Vittoria era grandissima: il mondo conosciuto e l’unico possibile. I risvegli, le fatiche, la voce e il sentimento di una donna antica dalla mascella larga e le mani tozze, callose di campagna. Era gialla di sole quasi sempre e profumava all’alba di pane cotto a legna, alla sera era succulenta di sughi concentrati, poi, nei dopo cena, emanava effluvi dai solchi di scarpetta sui piatti neri di graffi. Pure i graffi erano levigati di tempo. Il tempo assoluto. La mattinata era la parte più lunga del giorno e accadeva dentro la grande finestra a fianco del banco di scuola: lunghe code agli uffici del comune e alla posta, ogni sorta di commissione fino all’ora di pranzo, quando si capiva che stava per suonare la campanella dal panificio pieno, dove si compravano scacce e si vendevano curtigghi. Il sabato, che la scuola non c’era, c’era da fare la spesa al mercato, appesi alla mano di mamma... Là se ne correva presto tutta la mattinata e la fiera faceva paura, perché aveva mille occhi e milioni di voci: “Maria, ch’è bedda sta racinaaa!”. Ognuno doveva vendere il suo. Che peccato non poterli accontentare tutti.
Fausta aveva gli occhi grandi e neri. Non parlava molto. Gli adulti non la sentivano e qualche volta neanche la vedevano. Per lei facevano parte dello spettacolo, come il cielo, le farfalle e i treni che fischiano. Lei, con i suoi sette anni, si godeva tutto come si fa al cinema con i bei film, sprofondata della sua poltrona fatta di gonnelle di cotone e calzini di merletto e affacciata al vetro caldo della finestra della cucina.
All’ora di pranzo i capofamiglia chiudevano alle loro spalle il portone di casa, lasciandosi dietro l’aria rarefatta dal mezzogiorno. Da quel momento tutto assumeva un significato diverso: tutto poteva essere rimandato, tutto discendeva annoiato all’orizzonte, il filo spinato che tagliava il mare, là a Scoglitti, prima che toccasse l’Africa. Davanti alle saracinesche abbassate le voci annegavano plumbee in un’eco seducente e stanca. Nel paio d’ore della siesta, splendeva il sole di mezzogiorno e incombeva già la desolazione di mezzanotte. Era il momento migliore. Fausta ne era convinta e non avrebbe mai rinunciato a goderselo nel modo che diceva lei. Saliva in terrazza mentre mamma e papà dormivano e si metteva là, sul lembo estremo dell’angolo della sua casa di tre piani, dove il balcone si piegava a gomito, all’incrocio tra via Como e via Cacciatori delle Alpi. Stava su poco più che una mattonella, ma si sentiva al centro del mondo e forse lo era, mentre vegliava su un campo giallo e marrone di tetti dalla sua personale torre azzurra di cielo. Lo sfondo era dominato dai brulli monti iblei, di cui lei sapeva solo una cosa: “Là sopra c’è Ragusa!”, le aveva detto mamma. Chissà com’era? Chissà se i Ragusesi sapevano che là sotto c’erano i Vittoriesi?
Che avventura affascinante e spaventosa sentire la brezza e gli odori da quell’altezza. Dopo le scale, rallentato il bum bum nel piccolo petto, sedeva in terra e, infilate le gambette tra le grate vagamente barocche, le faceva penzolare nel vuoto, la sinistra su via Cacciatori, la destra su via Como. Era agosto, era caldo. Tra il mento e il metallo rovente della ringhiera metteva un fazzoletto bianco con un fiore rosso ricamato a punto croce per rimanere in contemplazione, come il sole, la luna, il tempo stesso. Nella quieta armonia del vespro, però, la turbava qualcosa. Arricciava il naso e strizzava gli occhioni. Da qualche giorno un filo di vento, uno tra i tanti, aveva preso a infastidirla. Era cattivo, era puzzolente e a poco a poco, giorno dopo giorno, contaminava fastidioso la brezza tanto cara, si faceva più intenso e si diffondeva maligno. Il giorno di ferragosto si fece insopportabile. La piccola Fausta provava a cacciarlo come una mosca sul naso, ma non c’era nulla da fare. Puzzava tutta Vittoria quel giorno, pensava lei. Arrabbiata se ne scese in camera da letto dai suoi genitori a guardarli dormire. Mizzica!
La mattina seguente sfogliava il suo album di figurine, quando sentì dalle tapparelle abbassate un brusio agitato. Uscì sul balcone al primo piano. Da lì non era a suo agio, abituata all’altezza e alla vista libera del terrazzo. Da lì si sentiva ingoiata dalle case della signora Reccavallo, della Lorefice, degli Impoco. Il signor Di Modica aveva l’aria indifferente e come al solito stava all’angolo sul marciapiede come una guardia. Qualche adulto, indolente, s’era affacciato, qualche altro in macchina aveva rallentato. Si rincorrevano tra i clacson i “Ma chí successi?” e Di Modica sentenziò: “Murìu don ‘Gnaziu!”. La signora Busacca, che abitava nella porta accanto a don ‘Gnaziu, lì sulla via Como, precisò: “U truvaru muortu i cent’anni!”. Giallongo, passando di là aveva rallentato il passo e disse a qualcuno: “Eccu chi era ‘du fietu!”.
Fausta spalancò gli occhi e la bocca. Per la prima volta in vita sua pensò come pensano i grandi: in un istante immaginò don ‘Gnaziu stare male i primi giorni d’agosto, le sembrò di sentire il frastuono del suo bastone sul pavimento e vide il vecchio corpo cedere e il volto stanco arrendersi. E si coprì gli occhi con le piccole mani. Con il batticuore rientrò in casa, raggiunse le scale e le fece di corsa. Secondo piano, la cucina, la mamma: “Mamma, mamma! È morto e nessuno se n’è accorto!”. Ma la mamma stava friggendo le melanzane e non poteva lasciare.
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