FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 47
luglio/dicembre 2017

Mezzanotte

 

IL NERO ASSOTTIGLIA ANCHE LA NOTTE

di Emanuela Chiriacò



Il nero assottiglia anche la notte, composizione sciolta di ore piccole, sottrazione del fermento di vita che popola il giorno.

La notte è il momento del buio che bagna e fascia i corpi di una bellezza quasi perfetta. Chi ne ha paura, protrae il giorno con la luce artificiale; chi la ignora, dorme le regole del ciclo circadiano. Poi ci sono quelli che la abitano, ne attendono la magia, ne respirano la bellezza, godendo lo stato di grazia che sa procurare.

Mario Scelli ama la notte e il nero; l’unico colore che indossa perché gli conferisce un’aria esistenzialista. Ogni giorno conta i respiri brevi del tempo diurno in attesa che il cielo si spenga, in quel momento può liberare il fiato e uscire dall’apnea che lo tiene lontano dalla fastidiosa operosità del quotidiano.

Lui lavora mentre gli altri dormono; il suo è un lavoro che richiede grande preparazione prima del gesto, dell’atto creativo. Il suo è un lavoro senza committenza; una passione fuori controllo che genera controllo.

Un sedativo dolce e potente che dal calore dell’impeto scivola lentamente in un raffreddamento, un addormentamento dell’impulso. La letargia che lo aveva ingoiato dall’ultima creazione, lo aveva consegnato alla normalità di un lungo digiuno. Il posto libero nell’opera più lunga che avesse mai concepito, l’unica a cui lavorava da decenni stava per essere occupato. Il soggetto scaturigine del risveglio aveva bussato una mattina. Mario non aveva aperto, lo aveva osservato con attenzione insistere nel chiedere se ci fosse qualcuno, aveva sentito pronunciare il suo nome più volte, si era dunque documentato pensò, ne attese il congedo con la promessa di un ritorno.

Nella testa di Mario montano a galla pensieri in forma di cose che sa trasformare in bozzetti, molti dei quali finiscono accartocciati sul pavimento dello studio di progettazione.

Con il risultato definitivo, Mario entra nella stanza del tableau vivant, sfila le lenzuola che coprono l’opera e non trattiene l’emozione. Sono tutti seduti attorno al tavolo come nel fermo immagine della sua testa: sua madre, suo padre, suo fratello sul seggiolone, la signora e il signor Giorgetti, il figlio maggiore Settimio e se stesso, è vacante soltanto il posto accanto a lui.

Accarezza il volto di suo fratello che sorride e mostra le fossette sulle guance, saluta tutti con educazione, si accomoda e prende la parola.

“Sono qui oggi con voi e mi scuso se non ci vediamo da un po’ – prende a dondolare la gamba sotto al tavolo – sì, scusa papà so che ti infastidisce, non lo faccio più. Sono stato molto occupato a non fare niente negli ultimi anni, a piangere per voi e la vostra mancanza. Sì mamma lo so, ormai sono calvo ma non è stato il testosterone; pare che io sia tricotillomane. No, non è una brutta parola signora Giorgetti, significa solo che ho avuto bisogno di tirarmi i capelli per sedare l’ansia di essere un’artista. L’opera di cui fate parte è in fase di chiusura e sono qui oggi con voi e mi scuso se non ci vediamo da un po’...no questo l’ho già detto, scusate! Dunque sono qui oggi con voi, per comunicarvi che ho trovato la persona mancante, quella che ci completerà e ci restituirà alla storia dell’arte. Si asciuga il volto con un grande fazzoletto bianco e lo bagna di sudore. Sì mamma lo so, sono ingrassato scusami. Mangio per sedare l’ansia di essere un artista solitario. No signor Giorgetti, non posso dire ancora chi è. Per voi sarà una bellissima sorpresa. Sì mettiamola così, è una sorpresa, un cerchio che si chiude ma sono certo che vi piacerà. Vi piacerà tantissimo. Mi ringrazierete. Adesso mangiamo questo pranzo di vigilia così poi vi lascio riposare, anche io ho bisogno di riposare per avere la giusta concentrazione che mi permetterà di continuare il lavoro”. Il pranzo termina, Mario ricopre le statue di silicone, spegne le luci, chiude la porta e torna nel suo studio.

Riguarda il video che ritrae il soggetto mancante, lo confronta con i bozzetti e costruisce lo scheletro provvisorio, un’anima in fili di ferro intrecciati e impagliati. Uno spaventapasseri da foderare con l’argilla. Mentre lo modella e ne traccia i tratti grezzi, gli manca quel senso di affezione che ne scaturirà. Lo sa che succederà ma non è ancora il momento. È stanco, riposa scivolando in uno stato di torpore che il minimo rumore spezza riportandolo alla vigilanza che gli tiene compagnia. Riprende a modellare, le fattezze si addolciscono, il volto inizia a respirare il grigiore dell’interiorità che il rosato della carne finta coprirà ma è presto e lui non ha fretta. L’attesa della definizione gli procura l’ansia specifica che gli occorre per vivere. Cura i dettagli delle mani.

Il modellato è pronto e passa a realizzare il negativo in vetroresina. L’arte fa esplodere il tempo e ricompone l’ego, lo tiene unito saldamente. Fuma perché ne sente il bisogno impellente. Lascia riposare il calco dentro al quale eseguirà la colata di gomme siliconiche. L’eccitazione aumenta e sa che il momento di versare è arrivato. Lo vomita lentamente come intermittenti attimi di liberazione. Si pone di fronte e lo osserva inerme in quella impalcatura che gli sorregge il busto, lo osserva e si compiace della cura maniacale che ci ha messo. Ha già scandagliato e censito mentalmente i punti di giuntura da mascherare e lo fa con affetto distaccato, percepisce che l’ultimo ospite atteso inizia ad essere altro da lui, a conquistare una vita autonoma.

Fa girare il suo uncinetto speciale tra le dita, eccitandosi al pensiero che lo infilerà nel tenero strato di epidermide siliconica per posizionare capelli e peli uno ad uno. Il primo entra e Mario ha un brivido di soddisfazione per proseguire fino al completamento di testa e mani. Lo abbiglia e lo osserva. È perfetto, talmente perfetto da sentire una leggera erezione, un senso di potenza. Si strofina sulla schiena della statua e compiuto il rituale che si conclude con un gemito sordo e soffocato, lo conduce in sala, scopre gli altri commensali e lo accomoda. Il quadro è completo. L’unità che gli è mancata si è ricomposta. Manca un solo altro passo alla concettualizzazione dell’opera intera. Apre l’album dei ricordi. Non ci sono foto. Solo articoli di giornale. Parlano dell’incidente causato da un prete in cui è stata sterminata l’intera famiglia Scelli, eccetto Mario che era in attesa della famiglia a casa dei nonni. Alla guida del veicolo che ha causato l’incidente, un giovane seminarista, Giacomo Giorgetti con la sua famiglia. I Giorgetti sono rimasti tutti illesi. Finché non è intervenuto l’artista. Molti pezzi parlano di lui, della sua opera in progress. Della graduale scomparsa della famiglia Giorgetti e dell’unico sopravvissuto Don Giacomo Giorgetti.

È notte fonda, Mario indossa una felpa nera e alza il cappuccio sulla testa. Esce. Gli tremano le vene e gli ansima il respiro. Accelera il passo e la notte lo ingoia. Costeggia le mura cittadine, le sfiora lentamente, sono fredde e umide. La chiesa è vicina, la sacrestia gli volta le spalle. Dalla finestra spia e lui è lì, seduto sulla poltrona a guardare la televisione che gli illumina il volto. È lui, è identico, è inerme. Il respiro si è fermato, può agire. Entra silenzioso, con le mani gli prende la testa e con un colpo secco gli spezza il collo. La adagia sul laterale della poltrona, gli chiude gli occhi, con le dita coperte dai guanti e intrise di olio traccia tre piccole croci: una sulla fronte, una sulle labbra e una sul petto. Lascia un biglietto che recita «Noi serial killer siamo i vostri figli, i vostri mariti, i vostri parrocchiani, siamo ovunque».

Esce e a ritroso fa il suo percorso verso casa.

Si spoglia e fa una doccia bollente, il corpo si arrossa. Si asciuga lentamente intonando una nenia fatta di canti gregoriani e si posa sul letto concedendosi un dormiveglia che lo aiuta ad attendere il giorno.


emanuela.chiriaco@hotmail.com