Dice Thiago de Mello: «Il fiume parla all’uomo. Succede che la foresta non può parlare. La foresta non cammina. La foresta resta dov’è. Resta alla mercé dell’uomo. Per questo da quattro secoli l’uomo fa della foresta ciò che vuole, sempre che gli sia possibile. Con essa e con tutto ciò che vive in essa, dentro di essa. La foresta consegna ciò che ha. Sono secoli di offerta di ciò che la foresta amazzonica ha di buono per la vita dell’uomo della regione e delle più lontane parti della terra. Soprattutto per gli uomini dell’Europa e dell’altra America, che sono, nel corso della scura storia dello sfruttamento dei beni naturali dell’Amazzonia, coloro che hanno meglio usufruito e più si sono arricchiti con le ricchezze della nostra foresta».(*)
Attesi ansiosamente che trascorressero quattro anni, prima dei quali non potevo avviare la richiesta di naturalizzazione. Quando comprai una casetta, mia madre non si allarmò, ma entrò in panico quando le parlai dell’intenzione di naturalizzarmi brasiliana: deve avervi intravisto implicazioni più inquietanti del semplice procrastinare il rientro in Italia. Avviai la pratica da Roraima. Nonostante non operassi più attraverso di essa, venivo identificata con la chiesa, che di locale aveva ben poco, essendo preti e suore quasi tutti italiani. A livello nazionale, la chiesa cattolica rivendicava i diritti degli indios a partire dalla demarcazione delle terre, che era però interpretata come tentativo di internazionalizzazione delle terre stesse. I missionari stranieri erano accusati di ingerenza in politica interna, di attentare alla sovranità nazionale, di essere agenti al soldo dei paesi interessati allo sfruttamento dei giacimenti minerari, purtroppo situati nelle terre indigene. Per i supposti vincoli con la chiesa e per essere indigenista in uno stato di frontiera, la mia richiesta di naturalizzazione non venne accettata.
Durante un gioco eseguito sotto a un mango pieno di frutti, intorno a un tavolo con bicchieri pieni e bottiglie vuote di birra, un amico mi paragonò a una tartaruga. Trascorse qualche anno. Mi ritrovai in Brasilia. Fingendomi bibliotecaria, avviai una nuova richiesta di naturalizzazione. Avvalendomi dell’amicizia che mi legava al figlio, chiesi la collaborazione di un alto funzionario del Ministero della Giustizia. La mia situazione specifica era cambiata, ma anche i tempi. Comunque, per non correre rischi, il funzionario inserì il mio nome nello stesso documento in cui si chiedeva di concedere la naturalizzazione a un professore spagnolo che gli accademici volevano rettore dell’Università di Brasilia; senza di essa non avrebbe potuto assumere l’incarico, ma il movimento di opinione creatosi fece sì che pressioni politiche convincessero i burocrati a non fare storie e a chiudere rapidamente la pratica. Grazie al passaggio offertole a bordo dalla fuoriserie, questa volta la tartaruga arrivò velocissimamente a destino.
Lo straniero si nutre di precarietà, ma quando il suo operato ha contorni politici deve ingoiare rospi, ricatti e minacce. Non mi turbava l’idea della morte o della galera, ma quella, senz’altro più concreta, dell’espulsione. Con la naturalizzazione mi tolsi di dosso il tenebroso manto. Per partecipare alla cerimonia della consegna del certificato indossai un abito color del sole. Avrei voluto qualche amico accanto per condividere l’emozione, ma tutti avevano qualcosa di vitale da fare quel giorno: attualizzare un saggio inerente al suicidio fra i Kaiowá, presentare proposte per la legislazione indigenista alla commissione parlamentare preposta, portare avanti un dossier sull’invasione delle terre, indire una conferenza stampa per denunciare casi contingenti, accompagnare rappresentanti di popoli indigeni durante contatti con autorità politiche e giudiziarie. Durante la cerimonia, gioia e emozione si mescolarono aiutandomi a identificare il senso vero del mio gesto. La naturalizzazione era affermazione di identità: rifiuto di appartenere a una società che accumula superfluo rubando l’essenziale a intere popolazioni; desiderio di schierarmi, anche in termini burocratici, accanto a chi la violenza la subisce; identificazione culturale con l’America Latina. La nuova condizione di brasiliana mi avrebbe permesso di dire, con orgoglio, che sono latinoamericana per scelta.
Corsi a scrivere l’ennesima denuncia. L’euforia, che la conquista della naturalizzazione mi regalò, rese più stimolante il mio lavoro. Lo sfruttamento dei beni naturali dell’Amazzonia, da parte soprattutto degli uomini dell’Europa e dell’altra America, si dà perché oligarchie e politici locali glielo consentono. Occidentali per formazione e influenze culturali, difficilmente questi signori si preoccupano per le sorti della collettività. Per mantenere privilegi e arricchirsi sempre più selvaggiamente, i corrotti vendono il loro paese, la fame della popolazione, la disperazione degli individui, la propria dignità. Sviluppare radici profonde per conquistare la libertà di essere radicali. Naturalizzazione come radici. Essere radicali scrivendo. Fare politica attraverso la scrittura. Denunciare situazioni. Scrivere utopia. In America Latina leggeremo mai libertà?
(*) Thiago de Mello, Mormaço na floresta, Civilização Brasileira e Massao Ohno, Rio de Janeioro,1981, traduzione dell’autrice.
Il brano è tratto dal libro Amazzonia portatile (Manni, Lecce, 2003).
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