lo ricordi?».

“Santa Madonna, compa’! Andremo a fini’ proprio in queste condizioni?”

“Andremo? Andranno! Loro! Ne passeranno poca de fame, questi! Comunque… lasciamoli perde, non so’ ragazzi cattivi. C’ianno tutto, e non sanno fa’ niente, ma so’ bravi ragazzi, non sarà manco colpa loro, che Dio gliela mandi bona.”

Ottaviano si avvicinò alla caffettiera e lo sguardo cadde sulle cipolle. Si voltò verso Assunta: “Ma sì, lasciamo sta’, prendiamoce ‘sto caffè, va. Ah, comma’, famme un favore prima. Tanto non verrà più nessuno…”.

Indicò la finestra, e scattò con la testa: “Piglia le cipolle e...”.


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