FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 41
gennaio/marzo 2016

Calma & Fretta

 

LA FRETTA DI CRESCERE IN VOIVODINA
I racconti di Neven Ušumović

di Ginevra Pugliese e Sanja Roić



Chi vive vicino al confine deve crescere in fretta. Non molto tempo fa si scriveva e si discuteva addirittura sulla “letteratura di confine”. Poi, per qualche anno il concetto sembrava obsoleto, ma recentemente i confini sono risorti come vere e proprie “cortine di ferro”. I giovani cresciuti nella Jugoslavia degli anni ’70 e ’80 sorridevano: non abbiamo nulla a che fare con le cortine di ferro, quelle si trovano negli altri paesi dell’est! I nostri confini erano aperti, ognuno aveva il passaporto e teoricamente poteva viaggiare. Quanti, però, tranne i cosiddetti Gastarbeiter si erano spinti oltre Trieste, metonimia scintillante dell’Occidente? Poi, i paesi dell’est hanno aperto i loro confini, e quei giovani sono stati rinchiusi nel caos della guerra.

Neven Ušumović è nato a Zagabria ed è cresciuto a Subotica, città natale di un classico jugoslavo del Novecento amato da lettori italiani, Danilo Kiš. Lì, sul confine serbo-ungherese Neven ha iniziato a scrivere. Si è laureato in filosofia, letterature comparate e ungarologia all’Università di Zagabria, ma il posto di lavoro l’ha portato a un altro confine, questo però molto presente nella storia, ma meno nella letteratura italiana del Novecento, centrale nei romanzi del grande istriano e triestino Fulvio Tomizza. Dal 2002 Ušumović dirige la piccola e attivissima biblioteca di Umago, cittadina nei pressi del paese natale di Tomizza, Materada, che aveva dato il titolo anche al suo primo romanzo.

Qui, al confine tra la Croazia, la Slovenia e l’Italia Ušumović ha scritto i suoi racconti nei quali s’intersecano una peculiare visione grottesca del reale e un’iperproduzione dei significati tendenti al noir, impigliati in una rete di richiami e riferimenti che toccano la letteratura ungherese, quella serba, croata e altre ancora… e che denotano rapporti sociali e interpersonali in una quotidianità sull’orlo del perverso che però non perde di vista anche il relativamente lontano quotidiano storico.
La cultura ungherese deve a Ušumović le preziose traduzioni in croato di Ádám Bodor, Béla Hamvas, Ferenc Molnár e Péter Esterházy e la cura (in collaborazione) di un’antologia del racconto breve ungherese Zastrašivanje strašila (Intimidire gli spaventapasseri, 2001).

La peculiarità della raccolta Seme di papavero (2009) sta anche nel suo esplicito omaggio allo scrittore, compositore e psichiatra ungherese, nato a Subotica/Szabatka, Géza Csáth (1887-1919) noto per le sue ricerche nella psicoanalisi e sugli effetti della morfina (in italiano: Oppio e altre storie, trad. di M. D’Alessandro, 1985 e il balletto Comedia Tempio, Biennale di Venezia 2002).
Il racconto Nel vagone bestiame collega tre luoghi: la scuola, i luoghi di vita delle famiglie in una cittadina della Pianura Pannonica e la grande industria di prodotti di carne; tre storie: la fretta di crescere dei ragazzi ai margini della società, il rapporto col maestro e la relazione con la coetanea della classe dei privilegiati, Zita; e tre orrendi “buchi neri”: l’olocausto nella Voivodina, la sorte del bestiame chiuso nei vagoni e destinato a diventare la carne consumata quotidianamente, e la crudeltà delle differenze di classe.

Ušumović apre nuovi significati e illumina antiche e nuove pericolose minacce in un mondo apparentemente “in ordine” e “tranquillo”. Il secondo racconto, 29 novembre, richiama la data della festa della Repubblica in Jugoslavia, e anche il nuovo nome della fabbrica di carne Hartmann és Conen Rt., già posseduta dai proprietari ebrei. L’unica sopravvissuta, grazie alla propria identità ungherese, l’ormai anziana, impoverita e addirittura affamata signora Eszter deve firmare, proprio nella locale sinagoga e in data 29 novembre la rinuncia alla proprietà in favore del nuovo consorzio socialista. Le tragedie si ripetono, insegna la storia, e talvolta appaiono nella forma di farsa. I racconti di quest’autore, che continua a vivere la realtà dei confini, aprono nuovi quesiti sulle relazioni e gli intrecci reali e finzionali del bene e del male, non solo quelli del passato.

Sanja Roić




RACCONTI DI NEVEN UŠUMOVIĆ
dalla raccolta Seme di papavero (Makovo zrno, 2009)



Nel vagone bestiame
Il professore Dulić

Ai ragazzini, di solito, le lezioni scolastiche spariscono dal ricordo senza lasciare traccia dopo uno-due mesi. A Ivica la lezione del professor Dulić sull’olocausto restò impressa per tutta la vita. Questo Dulić aveva insegnato nella scuola elementare 25 maggio solo per due mesi, dopo di che Ivica non lo rivide mai più.

Quando comparve in classe la prima volta, poco mancò che alcune ragazzine morissero di paura. Anche se frequentavano ormai la sesta, la storia della lampada magica di Aladino era ancora viva in loro. E Dulić sembrava proprio il genio della lampada magica: alto quasi due metri, muscoloso, pelato, con folte sopracciglia nere e un orecchino appariscente al lobo. Tutto ciò per i ragazzi della periferia di Subotica era scioccante; buona parte di loro veniva dai villaggi circostanti e una cosa del genere era impensabile. Tutto in lui era strano, perfino la lingua. Dulić si era laureato in storia a Zagabria e parlava ijekavo, da lui udirono per la prima volta certe parole e il significato di alcune frasi restò per loro un mistero.

Era l’anniversario di Jasenovac, e Dulić dedicò l’intera ora all’Olocausto. Ivica, dopo quel giorno di scuola, stramazzò sul letto, si rifiutò di mangiare e gli venne la febbre. L’aria intorno a lui si addensava come olio; la stufa che stava nell’angolo della stanza pulsava nei suoi occhi: si gonfiava di fetore che lo spingeva a vomitare e poi si rimpiccioliva come una pupilla che lo guardava fisso immobile. Nella sua testa Dulić stava facendo ancora lezione:

- Di sicuro siete già andati lungo i binari che portano alla fabbrica 29 novembre. Quando io ero piccolo, entravo come voi negli stessi vagoni bestiame, là si può trovare davvero di tutto, sacchi gettati, resti di imballaggi di plastica, abiti già usati anche dai Rom. La ferrovia era il nostro maggior divertimento dopo il calcio, il campo di Čvorkova bara è ancor meglio, non è vero? Là i nostri derby erano il miglior motivo per darsele di santa ragione.

Rideva in modo spaventoso, come se parlasse di qualcosa di poco conto, del destino delle formiche o del propagarsi delle dorifore.

- Ma provate a immaginare o aspettate, una notte, quei vagoni bestiame mentre trasportano i maiali e i bovini, aspettateli davanti alla fabbrica, la loro ultima destinazione.

Forse gli ebrei erano ignari di quello che li aspettava, magari pensavano di andare a fare dei lavori faticosi per dei signori tedeschi perbene, ma gli animali, ragazzi, gli animali lo sanno. Se ascoltate quell’irrequietezza, quel battere contro le pareti, lo scalpitio atterrito che cerca lungo il pavimento scivoloso del vagone di prendere la rincorsa per la fuga, allora potrete percepire sulla vostra pelle qualcosa della lezione di oggi. Alcuni animali gli operai li devono tirare fuori nei modi più brutali, spezzano loro le zampe, li uccidono sul posto.

Dulić entrava nello spazio del loro gioco e lo intaccava. Di tanto in tanto faceva delle pause tra le frasi perché non poteva fermare la sua superiore risata saccente che gli scuoteva il ventre.

- Quante volte siete stati a fare il bagno nel lago di Palić? A qualcuno di voi sarà sicuramente saltato in testa di perlustrarne l’intera sponda o addirittura di piantare la tenda là dove ormai non vanno i bagnanti. Proprio nel lago di Palić confluiscono gli ultimi resti di quegli animali, cari ragazzi, già da cento anni. Quell’acqua poi viene depurata e voi la bevete dal rubinetto. Un tempo si faceva anche il sapone, come anche con i resti degli ebrei, forse lo fanno tuttora, ma ce lo tengono nascosto. Ad ogni modo voi che venite dalla campagna sicuramente lavate le mani con il sapone di grasso di maiale. Lavate, lavate pure, fatemi sapere quando avrete finito! Io le mie non le ho mai lavate.

E come se volesse convincerci, protese le sue dita lunghe e sottili. Il modo in cui le fece uscire convinse Ivica a credere che Dulić fosse un assassino; riusciva a immaginarsele quelle dita intorno al suo collo.

- E che tanfo proveniente dal macello! Voi siete lì che giocate a calcio e all’improvviso nuvole di fetore vi rivoltano lo stomaco! La stessa cosa è capitata agli ebrei che stiamo studiando. Ricordatevelo mentre correte sull’erba invece di vomitare.

E, come diceva Dulić, Ivica vomitò, vomitò per tre giorni e per altrettanti non volle uscire di casa. E, alla fine di tutto, s’indispettì. Respirava la puzza di cadavere, lavava le mani con il sapone, beveva l’acqua del rubinetto, ogni estate faceva il bagno nel lago di Palić e mangiava i paté 29 novembre che a quel tempo, insieme agli altri prodotti in scatola, erano forse i migliori in Jugoslavia.

Dulić a scuola non c’era più, era stato sostituito dalla direttrice in attesa dell’arrivo del nuovo insegnante.


L’allenatore Pinpo

Suo fratello Jerko era già un liceale, ma sulla scrivania al posto dei libri c’erano videocassette di film porno. Jerko e Ivica erano piuttosto trascurati. I loro genitori avevano divorziato e li avevano affidati a una zia che svolgeva un lavoro faticoso con la colla nella fabbrica di scarpe Solid, nel centro di Subotica, vicino alla stazione ferroviaria. Non nutriva un amore particolare verso di loro, solo dovere; d’altronde riceveva anche un po’ di denaro dal comune e dalla sorella.

Jerko aveva un’intelligenza fredda e penetrante. L’amore lo interessava allo stesso modo della tortura e del sezionamento degli animali che Ivica aveva cominciato a portargli.

Si rilassava con i film porno. Ivica qualche volta si sedeva accanto a lui e guardava quello sfregamento di carne, ma quelle scene potevano trattenerlo per breve tempo, di solito quando aveva fame, altrimenti usciva e vagabondava lungo la ferrovia. Gli piaceva seguire la biforcazione dei binari, camminare lungo le diramazioni all’interno della fabbrica finché non arrivava alla recinzione o al portone gigantesco sotto il quale proseguiva la linea ferroviaria. Osservava gli operai che entravano nei vagoni, li spingevano in depositi segreti o nelle rimesse. S’immaginava sempre che scaricassero delle armi segrete, sacchi pieni di veleno che avrebbero sparpagliato per i campi. Quando gli veniva in mente Dulić, s’immaginava solo cadaveri; con il tempo, poiché lui e suo fratello si divertivano di più a torturare le cornacchie, le teste dei cadaveri presero ad avere il becco e i vagoni si riempirono di montagne di penne nere.

Non riusciva a liberarsi di queste visioni; faceva fatica ad alzarsi dal letto; per muoversi pensava a un corpo nudo femminile, elegante e sottile come seta; esso giaceva su un letto di penne nere come il catrame e lo chiamava a sé giocando con le gambe, nascondendo e mostrando i genitali. La bella però aveva la testa di cornacchia, la testa della vittima preferita dei loro divertimenti.

L’unico passatempo normale di Jerko e Ivica era il tennis da tavolo. Ivica era così bravo che il professore lo aveva inserito negli allenamenti della sezione liceale. E la loro unica partner di tutto rispetto era la sedicenne Zita; Jerko la conosceva poco, aveva un anno in più di lui e frequentava la sezione ungherese. Il serbo comunque lo parlava perfettamente, ma si dava così tante arie che quasi non c’era dialogo tra di loro. L’allenatore disse che il padre di lei era un grande comunista e che era il direttore della fabbrica 29 novembre; la madre invece era ungherese, e inoltre una grande benefattrice, disse l’allenatore. Non avevano mai sentito quella parola, pensarono si trattasse di una disciplina sportiva.

Senza molti accordi, decisero di stuzzicare Zita. L’allenatore, che tutti chiamavano Pinpo,(*) cercava di attenuare il conflitto e, per finta, scherniva i ragazzi come se si trattasse di innamoramento. Un giorno Jerko e Ivica si esercitarono giocando con una concentrazione particolare mentre Zita per la prima volta non segnò nessun punto. Pinpo, che però amava più di tutto il tennis da tavolo e poi i suoi allievi, perse il controllo:

- Splendido, splendido, ragazzi, il vostro modo di giocare! Come ricevete bene, che bei servizi! Vengo con voi alle regionali, batteremo tutti. Come siete rossi, fatevi baciare le vostre dolci guanciotte!

Mentre Jerko, Ivica e Pinpo si baciavano, Zita stava vicino alla finestra aperta a prendere aria. Aspettò che tutto si calmasse e poi gettò loro il guanto di sfida:

- Ascoltate, questo tavolo su cui giochiamo non è altro che una schifezza. Venite sabato da me e vedrete come si gioca al vero tennis da tavolo.

E poi piena di rabbia sbottò:

- Bifolchi!


(*) Da ping-pong, tennis da tavolo. (N.d.T.)


La mamma benefattrice

Pinpo quel sabato li accompagnò con la sua Stojadin da Zita; era andato a prenderli al loro quartiere Šandor; i genitori di Zita vivevano proprio dietro la ferrovia, a Kertvaroš. Jerko non aveva voglia di andarci, si sedette sul sedile di dietro e fissava il vuoto. Ivica dovette sorbirsi le stupidaggini di Pinpo.

- Zita è una liceale moderna, di città, non è strano che ne siate innamorati. Eh, quelle sue cosce, le sue chiappe sode, l’innocenza matura! Lei è come un’americana, la cosa più importante per lei sono le gambe, non la faccia o le mani, le gambe sono importanti, bisogna rincorrerle! Andar fuori, fare atletica, il tennis da tavolo è una merda!

Parcheggiarono davanti al giardino che soffocava di rose. La mammina uscì con passo leggiadro ad aprire la porta. Ah, sono questi i ragazzi, jaj de édesek!(*) – esclamò facendo moine e baciando entrambi dritto in bocca. Entrambi si pulirono meccanicamente le labbra con il palmo della mano; bifolchi, bifolchi, borbottò verso di loro Pinpo che fece il baciamano alla signora. Zita li aspettava davanti alla porta come un pistolero. Non si salutarono nemmeno, lei si voltò e sparì in casa.

Sedevano in soggiorno, la signora mamma faceva tintinnare i piatti in cucina mentre Zita, che poco dopo si degnò di entrare, stava lontano, accanto alla finestra, senza alcuna intenzione di voler parlare con loro. Ottima situazione per il chiacchierone Pinpo:

- Eh, se sapeste com’è buona la sua mammina. Quanto contribuisca a questa città! Mentre suo marito si occupa di paté, salami e polpette, lei passeggia per le strade e raccatta i senzatetto, raccatta i bambini affamati, li porta in questa casa che ormai tutti conoscono, chiunque abbia fame può suonare, ah! Io so già che cosa ci dirà: così sono i tempi, Pinpo, così. E come lei vuol tanto bene ai giovani… Più di tutto le piacerebbe aprire una propria scuola, bisogna educare tutti diversamente, demolire le vecchie scuole, soprattutto il vostro liceo, covo di vizi, ih, ih, ih! Ci occorre una rivoluzione morale, così sono i tempi, Pinpo, così! Bisogna ricostruire tutto da capo!

Jerko e Ivica smisero tuttavia di ascoltare Pinpo, Zita accanto alla finestra tirava distrattamente l’orlo dei pantaloncini tra le gambe di lato e si grattava la figa. Era già evidentemente impaziente perché il gioco non cominciava. Le sue cosce brillavano per la tensione, e si estendeva verso i ragazzi il fresco profumo del suo corpo sul quale era appena passata una doccia fredda.

- Zita, basta con quelle gambe. Non eccitare i ragazzi. Istenem,(**) cosa credi, che loro sappiano quel che vedono?! Quante volte ti ho detto che voi ragazze siete molto più mature dei maschi che guardano ancora i film western e giocano a partigiani e tedeschi?! Csajok, csajok…(***) Ah, scusateci, amici cari. Noi siamo forse troppo liberi per questa città. Ma noi viviamo nel presente, non nel passato, noi non gettiamo il letame in mezzo alle piante e non nutriamo i maiali con gli scarti. Concime artificiale, Pinpo, concime artificiale!

Fecondazione artificiale, pensò Ivica, quando infine, dopo mezz’ora di stupidaggini sfidò Zita nella partita, una fecondazione artificiale è quello che ci vuole a questa ragazzaccia.


(*) ah, come sono carini! (ungherese).
(**) Oddio (ungherese).
(***) Ragazze, ragazze... (ungherese).


Zita e Ivica

Probabilmente quelle cosce, quelle gambe furono decisive affinché Ivica facesse di tutto per raggiungere Zita. Cominciò ad allenarsi più seriamente e, insieme, a lusingare Zita; le porgeva le palline, contava i punti, ma al contempo sviluppava anche il suo modo di giocare. Quando voleva stare di più con lei, gli bastava intensificare il proprio gioco negli allenamenti scolastici; insieme giunsero alla stessa conclusione: era colpa del tavolo della scuola, le pessime regole del gioco, lo stupido pettegolo e bavoso Pinpo. Era uno schifoso.

Sempre più spesso giocavano da Zita, la mattina presto, non appena suo padre, che non aveva mai visto, usciva per andare alla fabbrica, tra la carne, e sua madre andava in strada nelle interminabili passeggiate caritatevoli. Zita, sempre nei suoi pantaloncini succinti, con i capelli rossi legati a coda di cavallo e – le gambe, le cosce, le gambe. Oltre il tavolo lo raggiungevano folate di freschezza e gli sembrava che Zita trascorresse sotto la doccia tutto il suo tempo libero. Fantasticava di introdursi di nascosto nel suo box doccia e poi Psycho o un porno, a seconda del suo umore.

Sembrava che Zita fosse tutta presa dal proprio gioco, dalle proprie possibilità. Non la interessavano neanche le gare, ci andava sotto la spinta dell’allenatore e perdeva. Si beava dei propri movimenti, mentre Ivica sosteneva nel miglior modo e spronava quella sua movenza, il gioco della pallina e del corpo. Lei non si annoiava mai, come se vivesse in un eterno mattino, sempre fresca e abbronzata.

Ivica, alla fine, desiderò trascorrere la notte con lei, di condurla nel proprio mondo. Zita, senza scomporsi, accettò il suo invito di incontrarsi alla stazione ferroviaria dopo mezzanotte, all’una. Lei era una ragazza libera, non doveva render conto a nessuno, né alla mamma né al papà.

La zia dormiva profondamente, e Jerko stava dormendo accanto alla TV quando Ivica, ancor prima di mezzanotte, sgattaiolò di casa.

Non aveva una chiara visione su dove portare Zita, vagò per la città, gettò uno sguardo ai lampioni come se potessero aiutarlo a chiarirgli le idee. Arrivò alla stazione con mezz’ora d’anticipo, saltellava per l’agitazione, con i palmi sudati. La notte era tiepida e una coltre di pigre nuvole estive aveva coperto la città. Eppure si meravigliò quando Zita comparve vestita solo con una tutina dai pantaloncini corti. Era allegra come se lo attendesse un’altra partita.

Passarono accanto alla ferrovia. I fini sassolini si conficcavano nelle leggere scarpe da ginnastica e si misero a camminare sui binari. Avanzavano parallelamente. Zita era più veloce e più agile; Ivica procedeva senza fretta, poteva finalmente ammirare in pace le sue gambe che a tratti brillavano al tremolio dei semafori, alle luci di manovra, alle poche automobili e autobus i cui fari arrivavano dalla strada adiacente. In lontananza si udiva il latrare dei cani. Per un po’ furono inseguiti persino da un bassotto inferocito che si gettò alle calcagna di Ivica, ma quest’ultimo riuscì a rispedirlo nel buio rendendogli il latrato con tutta la forza.

Si diressero verso il quartiere Šandor e già s’intravedevano gli impianti della fabbrica e si sentiva la puzza del macello. Zita gli disse brevemente che non era mai stata alla fabbrica del padre, che le faceva schifo. Ivica allora le raccontò della lezione di Dulić. È terribile, disse. Ivica allora sentì indubbiamente di far parte di questo. Gli venne voglia di cercare quei vagoni bestiame pieni di mucche e maiali e costrinse Zita ad ascoltare quello scalpitio atterrito che cerca, lungo il pavimento scivoloso del vagone, di prendere la rincorsa per la fuga.

Andarono per la ferrovia davanti all’ingresso dei magazzini della fabbrica. Il portone era spalancato, e si poteva proseguire con la ferrovia. E davvero, giunsero a una miriade di vagoni bestiame che iniziarono ad agitarsi al loro arrivo: cominciarono strilla spaventose, fracasso, qualcosa che superava le descrizioni di Dulić. Andarono da vagone a vagone: in uno sentirono forti, sordi colpi di corna contro le pareti, in un altro parve loro di sentire lo scalpitio di zoccoli e il nitrire di cavalli, e poi proseguirono in mezzo a centinaia di carri da cui provenivano solo grugniti e strilli. Camminavano lentamente, come in un labirinto, ossessionati, storditi. Zita a un certo punto perse l’equilibrio e si aggrappò al braccio di Ivica. La trasse a sé. Lei lo respinse, puzzi, gli disse, puzzi come il bestiame. Si allontanarono l’una dall’altro alla distanza del tavolo da tennis, Zita aveva assunto di nuovo quella sua posa da pistolero. Guai se ci provi, gli disse. In quel momento Ivica aprì in fretta la porta di un vagone, i maiali si gettarono su di lui, ma lui entrò e, con fragore, richiuse la porta fino in fondo. Riuscirono a fuggire solo tre maialini; quando videro Zita, scomparvero stridendo nell’erba alta.


29 Novembre

La signora Eszter da molto tempo ormai aveva oltrepassato la cinquantina e aveva smesso di contare i propri anni quando due guardie bussarono alla sua porta. Almeno così lei aveva interpretato quei due giovani piuttosto rozzi che, senza alcuna premessa, le porsero la carta con scritto che doveva presentarsi per un interrogatorio presso la sinagoga di Subotica il giorno 29 novembre 1949 alle otto di sera. La sorprese quell’invito serale, ne aveva passate di cose con questo governo, ma invitare una donna anziana – che a una certa ora già sonnecchiava sotto le coperte – a un colloquio, a tarde ore, era davvero una sfacciataggine. Si fece il segno della croce e ringraziò per l’invito.

La cosa più strana di tutta la faccenda era il luogo dell’incontro.

La sinagoga era ormai chiusa al pubblico da due anni. Quei pochi ebrei rimasti in città, dopo la deportazione ad Auschwitz di 6.000 abitanti di Subotica, avevano per lo più cambiato nazionalità, se i comunisti jugoslavi non li avevano già condannati, uccisi o scacciati come resti della borghesia. La signora Eszter si era sempre sentita magiara e aveva difeso quella sua identità con passione, cosa che molti magiari di Subotica le invidiavano.

E anche la data le sembrava strana, era una delle feste jugoslave più importanti, il giorno della Repubblica. In quel giorno non si lavorava ed erano già moltissime le aziende che portavano come nome questa data. Il 29 novembre era come il Primo maggio o l’8 marzo, il giorno della consacrazione del nuovo stato e del popolo lavoratore della Jugoslavia. La signora Eszter, ad ogni modo, non faceva parte di quel popolo e forse per questo era stata stabilita quella data, pensò.

*   *   *

Quella sera indossò il suo abito più bello e si diresse verso il centro. A piedi le ci volevano almeno venti minuti, cinque minuti in più della sua consueta passeggiata quotidiana. Le tortore, nascoste nelle alte fronde dei bagolari, seguivano con il loro canto ogni suo passo. Le sembrava che volessero congedarsi da lei, ma non si arrese a quello stato d’animo. Ormai aveva imparato a vivere con la malinconia; il senso della transitorietà era il suo sentimento principale, profondo e nitido. La città era completamente deserta, probabilmente da qualche parte si festeggiava, ma non in questo quartiere. Era come durante l’orario del coprifuoco, più precisamente: come se avessero fatto sparire tutti i testimoni del suo passaggio.

Accanto alla sinagoga erano già parcheggiate due automobili, un gruppetto di persone si mosse silenziosamente verso di lei non appena la scorsero. Pensava a come in quel momento tutti la stessero osservando attraverso la recinzione liberty decorata a forma di cuore; così incorniciata poteva sembrare il ricordo di un vecchio amore e avere il posto d’onore nel loro album. Strano spettacolo!

Probabilmente, per via di quel pensiero aveva porto loro fiduciosamente la mano e li aveva salutati con buona sera, compagni. Non ricevette risposta, soltanto una fila di movimenti confusi, per automatismo, la mano tesa. La porta della sinagoga era aperta e, prima di addentrarsi nel buio, uno degli autisti aveva condotto l’automobile fino all’ingresso e l’aveva lasciata accesa con i fari che illuminavano parzialmente l’interno del santuario.

Non era mai stata nella sinagoga e la scarsa illuminazione la faceva sentire in un immaginario mondo sommerso. Come se l’avessero spinta in fondo a un lago, la vegetazione stilizzata nei colori verde-azzurri s’inoltrava da tutte le parti in un minaccioso intreccio ornamentale. Respirava a fatica, e gli occhi non riuscivano in alcun modo ad abituarsi ai cannoni luminosi.

Udì una voce accanto a sé.

- Come mai non è stata in un campo di concentramento?
- È questa tutta la mia colpa? – rispose nervosamente.
- Siamo noi, qui, che facciamo le domande.
- Io sono magiara, non sono ebrea.

Risata.

- Sappiamo bene noi chi è Lei. È stata chiamata qui come ultima erede legittima dell’azienda Hartmann és Conen Rt., la più grande azienda per la lavorazione della carne in tutta la zona, l’azienda il cui gran parte del capitale era ebraico.

- Da quando è finita la guerra vivo in una stanza, con due famiglie croate di Subotica, anche loro cacciate dai propri poderi. Non ho davvero niente, ci avete tolto tutto. Cosa volete ancora da me!? Ci avete tolto tutto!

Nessuno le rispose. Udì soltanto un fruscio, a quanto pare i suoi inquisitori avevano cambiato posizione. Poi, però, in qualche parte dal buio echeggiò una voce, come se il rabbino si fosse destato dai morti. La lasciarono alla luce come il Messia, guardava nel buio della sinagoga e ascoltava stupita quel rabbino comunista che le chiedeva un favore.

- Compagna Eszter, noi forse esigiamo troppo da Lei, è possibile che non voglia neanche venirci incontro, sebbene il semplice fatto della Sua risposta alla chiamata ci faccia intendere che vuole collaborare, che è una persona ragionevole e responsabile. Il favore che chiediamo, più concretamente, che esigiamo, richiede una grande rinuncia, in un primo momento forse incomprensibile, o arbitrariamente o in modo rigorosamente esagerato, ma deve credere che dietro ciò c’è la grande massa dei produttori diretti, il nostro popolo lavoratore di Subotica. Sarebbe non marxista e ingenuo, ancor più sventato, feticizzare o mistificare il contesto dal quale nasce questa nostra preghiera, questo nostro bisogno, ma, se non si vuole parlare di una necessità obiettiva, si può comunque parlare delle leggi dello sviluppo sociale che Marx ha indicato al proletariato; codeste leggi ci danno la forza di persistere nella tutela della proprietà socialista dai ladri e dai predatori dei beni del popolo, da tutti i parassiti e dagli elementi antipopolari.

Ora che lo sfruttamento nel nostro paese è soffocato, è tempo di scelte più sottili, e noi, suvvia, cerchiamo di essere autocritici, siamo passati attraverso una fase di spaventosa alienazione dalla società, per così dire, è stata come una fase infantile di auto feticismo, se mi comprende, quasi come se anche noi avessimo cominciato a imbalsamare i nostri eroi nazionali e i nostri capi come Stalin, Lenin, e tutto ciò ha portato a certe ipocrisie morali tra i nostri capi guida, come se si fosse cercata una sorta di religione sostitutiva per le masse popolari, anche se il processo di disalienazione, nello stesso tempo, su qualche altro binario poco visibile, era già cominciato. Questo tempo, dissi, esige metodi più sottili che portano alla costruzione pratica della società socialista, e questa costruzione deve passare attraverso ogni individuo, si deve interiorizzare, si devono individualizzare i principi morali socialisti. Esistono in mezzo a noi, rigorosi attivisti, sa, di quelli che si sbranano per ogni svista insignificante, sa, di quelli che eternamente riesaminano la propria capacità, o attitudine, o preparazione, come se i principi morali fossero impressi in noi, e come se non dipendessero dalle circostanze concrete. Sappiamo, compagna Eszter, che Lei è una persona coscienziosa, una persona consapevole della sofferenza che ha subito il nostro popolo a causa dell’egoismo dei singoli individui, capitalisti come Hartmann e Conen, sappiamo altresì che la nostra richiesta la porta a un conflitto tra i doveri verso la famiglia e i doveri verso la patria, ma bisogna portare tutto sotto un principio morale più generale e la questione è risolta. Firmi la carta con la quale rinuncia ai diritti sulla proprietà dell’azienda Hartmann és Conen Rt., come unica erede rimasta, e abbandoni infine il nostro paese entro un mese, e noi le saremo grati. La Sua esistenza fra noi rappresenta un ostacolo allo sviluppo della nostra società socialista, un ostacolo allo sviluppo dell’industria della carne nella nostra città. Qualora questa nostra conversazione non dovesse chiudersi con esito positivo, noi saremo costretti a prendere misure più drastiche.

Eszter ammutolì di fronte alla lunghezza di una tale argomentazione. Bisognava raccogliere gli ultimi resti di dignità in mezzo a questi banditi.

- Ma dove posso andare, avete dei consigli da darmi?

Invece di rispondere, uno di loro, con berretto e occhiali, apparve davanti a lei con carta e penna. Si sedettero sulla prima panca che la sinagoga offrì loro. Sopra lo spazio riservato alla sua firma, Eszter, nella penombra, riuscì a leggere solo la frase che aveva già sentito: lo sviluppo dell’industria della carne nella nostra città. Si alzò in piedi e si voltò verso il pubblico, sagome confuse che si disperdevano nella luce dei fari:

- Se è per la carne, allora va bene – disse, apponendo la propria firma, a voce alta e ironicamente.

- Sono anni che non la vedo.

Si alzò e s’inchinò. La sua firma ricevette un fragoroso applauso che continuò a echeggiare nella sinagoga molto a lungo dopo che tutti gli attori di tale accordo abbandonarono la scena.


Traduzione dal croato di Ginevra Pugliese




Neven Ušumović (Zagabria, 1972)
è cresciuto nella Voivodina, in Serbia. Ora vive a Capodistria in Slovenia e lavora nell’oltreconfine, a Umago in Croazia.
Ha pubblicato quattro raccolte di racconti brevi: 7 mladih (7 giovani, Zagreb 1997), Ekskurzija: roman kratkog daha (Gita: romanzo di breve respiro, Zagabria 2001), Makovo zrno (Seme di papavero, Zagabria 2009), Rajske ptice (Uccelli del paradiso 2012).
Alcuni racconti sono stati inseriti nelle raccolte americane Best European Fiction (a cura di Aleksandar Hemon, 2010) e Zagreb Noir (a cura di Ivan Sršen, 2015). U stočnom vagonu (Nel vagone bestiame) è anche il titolo di una scelta dei suoi racconti (Belgrado 2014).
La sua prosa è stata tradotta in inglese, tedesco, spagnolo, ungherese e sloveno. Questa è la prima traduzione in italiano.

(foto di Siniša Sunara)


ginevra.pugliese@gmail.com
roic@zamir.net