I
le ore che portano
al più grande di me
sono qui
fu il fuoco a crescermi
per rossa vocazione
– perdutamente intenta a perdermi –
fuoco col quale giocai bambina
col primo fiammifero trovato per terra
la sorella quella innocente
– gonna vichy e capelli d’oro alla Bardot –
non volle entrare nella parte
di Satana né dell’angelo spennacchiato
consegnato a carnevale
s’un tratto di scalini
ghiacci e necessari
lei non aveva che baci doni fughe
ahi disse le trappole
così vicine inodori
non sono cose che si spiegano
II
non amava quel gioco
preferiva il bianco
i dialoghi muti
le fiabe orientali nel meriggio inoltrato
– meglio che voi lo sappiate –
sognava un ragazzo
di nome Charlie
uno sventurato ragazzo di nome Charlie
– giuro sul mio primo capello bianco
non un nome inventato –
anche la neve rende l’idea
di quanto conta il primo amore
e infine che noia l’eros tracimante
porta al suicidio insano e borghese
ma il rosso l’attirava
e fu lei per prima
– configurata dal fuoco –
a bruciarsi
III
fu la sera del
Rodano che s’infuocò
come alla Festa delle Luci
l’otto dicembre
pompieri in affanno bocchettoni schiacciati
si perse molto tempo
molto molto tempo
vidi un uomo tra le fiamme
dove era e non era dove
nel vortice-danza
danzammo con lui baroni rampanti
pur di salvarlo
no disse con strana guardatura
fine del gioco
questo bagliore è terminale
lingue rosse e rosse piaghe
lente ustoria lo trattenne
IV
a distanza di anni
– nervi ancora saldi –
provo strano affetto
per le bimbe dei fiammiferi
ma non sopporto l’odore del fumo acre
molto è stato perduto
dei luoghi amati
neppure il pozzo adesso è rimasto
ma sa dove ritrovarlo
la traccia del cerchio è ancora lì
davanti al vecchio fienile
riempita di cemento
e l’odore dell’acqua stagnante
sorregge ancora la barca degli scandali
legata col cordone ombelicale
del chiodo antico
che ha indossato ruggine
unico relitto incandescente che appare
in preda a sortilegi
a misurare l’assenza
a comporre le solite canzoni infernali
V
a ogni abbandono un guaire d’insetto
che s’impala allo stelo
ma ho la grazia dell’ombra
nel sonno abito certi nomi
reggo i talloni della follia
in una collera secca di spine e di squame
liquami della saggezza
svuotati nei bauli delle conquiste
non è così male
lasciatemi così
un po’ ci so fare
se non ponete troppe domande
su come ci si orienta nel buio
o nella nebbia
il fuoco fatuo talvolta
viene in soccorso
questo fa sì che smarrirsi
non è poi tanto grave
la fiamma
non può allontanarsi del tutto
non è che l’ultimo verso
dell’ultimo capitolo.
VI
l’inverno
– perché qui nevica l’inverno
e nessuno ci fa caso
tranne elfi maghi nani e streghe –
alcuni stridori di corvi
che inquietano appena
l’inverno dicevo
si trasforma tutto magicamente
accendo la lampada labile
che mi fa accedere ai segreti
colti sull’acqua del greto
e la febbre mi prende
ma non è quella febbre d’altri tempi
che faceva smarrire la strada della scuola
è quel braccio di fuoco che non seppe fermarti
e si perse nel vortice
del dolore che implora
VII
cerco una misura elastica per vivere
nella crudele certezza dell’ esserci
evitando sogno e memoria di città odiate
– col grigio necessario a farmele odiare –
tutto l’arsenale dei luoghi comuni
poi m’arrendo alla fiamma del sole
scolpito nella meridiana d’una città di mare
e torno al gioco primitivo ultraterreno
del disorientamento
nell’ombra di fontane
cinguettanti nel loro eccessivo
desiderio di recitare
se il frangente è grave e difficile
m’invento una scia ancora valida
di promesse lanose
di parole non troppo acquose
e poi – lo capite –
tra nastri d’insonnia
il corpo s’increspa
senza pianto né violenza
sono questa figura esile
che pur sorridendo s’accartoccia.
VIII
qualcuno saprà
che per analizzare il fuoco
dovrebbe entrarvi da dentro
come nella polpa dell’esperienza
evitando ogni domanda
poi le fiammelle delle nostre ambizioni
le scimmie della nevrosi
mai esibita fino in fondo
per chissà quale pudore
alzeranno le spalle
tra incensi di zagara
fumo mistico
senza chiedere che cosa verrà dopo
senza chiedere
senza…
IX
un fiammifero
cadde da un sole di gramigna
superò gli strati del cielo
mosso e variegato
per il solo piacere
di ritrovarsi mosso e variegato
ma quando il tuo volto diventò brace
non vi fu abisso
così profondo
ad accoglierlo
e noi non corriamo
attorno al fuoco
noi – guarda quant’è buffo –
mica lo sappiamo
dove corriamo
non è nostra abitudine
chiedere e meno ancora
sgomitare
X
ciò che rivela il fuoco
nessuno lo sa
e dopo la rappresentazione
ciascuno guarda
il passaggio quieto della pioggia
che mai deraglia
– perché bisogna viverle le cose
meglio se con lentezza –
nell’ora buona dell’amore al risveglio
nella prima scialbatura del mattino
nell’ora cattiva delle cesure illogiche
dei volti nascosti nel gelo della loro condizione
si continua a guardare la goccia
che dal vetro s’inventa una strada
una di quelle strade sterrate
senza segnaletica che porta
dal visibile all’invisibile
senza un brivido d’impazienza
senza progetto particolare
per noi che viviamo di disincanto
senza aver cercato
ipotesi maggiori
andiamo solo a dissetarci
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