Nella raccolta poetica pubblicata nel 2007 Breve historia del alba lo scrittore salvadoregno Jorge Galán (1973) traccia un percorso diviso in quattro parti (o tappe), un viaggio che inizia di notte e termina con il sorgere del sole. Al buio “nulla è ciò che sembra” e la morte è l’unica “abbondanza” quotidiana: i profili delle case si deformano e la materia appare vulcanica, in continua trasformazione, “gli alberi emanano la loro paura” e solo il vento protegge, come un affilato mantello, il corpo che avanza a tentoni. La luce è speranza, inizio di una nuova vita, di un viaggio meno accidentato. Galán torna spesso sui propri passi, lo fa in tutta la sua opera: i temi dei suoi romanzi s’intrecciano a quelli delle sue raccolte poetiche, così come la stessa poesia entra nella sua prosa, e viceversa.
A dieci anni di distanza da Breve historia del alba Jorge Galán in Medianoche del mundo (pubblicato in Spagna nel 2016 e con il quale ha vinto, come inedito, la XVI edizione del prestigioso Premio «Casa de América de Poesía Americana») si lancia direttamente nella notte e aguzza la vista per scrutare gli invisibili orizzonti, le varie gradazioni del buio, le sfumature delle ombre, gli “alberi di luce” così distanti. E questo a mezzanotte, nel preciso istante in cui muore un giorno e – ancora al buio – ne inizia un altro. Ma nella nuova opera il viaggio è collettivo, coinvolge più persone, villaggi e città di metallo, probabilmente molto distanti dalla sua casa, dal territorio originario. Al centro vi è sempre il proprio paese, ovvero El Salvador, dal quale l’autore è stato costretto a fuggire e trasferirsi in Spagna per motivi di sicurezza.
El Salvador, tra i paesi più pericolosi del mondo, devastato da una guerra civile iniziata nel 1980, anno dell’uccisione dell’arcivescovo Óscar Romero, e terminata dodici anni più tardi dopo aver provocato oltre 80.000 vittime, per non parlare dei feriti, degli orfani, delle devastazioni. Un impressionante muro di marmo nero elenca, in un parco della capitale, tutti i nomi di questa mattanza. Ma la violenza non ha fine con questa data, così come è antecedente al 1980. L’amnistia del 1993 ha lasciato in liberta torturatori, mandanti e assassini, anche quelli che la notte del 16 novembre 1989 ammazzarono, all’interno dell’Università cattolica, sei frati gesuiti (di cui cinque di nazionalità spagnola) e due loro collaboratrici. Il governo in carica di Alfredo Cristiani incolpò dell’eccidio la guerriglia del FMLN (Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional), ma fin da subito si sapeva che militari bene addestrati avevano compiuto il massacro. Di questo parla Jorge Galán nel romanzo Noviembre, pubblicato nel 2015 in Spagna, e fa i nomi degli assassini dopo una sua indagine personale e la confessione dell’ex presidente Cristiani. Da qui le minacce e il trasferimento a Madrid.
Anche nella raccolta poetica Medianoche del mundo torna il clima di terrore presente nel romanzo Noviembre. Non a caso la prima parte del libro s’intitola “L’interminabile notte di Novembre”, a ribadire il dolore di quel ricordo, la rovina, la costante presenza di un paese insanguinato e senza giustizia. Il libro si apre con questi versi “Desolazione è il mio nome e il nome / di ciò che mi circonda”, per proseguire così nella poesia “La fuga”: “Io non ho parlato degli assassini. Ho parlato dei corpi / sotto l’interminabile notte di novembre, / ho parlato dei sei uomini stesi sulla gramigna, / ho parlato delle donne, quelle due, stese sul pavimento”. Poi lo stacco, l’addio a tutto quello che l’uomo in fuga (l’autore, il protagonista di questa storia in versi) aveva considerato suo, a partire dagli affetti familiari.
Nella seconda parte del libro (“Geografia”) l’autore descrive in versi un gruppo sociale articolato ma compatto: l’anziana che soffre, il bambino ucciso, l’uomo paralizzato dalla paura, un amore devastato e (di nuovo) un novembre che “pende” dalle finestre. Ecco i piegati dall’odio, gli sconfitti dalla malvagità. E qui i versi, con originaria nitidezza, si fanno leggendari, il coro di queste voci si eleva a inno, a confessione accorata, a monologo collettivo, a umile ma percussivo canto di dolore.
Una poesia corposa, densa eppure sempre ben modulata che scandaglia i pozzi della notte e getta manciate di neve sulle macchie oscure, sul buio più impenetrabile. Neve immacolata che si fonde alla sofferenza, allo squartamento: “La neve è bianca come la pelle dei conigli spellati”. Si parla in modo insistente di morte (“ascolto la morte cantare alle mie spalle”); di storie terribili; di affogati; di bambini che sparano ad altri bambini; di sconfitti; di tombe seminate nella terra; di devastazioni; di bellezza estinta che la nostalgia rende ancora più amara e il pensiero sempre più oscuro; di anziani che piangono e nessuno sopporta quel pianto fatto di dolore e rabbia; di amori terrificanti, come quello devastante di un padre per la figlia; del desiderio di gridare a squarciagola fino a sparire nel proprio grido.
Così violento (e col suo verde tanto rigoglioso) El Salvador diventa il paese di tutti. Le parole di Jorge Galán in Mediandoche del mundo si fanno ombrose e dure (“solo l’oblio è simile alla salvezza”), si muovono lente, si scolpiscono con precisione e chiarezza nella polvere centenaria. Alla fine, particelle luminose saettano tra le dita che annaspano in cerca d’aria, di sicurezza e conforto. La paura alimenta l’istinto di sopravvivenza dell’uomo che qui appare braccato da un destino avverso, ingiusto, privo di compassione, dove si sognano esplosioni e si scrivono lettere d’amore da inviare a un cane. Un mondo buio e freddo dove si può sopravvivere pensando solo al Nulla. Allora si retrocede nel tempo, ci si rifugia nella grotta dove uomini selvaggi disegnavano quei grandi bisonti di una bellezza assoluta e misteriosa. Nascosti agli altri, privi di speranza (e quindi di futuro), eppure nella notte si procede, ci si dilata nello spazio per raggiungere l’origine della tempesta, del male, della violenza, del “sogno inusitato / di questi terribili giorni”.
Le luci della notte sono malate e ciniche, dall’oscurità arriva un uomo che è tutti gli esseri della terra. Avanza a fatica, un equilibrista in bilico sotto un cielo pieno di crepe. La strada non è lunga eppure non termina mai, allora l’uomo allunga “la mano indurita, / l’inevitabile mano per toccare il centro del silenzio del mondo”.
POESIE DI JORGE GALÁN da Medianoche del mundo (Visor, Spagna, 2016) XVI Premio Casa de América de Poesía Americana
MAÑANA DE NOVIEMBRE
Noviembre cuelga de las ventanas,
se estira y se congela. Las nubes grises de nieve
se desploman sobre los techos.
La nieve es blanca como la piel de los conejos desollados.
Las crías del conejo no pueden iluminar
una madriguera. Raíces
transparentes, restos de sombra y de legumbres,
y un olor amargo y salvaje y tan antiguo
como el instinto de salvación.
Noviembre se hunde igual que el pie de una bailarina
en el centro del aire, se suspende, gira,
aúlla, es un anciano, una barba llena de abejas,
una cría de oveja que pasta por las colinas alisadas.
Noviembre es una víspera blanca
inclinada como una chica antes de lanzarse
desde un trampolín en el borde del mar.
Casi acantilado, casi grulla y casi sombra de grulla
sobre los niños que se deslizan por la hierba.
El mundo es frío y no tengo hijos ni mujer ni parientes.
En posesión de nada subsisto.
Mi casa es el deseo.
MATTINO DI NOVEMBRE
Novembre pende dalle finestre,
si stira e si congela. Le nuvole grigie di neve
si schiantano sui tetti.
La neve è bianca come la pelle dei conigli spellati.
I conigli appena nati non possono illuminare
una tana. Radici
trasparenti, resti d’ombra e di legumi,
e un odore amaro e selvaggio e così antico
come l’istinto di sopravvivenza.
Novembre affonda come il piede di una ballerina
nel centro dell’aria, s’impenna, gira,
ulula, è un anziano, una barba piena di api,
un agnellino che pascola per le colline levigate.
Novembre è una veglia bianca
inclinata come una ragazza prima di lanciarsi
da un trampolino sul bordo del mare.
Quasi scosceso, quasi gru e quasi ombra di gru
sui bambini che scivolano sull’erba.
Il mondo è freddo e non ho figli né moglie né familiari.
Sussisto possedendo il nulla.
La mia casa è il desiderio.
PERTENENCIA
Cuando sales al mundo comprendes
de quién es el mundo, y te dices
debe haber algo más, algo simple
como el color del té,
como música producida por un tambor,
como una noche que acabe en la mañana.
¿Es posible? En las grietas de las tejas
y entre las piedras, crecen pequeñas flores.
Lo diminuto siempre se abre paso.
La única verdad es que hay frío en el norte
y en el sur, y que hay algo, un hilo
que lo une todo. La belleza prevalece
en las montañas y en las marismas.
Los cangrejos son rojos. El ratón de campo
y la grulla tienen patas rosadas.
Y todo camino da la vuelta a la tierra
y llega siempre al mismo lugar
no importa si avanzamos al este o al oeste.
Estoy cansado. He vuelto a pensar en la muerte.
He vuelto a preguntarme ¿es posible?
Me he visto atravesar la columna de polvo
y coger del piso un instante de brillo,
una bala que dejo sobre mi lengua,
una palabra inútil. Un trago de inaudible pasado.
En la superficie del agua crece el zancudo
y es así siempre y ha sido así siempre.
Hay muchas puertas abiertas, muchos platos
repletos de comidas humeantes,
hay mucho de todo, incluso alegría,
incluso buenas costumbres, hay quienes
aplauden al alba, otros, que hacen fotografías
al crepúsculo de la tarde, hay aves
que no temen ni a niños ni a hombres.
Hay caballos diminutos en las praderas,
zorros que husmean la basura,
plazas donde una anciana toca una flauta de caña,
y un solo observador, una silueta cuya mano
dibuja una cruz en el aire, un movimiento
que imita al de uno que pinta
la figura de un búfalo sobre el basalto,
la belleza que se resiste a la oscuridad de la cueva,
lo más cercano a la eternidad que conocemos.
El día empieza siempre en la punta
de cada hoja de hierba.
APPARTENENZA
Quando vieni al mondo comprendi
di chi è il mondo, e ti dici
ci dev’essere qualcosa in più, qualcosa di semplice
come il colore del tè,
come la musica prodotta da un tamburo,
come una notte che sfocia nel mattino.
È possibile? Nelle crepe delle tegole
e tra le pietre, crescono piccoli fiori.
La cosa minuta sempre si fa strada.
L’unica verità è che fa freddo sia al nord
che al sud, e che c’è qualcosa, un filo
che tutto congiunge. La bellezza prevale
sulle montagne e nelle zone paludose.
I granchi sono rossi. Il topo di campo
e la gru hanno zampe rosate.
E ogni percorso fa il giro della terra
e arriva sempre allo stesso posto
non importa se avanziamo verso est o ovest.
Sono stanco. Ho ripreso a pensare alla morte.
Sono tornato a domandarmi: è possibile?
Mi sono visto attraversare la colonna di polvere
e afferrare dal pavimento un istante di lucentezza,
una pallottola che lascio sulla mia lingua,
una parola inutile. Un sorso d’inaudibile passato.
Sulla superficie dell’acqua cresce la zanzara
ed è sempre così ed è stato sempre così.
Ci sono molte porte aperte, molti piatti
stracolmi di cibi fumanti,
c’è molto di tutto, perfino allegria,
perfino buone abitudini, c’è chi
applaude all’alba, altri, che scattano foto
al crepuscolo della sera, ci sono uccelli
che non temono né gli uomini né i bambini.
Ci sono piccoli cavalli nelle praterie,
volpi che fiutano la spazzatura,
piazze dove un’anziana suona il flauto a canne,
e un solo osservatore, una sagoma la cui mano
disegna una croce nell’aria, un movimento
che imita quello di chi dipinge
la figura di un bufalo sul basalto,
la bellezza che resiste all’oscurità della grotta,
l’evento più vicino all’eternità che conosciamo.
Il giorno inizia sulla punta
di ogni filo d’erba.
HUELLA EN EL AGUA
La transparencia imita lo invisible,
se esconde siempre atrás,
se vuelve un presentimiento,
una pregunta respondida a través del susurro
semejante al aliento de la nieve
en las orejas del lobo.
Sueño con explosiones cada domingo.
Escribo cartas de amor que envío a un perro.
Un hueco en la tierra es la dirección,
pero nadie se niega a que le pague los tres dólares
de las estampillas en blanco y negro,
imágenes de trompetistas con uñas sucias.
Todo es sucio atrás. Los barcos,
el mar, los leones de África, la risa
de las hienas manchadas de oro y de fuego.
No es simple olvidarse de la lejanía.
Dibujo palmeras en las paredes, valles, hombres
que atraviesan los valles, piernas
delgadas, largas, tierra estéril bajo ellas,
o hierba, o conejos que les muerden los dedos,
o aves, o lagartos en la maleza, o cabezas
que salen del agua, sus bocas
como cuevas donde solo ha habitado el eco.
Dibujo niños en cobertizos, manos
que elaboran figuras en el polvo de las ventanas,
y cortinas repletas de siluetas que tiemblan,
y estanques donde los nenúfares
se han ahogado, y frases que son invocaciones.
Nadie sabe lo que es cerrar
dos puertas, tres, cuatro, cinco puertas
y sentarse a esperar una sola palabra
que llegue de muy lejos.
No es simple no desfallecer. No es simple no tenderse
y esperar por un día o miles de días.
De lluvia estancada está hecho el patio
de la casa en que espero, dos centímetros
de brillo, pero no hay atrapada ahí ni una sola vía láctea
como una ballena en una bahía
con el cambio de la marea.
A no morir se aprende mientras la muerte sucede.
Solo extraviado en la terrible lejanía
pude encontrarme en lo inmediato.
IMPRONTE SULL’ACQUA
La trasparenza imita l’invisibile,
si nasconde sempre alle spalle,
diventa un presentimento,
una domanda ribattuta attraverso il sussurro
simile al respiro della neve
nelle orecchie del lupo.
Ogni domenica sogno esplosioni.
Scrivo lettere d’amore che invio a un cane.
Un buco nella terra è la direzione,
ma nessuno rinuncia a farsi pagare tre dollari
di francobolli in bianco e nero,
immagini di trombettisti dalle unghie sporche.
Dietro è tutto sporco. Le barche,
il mare, i leoni dell’Africa, la risata
delle iene maculate d’oro e di fuoco.
Non è facile dimenticare la lontananza.
Disegno palme sulle pareti, valli, uomini
che attraversano le valli, gambe
magre, lunghe, terra sterile sotto i piedi,
o erba, o conigli che mordono le loro dita,
o uccelli, o lucertole nella sterpaglia, o teste
che spuntano dall’acqua, le loro bocche
come grotte abitate soltanto dall’eco.
Disegno bambini su tettoie, mani
che elaborano figure nella polvere delle finestre,
e tende piene di sagome che tremano,
e stagni dove le ninfee
sono affogate, e frasi che sono invocazioni.
Nessuno sa cosa significhi chiudere
due porte, tre, quattro, cinque porte
e sedersi ad aspettare una sola parola
che giunga da molto lontano.
Non è semplice non svenire. Non è semplice non stendersi
e aspettare per un giorno o migliaia di giorni.
Di pioggia stagnante è fatto il patio
della casa in cui aspetto, due centimetri
di lucentezza, ma lì non c’è una sola via lattea imprigionata
come una balena in una baia
come il fluire della marea.
A non morire si apprende quando la morte accade.
Solo nello smarrimento della terribile distanza
sono riuscito a trovarmi nell’istante.
LA REALIDAD MÁS ABSOLUTA
Es primavera bajo los árboles,
un aliento invisible y robusto atraviesa las raíces sombrías,
hace de la oscuridad un lenguaje,
alienta al pétalo a dibujarse en la nada,
bendice el contorno de la semilla, le provee
una vibración, lo rompe, y surge el instante de la pulpa,
un presentimiento de inmensidad,
y me doy cuenta que a nada reconozco,
que estas extrañas estaciones no son las mías,
que el mar no huele como siempre,
y que a nada le temo por la noche,
que nadie me persigue, que no hay una silueta
que permanezca siempre atrás,
y que no reconozco los follajes, el temblor
de las colonias de insectos cuya existencia es un sonido.
Mi familia aquí es todo lo que no llega con la tarde.
Víspera del invierno, el sonido de todos los salones.
LA REALTÀ PIÙ ASSOLUTA
È primavera sotto gli alberi,
un alito invisibile e robusto attraversa le ombrose radici,
fa dell’oscurità un linguaggio,
incoraggia il petalo a scorgersi nel nulla,
benedice il perimetro del seme, gli procura
una vibrazione, lo spezza, e dalla polpa sorge l’istante,
un presentimento di immensità,
e mi rendo conto che nulla più riconosco,
che queste estranee stagioni non sono le mie,
che il mare non ha l’odore di sempre,
e che di notte nulla temo,
che nessuno m’insegue, che non c’è una sagoma
sempre presente alle mie spalle,
e che non riconosco le foglie, il tremore
delle colonie di insetti la cui esistenza è un suono.
Qui la mia famiglia è tutto ciò che non giunge con la sera.
Veglia d’inverno, il suono di tutte le stanze.
EL HOMBRE EN LA TEMPESTAD DE LA TARDE
Me han pedido a mi hija.
Me han pedido unos muebles nuevos.
Me han pedido bajar la cabeza y callarme
y bendecir el pan amargo
y el vino en el vaso manchado de musgo.
Me han pedido a mi hija de doce años.
Me han pedido una moneda de plata una vez y cien veces.
Me han pedido entregar el pan,
no partirlo sino entregarlo entero,
pan amargo, una hogaza blanca,
blanda como la barriga del lechón.
Me han pedido no abandonar mi casa a medianoche.
Me han pedido a mi hija de doce años y a la de once.
Voces que vienen en la madrugada y al amanecer.
Rostros ocultos a través de las cicatrices.
Me han advertido que tengo tres días, me han advertido
de una oscuridad más profunda.
La madre mis niñas retrocede a la habitación cerrada.
Evita mirarme. Elige entre una muerte y otra muerte.
No quiere obligarme a descender al polvo.
No quiere bendecir la oscuridad
ni maldecir el ruido del alba.
Sabe que el revés del silencio es la explosión.
No quiere condenarme aunque sabe que estoy condenado.
Me perdona antes de que llegue la culpa.
Me han pedido a mi hija.
Me han pedido que cierre las siete puertas
de mi casa al amanecer
y las abra con la llegada de la tarde
y entonces diga una oración para alejar a los muertos.
Me han pedido que pisotee las flores de los tejados,
que diga una y dos y tres veces mi nombre,
que recuerde y olvide todo,
que corte mi mano, que me incline
y pida perdón por la luna sobre la oscuridad vertical del pino
y por la suavidad de la lila
y el estanque donde asoma su cabeza la rata
y por el plumaje del búho y el color de la mariposa.
Me han pedido a mi hija de once y a mi hija de doce.
Y el mundo es un sitio yermo, carente de toda salvación,
ignorante de todo destino y toda dicha.
Mi vida retrocede hasta alcanzar el origen de la tormenta.
Mi mano crece sobre el mango del hacha.
Se enraíza, se multiplica como las tumbas en la tierra
bajo lluvias que caen todo el año y años tras año.
Me han pedido vivir entre los desperdicios de la humanidad
y estar tranquilo y esperar
y saludar a los que me observan alejarme.
Me han pedido que orine sobre mi propio rostro y sonría.
Me han asegurado que les pertenezco, yo y los míos,
y que solo la muerte es la dueña del alba.
Que solo la muerte es la madre amorosa.
Que solo la muerte es la madre
y el padre que nos velan mientras dormimos,
mientras soñamos el sueño inusitado
de estos días terribles.
L’UOMO NELLA TEMPESTA DELLA SERA
Mi hanno chiesto mia figlia.
Mi hanno chiesto dei mobili nuovi.
Mi hanno chiesto di abbassare la testa e tacere
e benedire il pane amaro
e il vino nel bicchiere sporco di muschio.
Mi hanno chiesto mia figlia di dodici anni.
Mi hanno chiesto una moneta di argento una volta e cento volte.
Mi hanno chiesto di consegnare il pane,
non tagliarlo ma di consegnarlo intero,
pane amaro, una pagnotta bianca,
soffice come la pancia del maialino.
Mi hanno chiesto di non lasciare la mia casa a mezzanotte.
Mi hanno chiesto mia figlia di dodici anni e quella di undici.
Voci che arrivano all’alba e di buon mattino.
Volti occultati tra le cicatrici.
Mi hanno avvertito che ho tre giorni, mi hanno avvertito
di un’oscurità più profonda.
La madre delle mie bambine arretra alla stanza chiusa.
Evita di guardarmi. Sceglie tra una morte e un’altra morte.
Non vuole obbligarmi a calarmi nella polvere.
Non vuole benedire l’oscurità
né maledire il rumore dell’alba.
Sa che il rovescio del silenzio è l’esplosione.
Non vuole condannarmi benché sappia che sono già condannato.
Mi perdona prima che arrivi la colpa.
Mi hanno chiesto mia figlia.
Mi hanno chiesto di serrare all’alba
le sette porte della mia casa
e di riaprirle all’arrivo della sera
e in quel momento recitare una preghiera per allontanare i morti.
Mi hanno chiesto di calpestare i fiori dei tetti
di ripetere una e due e tre volte il mio nome,
di ricordare e dimenticare ogni cosa,
di mozzarmi una mano, d’inginocchiarmi
e implorare perdono per la luna sull’oscurità verticale del pino
e per la dolcezza del lillà
e lo stagno dove il topo mostra la testa
e per il piumaggio del gufo e il colore della farfalla.
Mi hanno chiesto mia figlia di undici e mia figlia di dodici.
E il mondo è un luogo deserto, privo di ogni salvazione,
ignorante di ogni destino e di ogni gioia.
La mia vita retrocede fino a raggiungere l’origine della tempesta.
La mia mano cresce sul manico dell’ascia.
Si radica, si moltiplica come le tombe nella terra
sotto piogge che cadono tutto l’anno e anno dopo anno.
Mi hanno chiesto di vivere tra i rifiuti dell’umanità
e di stare tranquillo e di aspettare
e salutare coloro che osservano quando mi allontano.
Mi hanno chiesto di pisciare sul mio volto e sorridere.
Mi hanno assicurato che appartengo a loro, io e i miei,
e che solo la morte è la padrona dell’alba.
Che solo la morte è la madre amorosa.
Che solo la morte è la madre
e il padre che vegliano su di noi mentre dormiamo,
mentre sogniamo il sogno inusitato
di questi terribili giorni.
LO SIN TÉRMINO
Cuando los pinos dijeron mi nombre
supe que no quedaba nada.
A la orilla de las aguas australes palidecía lo nacido en la tierra.
Los fantasmas andaban sobre el agua,
sus sombras se deslizaban entre las rocas y los barcos.
El viento era negro como el hocico de las focas.
Los continentes se movían como moluscos en el agua,
mirarlos era entender el sonido que siempre había existido.
La primera orilla del mar seguía siendo el mar.
Nada había pasado y todo se había reunido otra vez.
Bajo mi pie y sobre mi cabeza lo esencial existía
como siempre había existido, o distinto pero semejante.
Palabras sombrías nacieron a mi lengua como manchas de ostras.
Dudé si las gaviotas que veía no serían las mismas de siempre.
¿Quién podría saberlo? ¿Quién podría asegurarme que no?
¿Por qué habrían de ser diferentes
a las primeras que observé alguna vez?
Aquella mañana el invierno nacía en mis manos
y la luz era leve como una piel enferma vencida por el frío.
QUELLO CHE NON HA FINE
Quando i pini dissero il mio nome
seppi che non restava più nulla.
Sul bordo delle acque australi impallidiva quel ch’era nato sulla terra.
I fantasmi camminavano sull’acqua,
le loro ombre scivolavano tra le rocce e le barche.
Il vento era nero come il muso delle foche.
I continenti si muovevano come molluschi nell’acqua,
guardarli significa comprendere il suono ch’era sempre esistito.
La prima sponda del mare continuava a essere il mare.
Nulla era accaduto e di nuovo tutto si era ricongiunto.
Sotto il mio piede e sulla mia testa l’essenziale esisteva
come sempre era esistito, o diverso eppure somigliante.
Parole ombrose nacquero sulla mia lingua come macchie di conchiglie.
Dubitai dei gabbiani che vedevo: erano quelli di sempre?
Chi poteva saperlo? Chi poteva assicurarmi di no?
Perché dovevano essere diversi
dai primi che osservai qualche volta?
Quella mattina l’inverno spuntava dalle mie mani
e la luce era lieve come una pelle malata sconfitta dal freddo.
EL RUIDO DEL OTOÑO
Pienso en el ruido del otoño, ese sonido
de tornados que abandonan las sombrías colinas
y suben por los acantilados como escaladores enfurecidos.
Pienso en el ruido de pisadas veloces, docenas de niños
que no se atreven a mirar la casa envejecida,
la ventana sin marco y la silueta que gira la cabeza. Y gira
la cabeza. Y gira la cabeza que es solo pómulos y boca.
Pienso en el ruido que se hunde en el polvo de cien años.
El polvo donde un pie puede conocer la estrechez
y lo que se hunde no es una huella sino un hombre completo.
Pienso en el graznido del cuervo sobre la huida de la liebre,
en el ruido de palabras sin vida cayendo sobre el pasto,
en el sonido de las pisadas que las destrozan sin notarlas,
en el silbido de los delgados abedules que se secan,
y en esa respiración que es un nombre,
un nombre de mujer, un nombre santo, sin sílabas,
con campanas doblando en vez de sílabas.
Pienso en la pisada de un pie inmenso, en el ruido
de la ciudad que enciende las estufas, en el paso
del humo a través de las interminables chimeneas,
pienso en todo aquello que no debía ser recordado
y repito la oración que ya he repetido una vez y otra vez,
y una vez y otra vez estiro la endurecida mano,
la inevitable mano para tocar el centro del silencio del mundo.
IL RUMORE DELL’AUTUNNO
Penso al rumore dell’autunno, a quel suono
di uragani che abbandonano le ombreggiate colline
e si arrampicano su scogliere come scalatori inferociti.
Penso al rumore di passi veloci, dozzine di bambini
che non osano guardare la casa invecchiata,
la finestra senza cornice e la sagoma che volta la testa. E volta
la testa. E volta la testa che è soltanto zigomi e bocca.
Penso al rumore che sprofonda nella polvere centenaria.
La polvere dove un piede può conoscere l’intimità
e quel che affonda non è un’orma ma un uomo intero.
Penso al gracchio del corvo dietro la fuga della lepre,
al rumore di parole senza vita che cadono sul prato,
al suono dei passi che le frantumano senza notarle,
al sibilo delle sottili betulle che si asciugano,
e a quella respirazione che è un nome,
un nome di donna, un nome sacro, senza sillabe,
con campane che raddoppiano al posto delle sillabe.
Penso all’impronta di un piede immenso, al rumore
della città che accende le stufe, al passaggio
del fumo attraverso gli interminabili camini,
penso a tutto quello che non dovrebbe essere ricordato
e ripeto la preghiera già ripetuta una volta e una volta ancora,
e una volta e un’altra volta ancora allungo la mano indurita,
l’inevitabile mano per toccare il centro del silenzio del mondo.
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Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini
Jorge Galán è nato a San Salvador (El Salvador) nel 1973 ed è lo pseudonimo letterario di George Alexander Portillo. Ha studiato Lettere presso l’Università Centroamericana “José Simeón Cañas”. Fin da giovanissimo ha avuto riconoscimenti nazionali per la sua poesia, ricevendo poi in Spagna, nel 2006, il Premio Adonáis. Scrive anche libri di narrativa e il suo primo romanzo, El sueño de Mariana, ha ricevuto il Premio Nazionale di El Salvador. Nel 2013 ha pubblicato in Spagna il romanzo La habitación al fondo de la casa, con una introduzione di Almudena Grandes, libro poi pubblicato anche in Italia (La stanza in fondo alla casa, Mondadori, 2016). Nel 2015, sempre in Spagna, ha pubblicato il romanzo Noviembre, incentrato sull’assassinio di sei gesuiti avvenuto nel novembre del 1989 presso l’Università UCA a San Salvador. A causa delle minacce di morte ricevute per via di quel che è narrato in Noviembre si è visto costretto a lasciare il proprio paese e a rifugiarsi in Spagna.
Nel 2016, con la raccolta inedita Medianoche del mundo, ha vinto il XVI Premio Casa de América de Poesía Americana, libro poi pubblicato dall’editore madrileno Visor nel 2016.
Jorge Galán è stato riconosciuto come il poeta più rilevante di lingua spagnola nato dopo il 1970 secondo l’antologia pubblicata in Spagna El Canon abierto (Visor, 2015), studio-inchiesta realizzata da critici e professori di oltre cento università di tutto il mondo.
Libri di poesia
- 2004 El día interminable
- 2004 Tarde de martes
- 2006 Breve historia del alba (Editorial Rialp – Premio Adonáis)
- 2007 La habitación
- 2010 El estanque colmado (Editorial Visor)
- 2011 La ciudad (Editorial Pre-Textos)
- 2014 El círculo (Editorial Visor)
- 2016 Medianoche del mundo (Editorial Visor)
alexbrando@libero.it
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