FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 47
luglio/dicembre 2017

Mezzanotte

 

COLORE DI CIELO ESTRANEO
Amicizie latinoamericane e un laboratorio di poesia

di Francesco Tarquini



Le poesie qui pubblicate sono una selezione dei testi scritti dai partecipanti a un laboratorio da me tenuto a Buenos Aires nel giugno di quest’anno, per invito dell’Istituto Italiano di Cultura e nell’ambito del Festival Internacional de Poesía di Buenos Aires. La traccia da me fornita è costituita dal mio scritto Colore di cielo estraneo che qui viene pubblicato e che mi è servito da canovaccio per una riflessione sul tema dell’esilio e dell’emigrazione, che i presenti hanno poi sviluppato nella scrittura dei testi che costituiva la parte pratica del laboratorio.


 
Marimé Arancet Ruda

*

Aprender a vivir como el clavel del aire

Juan Gelman

viajar lejos del abrazo
aquel que sencillamente
no está
es
residir afuera

intemperie
ineludible lluviosa adolescente
en una avenida periférica
sin dinero
sin tarjeta
de a pie

matar o morir
eso es estar afuera
para empezar a toparse
con la propia sombra inesperada

allí
aquí
que nunca es de este lado

ah
fuera
donde cada día presente lograra
escaparse del ayer
sin pasaporte legal

citadina en el campo
campesina en la ciudad

andares
pagados
caros

compasiva
me doy el pase y la mano


*

Imparare a vivere come la pianta dell’aria

Juan Gelman

viaggiare lontano dall’abbraccio
quello che francamente
non c’è
è
vivere altrove

intemperie
inevitabile piovosa adolescente
in un viale di periferia
senza soldi
senza biglietto
a piedi

uccidere o morire
questo è vivere altrove
per imparare a sbattere
contro la propria ombra inattesa


qui
che non è da questa parte mai

oh
se fosse
dove ogni giorno presente riesca
a fuggire da quello di ieri
senza regolare passaporto

cittadina nei campi
campagnola in città

va e vieni
pagati
cari

con pietà
do a me stessa il biglietto e la mano


Dayana López Villalobos

*

Tu dirección postal
en mi memoria circula
esperando
que acabe de escribirte
lo que ya sabéis
aunque nunca
me hayáis leído.


*

Il tuo indirizzo postale
circola nella mia memoria
e aspetta
ch’io finisca di scriverti
quel che già sai
anche se non mi hai letto
mai.


*

Un pueblo de carretera
guarda todo tipo de adioses,
bienvenidas, soledades.
Es un museo de abrazos
y esperas.
Tiene toda clase
de curvas peligrosas
y puentes
rotos de nostalgia.


*

Un villaggio sperduto
conserva tutti gli addii,
i benvenuti, le solitudini.
È un museo di abbracci
e di attese.
Raccoglie ogni genere
di curve pericolose
e di ponti
in pezzi per la nostalgia.


Dora Pentimalli

*

Fora terres, fora platja,

oblida't de ton regrés:

no s'acaba el teu viatge,

no s’acabarà mai més

Joan Maragall

El desvelo se puebla de ti
sueños híbridos
de una infancia a la que me asomo
con precaria precisión funámbula

adentro
mar adentro tal vez
tu voz retumba risueña

Desde aquí se oye 
solo
el asfalto crujiente
lengua afilada que afirma
la imposible construcción de Babel.

Somos divisibles sí
al infinito.


*

Lontano da terra, dalla riva lontano,

dimentica il ritorno:

non ha fine il tuo viaggio

non avrà fine mai più

Joan Maragall

Di te si popola l’insonnia
sogni ibridi
di un’infanzia alla quale
con precaria precisione funambola
m’affaccio

dentro
in alto mare forse
risuona sorridente la tua voce

Da qui solo
si ode
l’asfalto stridente
lingua affilata che dichiara
impossibile costruire Babele.

Siamo divisibili sì
all’infinito.


Rocío Vautier

HAIKUS DEL DESTIERRO

Aterrizo nueva
testigo de paz ajena
más de un nacer. 

Extraño cielo
aire de otro sabor
ojos vírgenes.

Palabras enigma
camino entre voces
descifro labios. 

Anhelo regresar
busco la similitud
y solo el agua.


HAIKU DELL’ESILIO

Nuova qui atterro
testimone di pace altrui
più che una nascita

Strano cielo
aria d’altro sapore
sguardo vergine

Enigma le parole
cammino tra le voci
leggo labbra.

Anelo il ritorno
cerco somiglianza
e solo l’acqua


Liliana Velandia Calderón

HOCICO EXTRANJERO

A Luca Calderón de la Barra

¡Mi perro, mi perro!
¿De dónde es mi perro?
Caminaba por la carretera con hocico de extranjero

Detener el carro o pasar de largo es un asunto existencial posmoderno
hay que atreverse
tener mucho ovario
o el término medio:
crear el trancón
Uno más entre tantas rutas atestadas de ensoñaciones y rabias
la queja muerta de cada día
¿Qué es un trancón sino la curiosidad del inútil?
Que no salvará a nadie bajándose de su auto
que no pasará de largo porque le llama a su curiosidad pobre empatía.

Ladraba
lo oía a kilómetros y kilómetros de fronteras
me detuve desde que se tiró encima

Es mi auto
es mi perro
Pudo elegir otro pero fue mi capot blanco
negro y rojo

¿de dónde es mi perro?
¿de quién?
me preguntan aquí y allá
repiten
¿de dónde? ¿de quién?
Es mi perro
renació en mí de un salto.


MUSO STRANIERO

a Luca Calderón de la Barra

Il mio cane! il mio cane!
Di dov’è il mio cane?
Andava per la strada con un muso da straniero

Fermare la macchina o passare oltre è una questione esistenziale postmoderna
bisogna osare
avere ovaie di ferro
o seguire la via di mezzo:
provocare un ingorgo
un altro nel viluppo di tante strade gonfie di fantasie e di collere
la morta lamentela quotidiana
Cos’è un ingorgo se non curiosità per il buono a nulla?
Che se scende dalla macchina non salverà nessuno
che non passerà oltre perché ad incuriosirlo è una ben scarsa empatia.

Abbaiava
lo sentivo al di là di chilometri e chilometri di frontiere
mi fermai fino a che si gettò addosso

È la mia macchina
è il mio cane
Poteva sceglierne un’altra ma è stata la mia carrozzeria bianca
nera e rossa

di dov’è il mio cane?
di chi?
mi chiedono qua e là
ripetono
di dove? di chi?

È il mio cane
dentro di me è rinato con un salto.



Marimé Arancet Ruda
è nata a Buenos Aires nel 1967. Già all’età di otto anni inizia a scrivere, secondo quanto lei stessa afferma, come “apprendista scrittrice”, e i frutti di questo apprendistato cominciano a vedere la luce nel 2008, con il libro di poesia De cómo el mar entre orillas trae hojas del epistolario nunca escrito entre Iseo y Tristán. Seguono a questa altre raccolte poetiche e l’inclusione nell’antologia del 2012 Invocaciones. Cuatro poetas en la voz del mito. Uno dei suoi libri, Y fue Troya, del 2014, è stato adattato in forma di opera teatrale e messo in scena nel 2015 e 2016. In questo stesso anno alcuni suoi testi vengono tradotti in italiano dal poeta Davide Rondoni e pubblicati sulla rivista ClanDestino. Attualmente, oltre a una raccolta poetica ancora inedita, sta lavorando a un nuovo libro dal titolo Lo que las chicas callan.


Dayana López Villalobos
è nata nel 1981 in Venezuela, a Maracaibo, dove ha condotto studi di Comunicazione sociale, studiando poi Disegno editoriale a Cuba e Pratiche Sociali di Lettura e Scrittura a Buenos Aires. Esordisce con Iracunda, una raccolta di poesie del 2012, e successivamente vari suoi testi vengono pubblicati in antologie. Dal 2007 vive tra il Venezuela e Buenos Aires, dove oltre che nella scrittura è impegnata in attività sociali di quartiere e di natura culturale, essenzialmente con laboratori su vari aspetti della creatività per bambini e ragazzi. In queste attività agisce come militante del collettivo venezuelano La Mancha, tra l’altro come promotrice del Festival de Poesía Realenga, recentemente tenutosi a Buenos Aires. Nel 2014 e 2015 ha collaborato all’organizzazione del Festival Internacional de Poesía de Venezuela. Per questo suo vivere fra due paesi, afferma di avere “il corpo a Buenos Aires e l’anima in Venezuela”.


Dora Pentimalli
è nata a Barcellona nel 1968, da genitori argentini di origine italiana. Laureata in Lettere Moderne a Roma, dove ha compiuto gli studi, risiede da quasi quindici anni a Buenos Aires. Ha insegnato nei corsi di Arte e Cultura della “Dante Alighieri”, è stata docente di Teoria letteraria presso l’Università di Morón, e ha eseguito numerose traduzioni dall’italiano, in particolare di documentari e sceneggiature cinematografiche. Nel 2011 ha conseguito il Diploma de Estudios Avanzados en Cultura y Sociedad della Università Nazionale di San Martín. Attualmente è responsabile della gestione culturale e relazioni internazionali dell’Istituto Italiano di Cultura. È autrice di due saggi sull’avanguardia spagnola, e suoi testi poetici sono stati pubblicati dalla rivista Apofántica.


Rocío Vautier
è la più giovane del gruppo, nata 23 anni fa a San Carlos de Bariloche, città del sud dell’Argentina sul grande lago Nahuel Huapi. Vive a Buenos Aires e da quattro anni si dedica alla scrittura, privilegiando la forma breve e la poesia. Nel 2016 ha pubblicato Pulpa, un libro in cui si fondono la poesia e la fotografia, altra forma di creatività alla quale si dedica e che approfondisce frequentando Arti Visuali presso l’Università di La Plata. “La parola, la fotografia, il cinema e la musica sono i miei pilastri – dichiara –: storia, significati, metafore, luce, movimento, suoni e voci”.


Liliana Velandia Calderón
è nata nel 1989 a Santander, in Colombia. Laureata in Letteratura, inizia ben presto la sua attività poetica, e partecipa con sue relazioni a vari congressi, fra i quali il VI Congresso Internazionale della Cattedra UNESCO nel 2011. Suoi testi poetici sono pubblicati da varie riviste, fra le quali Palabra Realizada, edita dall’Università di San Martín. Sulla stessa e su altre prestigiose riviste, come Lingüística y Literatura, pubblica dal 2012 al 2015 vari saggi di ricerca letteraria. Negli stessi anni è docente di letteratura e di teatro, e fa parte come attrice del collettivo Esquinofrenia Teatro. Realizza performances collettive e individuali sia in Colombia che in Argentina, e nel 2015 si trasferisce a Buenos Aires, dove consegue la Maestría en Escritura Creativa e dove attualmente vive. Accanto all’attività poetica, che oggi comprende un libro inedito e uno in corso di elaborazione, conduce con assiduità laboratori di scrittura.




Nota al mio testo “Colore di cielo estraneo”

Colore di cielo estraneo è un verso del grande poeta argentino Juan Gelman, tratto da un libro da lui scritto nel 1980. Nel 2014, sul numero 33, in occasione della sua morte, Fili d’aquilone pubblicò una mia nota, che di recente ho integrato nel presente scritto nel quale sviluppo il rapporto e il confronto fra l’esperienza d’esilio vissuta da Gelman e quella migratoria che fu l’asse portante della vita di un grande ispanoamericanista, Vanni Blengino, maestro e amico indimenticabile scomparso nel 2009.



COLORE DI CIELO ESTRANEO


Color de cielo otro è un verso del libro che dopo cinque anni di esilio e di silenzio il poeta argentino Juan Gelman, uno dei maggiori dell’America Latina, scrisse a Roma nel 1980. Colore di cielo estraneo, cielo di un paese in cui non siamo nati e sotto il quale ci tocca vivere. Sapore ferroso dell’esilio, forma estrema del vivere altrove come sradicamento di sé.

Forse che non è lo stesso cielo? No, non è lo stesso… Non è lo stesso sole? No: forse che illumina Buenos Aires? Sì, ma ore più tardi, e io non ci sono più. Colore di cielo estraneo, pioggia altrui, luce che la mia infanzia non conosce.

Il libro è Bajo la lluvia ajena, sotto la pioggia altrui, pubblicato per la prima volta nel 1984, e che ha come sottotitolo Note in margine a una sconfitta.
Nel 1975 Gelman, militante della sinistra peronista, spinto dai suoi stessi compagni che temevano per la sua incolumità, aveva lasciato l’Argentina ed era arrivato in Europa con l’obiettivo di continuare da qui, per mezzo della stampa, la lotta contro l’azione repressiva che si stava esercitando nel suo paese, annuncio della feroce dittatura che si sarebbe instaurata l’anno seguente.

È un poeta riconosciuto e un giornalista influente. Roma è la prima tappa del suo esilio. Il colpo di Stato del ’76, il sequestro di suo figlio Ariel con sua moglie, che vanno a ingrossare la tragica schiera dei desaparecidos, lo colpiscono dunque con il tremendo incubo di una non colmabile lontananza.
Impotente di fronte alla sventura, Juan a Roma non fu solo. Trovò calore e amicizia. In diverse persone fummo testimoni della sua tragedia personale, della sua passione politica, del suo intenso lavoro poetico. Eravamo un piccolo gruppo di latinoamericanisti riuniti attorno a una luminosa e inquieta figura di intellettuale, Vanni Blengino, docente presso l’Università di Roma.

Dalle natìe Langhe Blengino era emigrato con la sua famiglia in Argentina nel 1949, a 14 anni. A Buenos Aires aveva vissuto la sua formazione esistenziale e culturale, prima come adolescente al primo contatto con un paese straniero, e più tardi come studente della Facoltà di Filosofia e Lettere di Buenos Aires.
Colleghi e amici del Tano Vanni – così veniva affettuosamente chiamato, dove tano sta per italiano, un diminutivo che può assumere sfumature diverse – furono vari giovani talentosi, eclettici, eterogenei, destinati a formare nel tempo una incisiva élite intellettuale. Ricordo, fra gli altri, quelli che divennero suoi amici per la vita: León Sigal, critico letterario, fine saggista, Emilio de Ipola, filosofo e sociologo, Eliseo Verón, semiologo, Sofía Fisher, linguista, Jorge Lafforgue, scrittore e critico letterario, Oscar Masotta, semiologo, critico d’arte, diffusore degli insegnamenti di Jacques Lacan in Argentina e in Spagna; e Liliana Huberman, psicoanalista, che fu la sua compagna di molti anni nell’ultima parte della sua vita.
Chiudo qui una enumerazione che potrebbe essere più lunga. Non so se qualcuno abbia scritto una storia di quella generazione che ha impresso la sua orma nella cultura internazionale, e alla quale idealmente dedico questo scritto.

A 28 anni, nel 1964, anche in seguito alle alterne vicende economiche della sua famiglia, Vanni Blengino tornò in Italia, prima a Torino e successivamente a Roma dove per quasi 40 anni fu professore di letteratura ispanoamericana. Visse dunque a Roma, tuttavia viaggiava frequentemente in Argentina per i suoi studi e per gli impegni culturali; ma anche per incontrarvi gli amici, per ritrovarvi gli affetti, le riunioni conviviali, gli asados, come seguisse una sua instancabile vocazione di emigrante che fece infatti di lui un ponte sull’Oceano, intellettuale di due culture.

Sono in grado di dire che l’amicizia fra Gelman e Blengino fu un capitolo, minore ma di singolare intensità, della vita culturale romana di quegli anni. Fu la relazione fra due persone che attraverso esperienze differenti, l’esilio per l’uno e l’emigrazione per l’altro, conoscevano bene, entrambi, il senso delle parole “colore di cielo estraneo”.
Entrambi fecero di questo colore l’asse di un libro, Juan di quello che ho citato, Vanni della sua autobiografia di emigrante. Entrambi sono morti. Prima Vanni, nel settembre del 2009. Poi Juan, nel gennaio del 2014, in Messico, dove aveva vissuto i suoi ultimi anni. Nel lavoro di ciascuno di loro si rivela, in forme diverse, una ricerca di identità. La ricerca dell’esule che si guarda dentro e si interroga, nel caso di Juan, al margine di una sconfitta; e in Vanni la ricerca di uno che è partito, è tornato, e al ritorno si è accorto di portare sulle spalle due lingue e due mondi.

Accadeva che queste diverse esperienze si incontrassero facendosi oggetto di appassionate conversazioni. Frequentavamo infatti la casa di Juan, dove viveva con l’incantevole compagna cilena Carmen Waugh, nota gallerista d’arte contemporanea, in incontri conviviali in cui il piacere di condividere un vino, un piatto – Vanni e Juan erano entrambi cuochi eccellenti – si mescolava alla riflessione sul presente oscuro dell’Argentina e il suo ancor più oscuro futuro. Juan ci leggeva poesie. A Vanni dedicò uno dei testi più noti di Bajo la lluvia ajena, la Nota XXVII:

dal possibile al probabile/dal
sogno alla realtà ci sono come
mari/spiagge notturne dove
animali col becco spolpano
forme bagnate dai succhi
del cuore/così/viaggiamo
dal petto al sole asciutto che indora
la meraviglia/o esistere

Pur nella temperie dolorosa di quel periodo, Juan non dimenticava la sapienza del lasciarsi vivere. Emanava da lui una amichevole dolcezza, che dava uno speciale brillìo al suo sguardo ironico e carezzevole al tempo stesso, con quegli occhi che si stringevano un po’ per guardarti, come se volessero proteggersi dal fumo dell’immancabile sigaretta. Aveva finito per amare Roma nonostante l’esilio. Amo questa terra straniera per ciò che mi dà, per ciò che non mi dà, scriveva; e purtuttavia non perdeva la coscienza della sua estraneità, della nostra stessa estraneità in relazione a lui, al di là, o al di qua, dell’amicizia.

Non c’è dubbio che quel tratto affettivo del suo comportamento fosse uno degli aspetti di una leadership carismatica, che però era fatta anche di una volontà che non mirava certo ad aggirare gli ostacoli ma piuttosto ad infrangerli, e che si esprimeva nelle forme di una certa durezza autoritaria proprie di un capo militare. Queste cose insieme fecero di lui un punto di riferimento non solo per gli amici italiani, ma anche per un’ampia comunità di esuli: cioè, secondo l’ironica definizione del regista argentino Fernando Birri, per quella “nuova razza di mutanti” che andava nascendo in Europa.

Anche Vanni Blengino fu un leader. A suo modo. Non possedeva il carisma del grande poeta combattente; non aveva responsabilità politiche né mai le cercò. La sua forza d’attrazione si manifestava nel dialogo, nel modo di porre e porsi domande, sulle quali c’era un bel po’ da lavorare per trovare risposte. O non trovarle. L’interrogare in primo luogo se stesso fu sempre uno dei pilastri del suo pensiero e del suo insegnamento. Il suo modo di insegnare si basava su un gran rispetto per gli studenti, su una grande apertura e generosità. Ciò di cui più gli importava non era insegnare certezze, ma educare alla riflessione e all’analisi.

Collaborai per alcuni anni ai suoi corsi universitari, che allora erano più che altro dei laboratori aperti. Ci sedevamo accanto agli studenti intorno a un grande tavolo, e in questo spazio confidenziale si leggevano e si commentavano testi in un continuo circolo dialogico.
Il mondo accademico gli risultava stretto, asfittico, e dunque privilegiò sempre l’insegnamento rispetto alle logiche e alle esigenze della carriera.
Gli piacevano il buon cibo e il buon vino in compagnia degli amici, le conversazioni fino all’alba, le passeggiate per i boschi in cerca di funghi, sui quali sapeva tanto come sulla letteratura, la storia, la filosofia.

Il 1980 fu un “annus horribilis”. Reagan fu eletto presidente degli Stati Uniti, scoppiò la guerra fra Irak e Irán, in Italia si scatenò il terremoto che distrusse l’Irpinia e si verificò una serie di atti terroristici che culminò nell’attentato alla stazione di Bologna, con 85 morti.
L’Argentina era in mano alla dittatura militare. Oltre alla sparizione di suo figlio e di sua nuora, Juan aveva sofferto la morte di amici come gli scrittori Rodolfo Walsh, Paco Urondo, Haroldo Conti; e lo stesso movimento montonero cui aderiva lo aveva condannato a morte per la sua opposizione al ritorno in Argentina degli espatriati, che considerava suicida.

Nell’aprile di quell’anno organizzammo insieme a lui una “Settimana della cultura latinoamericana”. Fu un insperato successo per la quantità di persone che assistette agli spettacoli teatrali, alle mostre d’arte, di videotapes, di fotografia, alle proiezioni cinematografiche, agli incontri di poesia. Parteciparono artisti plastici come Joaquín Roca Rey, cineasti come Fernando Birri, Raúl Ruíz, Gerardo Vallejo. E gli scrittori e i poeti, Eduardo Galeano, Ernesto Cardenal, Osvaldo Soriano, Mario Benedetti. E anche, naturalmente, molti esiliati.

Fu una grande esperienza, che permise l’approfondimento del tema dell’esilio e delle modificazioni che produceva non solo sul ruolo degli intellettuali, ma anche sulla vita quotidiana di una gran massa di persone sprovviste di ogni prestigio sociale e che erano state costrette ad abbandonare i propri paesi. Insieme a questo si discusse molto dell’immagine idealizzata dell’America Latina costruita negli anni dalla cultura progressista europea: il mito dell’America Latina terra promessa della rivoluzione, e dunque luogo deputato dell’utopia. Con tutti gli equivoci e la falsa coscienza che ne derivarono. Intanto era uscita in traduzione italiana Gotán di Gelman, che ottenne il Premio Mondello, e si pubblicava in Spagna Hechos y relaciones.

Da parte sua Blengino lavorava alla creazione di Letterature d’America, una rivista universitaria di grande spessore oggi al suo trentasettesimo anno di vita, della quale fu sempre uno dei principali animatori. Uscì nell’inverno del 1980 il primo numero, con scritti di Dario Puccini su Carpentier, Luisa Pranzetti su Cabeza de Vaca, Rosalba Campra su Cortázar, io stesso su Vargas Llosa. Il saggio di Vanni si intitolava Modelli e frontiere nell’élite argentina. Un testo imprescindibile, che ben illustrava il suo profondo interesse per il concetto di frontiera secondo la teoria di Jurij Lotman, legato a quello di locus, l’ambito fisico e spirituale in cui risiedono le radici e l’identità.

Posso dire con certezza che la suggestione lotmaniana pareva fatta apposta per Vanni Blengino. Un’idea di frontiera che non è soltanto strumento di identificazione e lettura di modelli culturali, di singoli testi, di eventi storici, ma anche luogo fisico nel quale vengono a mescolarsi avventura, sfida, speranza: le vicissitudini individuali non meno che la storia collettiva. La frontiera è dunque un riferimento costante delle ricerche e degli scritti di Blengino, parlino essi di Borges, Quiroga, Arlt, o trattino dell’emigrazione italiana nella letteratura argentina, o della violenta sopraffazione degli indios in quella “guerra del deserto” da lui narrata ne Il vallo della Patagonia, che ne ricostruisce gli eventi e ne mette in luce i riflessi sulla produzione letteraria.

Più volte nella sua vita Vanni incontrò le sue frontiere. Nell’emigrazione. Nel ritorno in Italia. Nel lavoro culturale. E infine nella forma di un’autobiografia: Ommì! L’America, pubblicato nel 2007, due anni prima della morte. Con questo libro egli varcava l’ultima frontiera, lasciando finalmente che uscisse alla luce una vocazione di scrittore che la sua naturale reticenza aveva finora lasciato in disparte. Questa vocazione aveva rappresentato tuttavia il filo conduttore della sua vita, parallelo alla sua storia di intellettuale. Lo dimostra, del resto, la sua capacità di far emergere nei suoi scritti personaggi di straordinaria vivezza, la sua attenzione alle singole vite, quelle ad esempio degli emigranti italiani di terza classe che appaiono nel libro Oltre l’Oceano.

Sì, fu questa per Vanni l’ultima frontiera: dalla memoria alla scrittura. Nella sua autobiografia di emigrante, storia di un’educazione sentimentale e culturale, egli trovò finalmente il senso pieno di quella esperienza: se è vero, come è vero, che un testo letterario non è propriamente un mezzo per comunicare esperienze, ma il mezzo in cui l’autore realizza quelle esperienze fino in fondo e ne scopre attraverso la scrittura la pienezza e la profondità di senso.

Ommì! Nel dialetto piemontese di Vanni indica una specie di rassegnazione accompagnata da un sospiro di sconforto. Ommì! L’America, fu l’unico commento di sua nonna, così racconta, nello scoprire che tre dei suoi figli, suo genero e il suo unico nipote stavano per emigrare in Argentina.
All’ombra di quell’ommì sconsolato, il nipote si preparava al viaggio. E lo racconta, oggi, prestando al proprio io adolescente la sua coscienza attuale di un’identità raggiunta: la realtà narrata illumina l’esperienza vissuta e ne svela il senso.

La gente, il paesaggio, la lingua perdevano la loro solidità fisica e temporale. All’improvviso cessavano di essere qualcosa che era lì, da sempre e per sempre, su cui potevo comunque contare. Dovevo rassegnarmi a considerare la mia coscienza un recipiente da svuotare di tutti i contenuti che le erano familiari, dal paesaggio alla gente, per sostituirli con ricordi, immagini. Il mio corpo era lì, ma era come se appartenesse ad un altro, a uno che stava per scomparire.
Sapevo che il vuoto che si creava dentro di me con il tempo sarebbe stato colmato con altri amici, altra gente. Tuttavia le vaghe premesse del futuro erano per ora anticipate dalle dolorose rinunce nel presente. Chi sta per intraprendere un viaggio di tale portata, vive un’esperienza che lo avvicina alla letteratura, all’arte. Qualcosa di analogo a ciò che nella critica letteraria si chiama straniamento: la tecnica di osservare, come se si vedessero per la prima volta, oggetti che ci sono familiari.

A Buenos Aires, trascorsi i primi tempi di quasi programmatica ostilità, sopravviene la curiosità nel giovanissimo immigrato il quale, dopo la repulsione e il rifiuto iniziali, finisce per sentirsi attratto e incantato dalla metropoli. L’adolescente piemontese si trasforma in un giovane studente che nasce alla cultura e col tempo si trova coinvolto in una fitta rete di relazioni umane.
Occorre tener presente che Vanni non veniva da una città importante, come Torino, ma era nato a Monforte, un paesotto di contadini e viticultori nella zona collinare delle Langhe, a quell’epoca zona di sottosviluppo. Per un giovane intelligente e curioso, quella città estesa, brillante, varia, vivace, fu come l’occasione di una nuova nascita. Nuova nascita la cui gestazione inizia con l’apprendimento della lingua, che gli consente di farsi interprete dei suoi genitori, e dunque ponte fra loro e il nuovo paese.

Ommì! L’America possiede dunque tutti i caratteri di un “romanzo di formazione”. Che narra la conquista di un’identità complessa in cui convergono, come l’autore racconta, tre identità diverse.

Anche se mi inserivo nella mia personalità argentina, l’altra mia identità, l’altra mia storia perdurava attiva e presente, con la variante che non erano soltanto gli altri ad osservarmi, mi osservavo anch’io. Potevo sdoppiarmi in un io argentino, in un io italiano e forse un terzo, più occulto, più difficile da far emergere, un io che osservava gli altri due.

Un’inquietudine costante, dunque, seppur compensata dalla vitalità, dalla avidità, direi, che guida il giovane straniero alla conoscenza del mondo che lo circonda e che gli va diventando sempre meno ignoto. E che tuttavia mentre parla di se stesso non trascura di dar conto delle difficoltà, delle paure, delle incapacità, dei fallimenti di tanta gente di fronte alla quale è una minoranza quella che sopravvive.

Vivo in Messico di mia volontà – dichiarò Gelman in un’intervista, molti anni dopo quel 1980. – Sono un fuoriterra, non un esiliato. Traduco con questo povero neologismo quel trasterrado, efficacemente creato da Juan, nel quale si depositava la lunga storia di colui che aveva viaggiato senza ritorno e aveva infine trovato il proprio cielo sotto un cielo diverso, amando quest’ultimo senza dimenticare il primo.
Come per il due volte emigrante Vanni Blengino, anche per l’esule politico Juan Gelman il ciclo si è compiuto. Il cielo estraneo non è più l’immagine di un dolore senza risposta. Da qualche parte, sussurrate, risuonano ancora le serene parole di Epitteto:

Esilio? E dove qualcuno può esiliarmi? Fuori del mondo è impossibile. E dovunque io vada, là ci sarà il sole, ci sarà la luna, ci saranno le stelle, i sogni, i presagi, i rapporti con gli dei.


tarquini.francesco@fastwebnet.it