Pubblicato in Argentina nel 2015 Monologo del testardo è l’ultima raccolta poetica di Jorge Boccanera costituita da testi scritti negli ultimi sette anni. Il libro precedente risale, infatti, al 2008 ed è Palma Real, pubblicato anche in Italia – con una introduzione di Juan Gelman – nel 2011 [Palma Reale, Edizioni Fili d’Aquilone]. Nel monologo si ritrovano i temi fondanti della poesia boccaneriana, quel suo particolare stile ludico, nel contempo sensuale e ironico. Però è un libro strutturato in modo diverso da quelli anteriori: le 49 poesie che accoglie sono suddivise in sette sezione, ben distinte l’una dall’altra, con l’ultima parte dedicata a testi scritti per essere musicati. Qui non si ritrova la compattezza di Palma Reale o di Sordumuda (1991) ma una summa della sua arte poetica, come fosse una sorta di antologia realizzata con testi inediti di varia provenienza. L’autore ha qui riunito poesie per affermare, in un nuovo libro, il suo “antico” pensiero e quindi percorre le stesse strade per scoprire, in un paesaggio a lui ben conosciuto, aspetti inediti e particolari trascurati o non messi a fuoco nel modo giusto.
“Occhi della parola” s’intitola la prima parte della raccolta, come se le parole (scritte o lette) ci osservassero per dirci qualcosa in più. O per chiedere qualcosa in più a chi scrive: un’anima? una vita propria? E il poeta, umile e tenace, si sforza di comprendere, di dialogare con le stesse sue parole. “Affanni del poeta” è il pezzo di apertura in cui si affronta questo tema riproponendo, tra l’altro, i luoghi e i simboli del proprio mondo: il nonno barbiere arrivato dall’Italia; le forbici che eliminano il superfluo; il pettine sottile che snoda e modella; quel “troppo ma non troppo” (in italiano nel testo) che è la ricerca della giusta misura, del punto esatto, l’aspirazione alla bellezza e alla perfezione (quantomeno ideale). Come accade spesso nei testi di Boccanera in chiusura c’è il cambio di registro che sorprende e con una piroetta ribalta la situazione: forse è del tutto inutile insistere e tuttavia si passa di nuovo il pettine “sulla testa calva della vita”. Questa è la testardaggine del titolo, la coerenza di quel monologo quotidiano del poeta che alle volte ripiega su se stesso e preferisce la “dentata” alla scrittura per “non alimentare parole come piante carnivore”.
Il libro prosegue con “L’attesa”, sezione dedicata alle “nonne di Plaza de Mayo” che per decenni hanno aspettato di sapere qualcosa di figli, mariti, nipoti scomparsi nel nulla, i “desaparecidos” della dittatura militare. Un gelido freddo che congela i ricordi, le brutte notizie, il vuoto dell’assenza, l’esilio con le sue “lettere che ti spaccano la bocca” e ora bisogna rammendare “ogni parola strappata”. Operazione che rimanda a un testo della successiva sezione “Pioggia nera” dedicato alla madre dell’autore che mai si separava dal ditale e dall’ago. È la parte più consistente del libro, “Pioggia nera”, dove tra bambole liquide si affaccia – sotto una nuova identità – la “sordomuta” qui divenuta una bambina dal costume rosso che nessuno applaude quando, con le sue abili giravolte, riesce a evitare gli attacchi della morte. E nella parte successiva è proprio la morte a scivolare come un’ombra di testo in testo, fin dal titolo “Moribundaje” neologismo che potremmo tradurre “Moribondaggio”, con una poesia dedicata alla figura della Catrina, maschera di teschio con cappello molto diffusa in Messico (“Di catrina in catrina la lancetta dei minuti/ mi va dicendo:/ ciao e addio”). In “Porte”, ultima poesia della sezione, c’è il commovente ricordo del poeta e amico nicaraguense Francisco Ruiz Udiel che l’ultimo giorno del 2010 decise di porre fine alla propria giovane vita. La consueta ironia del poeta ha la forza e la leggerezza di stemperare il dramma: “la morte è arrogante, dispone di persone che non ha mai conosciuto”.
Infine l’ultima parte, con “6 canzoni testarde”, che rimanda al titolo del libro ed è in perfetto contrasto con la precedente sezione: qui c’è la musica, ci sono i ballerini del tango che si muovono con destrezza e allegria. Negli ultimi versi della raccolta un bambino immobile su un cavallo bianco “canta il rumore del mare”.
Jorge Boccanera nel Monologo del testardo innesca una grande curiosità, stimola l’immaginazione del lettore dialogando con la lingua poetica, “respirando domande”, variando lo stile, il ritmo che da onirico si fa musicale. In cerca del necessario, di quel barlume che possa regalarci il guizzo vitale, la consonanza con il passato e allontanare la voracità che agita “un mostriciattolo dagli occhi vuoti”. Per questo occorre vigilare con pazienza e testardaggine, proteggere ogni giorno “la lingua in fiamme della sordomuta”. Ovvero la poesia.
Monologo del testardo di Jorge Boccanera sarà pubblicato anche in Italia a fine aprile 2016 con Edizioni fili d’Aquilone (a cura di Alessio Brandolini).
POESIE DI JORGE BOCCANERA
da MONÓLOGO DEL NECIO / MONOLOGO DEL TESTARDO
(Editora Patria Grande, 2015)
AFANES DEL POETA
Paso el peine,
quito las hojas secas, lo ampuloso,
el oropel y el loro,
los piojos del decir.
¿Me salvé por un pelo?
¿Hubo un pelo en la sopa?
Otra vez paso el peine, es un peine muy fino,
quito la carambada,
las enumeraciones de la trenza, lo brumoso y sus rulos.
De nuevo paso el peine,
saco el abrojo y el aceite rancio,
el comején,
el troppo ma non troppo.
Por las palabras, por los sueños
paso una vez, paso otra vez el peine.
Busco lo despojado, ese vislumbre,
lo desguarnecido.
Otra vez paso el peine
por la cabeza calva de la vida.
AFFANNI DEL POETA
Passo il pettine,
tolgo le foglie secche, l’enfatico,
il similoro e il pappagallare,
i pidocchi del dire.
Mi sono salvato per un capello?
C’erano capelli nella minestra?
Passo un’altra volta il pettine, è un pettine molto sottile,
tolgo la stupidità,
le liste dell’intrecciato, il nebbioso e i suoi bigodini.
Passo di nuovo il pettine,
tiro fuori il cardo e l’olio rancido,
la tèrmite,
il troppo ma non troppo.
Per le parole, per i sogni
passo una volta, passo il pettine di nuovo.
Cerco l’essenziale, quel barlume,
ciò che è sguarnito.
Passo il pettine un’altra volta
sulla testa calva della vita.
MONÓLOGO DEL NECIO
¿Quién escribe? El hambre. La voracidad escarba,
agita un esperpento con los ojos vacíos. No hay letra,
hay dentellada. Lo que repuja y muerde.
Feroz el escribir: cada tecla un muñón, clavo
que raya el muslo del silencio.
¿Quién responde? Una voz corroída. Punta
de un corazón mellado que va sobre su presa
respirando preguntas.
Eso se come. Gula del vacío.
MONOLOGO DEL TESTARDO
Chi scrive? La fame. La voracità fruga,
agita un mostriciattolo dagli occhi vuoti. Non ci sono parole,
c’è una dentata. Quel che scaraventa e morde.
Scrittura feroce: ogni tasto un moncherino, chiodo
che raschia la coscia del silenzio.
Chi risponde? Una voce logora. Punta
da un cuore scheggiato che balza sulla preda
respirando domande.
Questo si mangia. Ingordigia del vuoto.
FUGAS
La princesa está pálida en su silla de oro, está mudo el teclado de su clave sonoro
Rubén Dario
Hay una inspiración de vacas flacas
a cada rato eructan desdentadas metáforas.
En sus ojos de tinta se encharcan los abrazos
y en sus cuartos traseros se desmaya una flor.
Las manchas de sus cuerpos ayer tan esmaltadas han perdido la risa,
Y nadie desmaleza los patios que crecían en su boca de fresa.
El caballero de la espada al cinto se pasó al enemigo y desertó el teclado.
Ya no hay viajes en globo por el cielo de Oriente.
Se herrumbra el instrumento de encastrar una mano en la otra.
¡Ay la cruel paradoja de llamarle ganado a lo perdido!
¡Ay de las vacas flacas rumiando su ceniza!
Lenguas amoratadas donde el misterio desafina.
Con solo verlas huyen los apetitos de la piel.
Hay una inspiración de vacas flacas en corrales de oro,
pálidas en su fiera vergüenza de haber sido.
Llevan un buitre sobre el lomo.
Vuelven de una guerra perdida.
FUGHE
La principessa è pallida sul trono dorato, muta è la tastiera del suo clavicembalo sonoro
Rubén Dario
C’è un’ispirazione di deboli vacche
eruttano in continuazione metafore sdentate.
Nei loro occhi d’inchiostro si dilatano abbracci
e nei loro quarti posteriori sviene un fiore.
Le macchie dei loro corpi ieri così smaltate hanno perso il sorriso,
E nessuno diserba i cortili che crescevano nelle loro bocche di fragola.
Il cavaliere dalla spada al cinturone si è schierato col nemico tradendo la tastiera.
Non ci sono più viaggi sulla Terra per il cielo di Oriente.
Si ossida lo strumento che incastra una mano all’altra.
Ahi! il crudele paradosso di chiamare bestiame (*)ciò ch’è perduto!
Ahi! delle deboli vacche che ruminano la loro cenere!
Lingue bluastre dove il mistero stona.
Al solo vederle fuggono gli appetiti della pelle.
C’è un’ispirazione di deboli vacche in recinti d’oro,
pallide nella loro feroce vergogna di essere esistite.
Hanno un avvoltoio sulle spalle.
Tornano da una guerra persa.
(*) Gioco di parole: “bestiame” in spagnolo è “ganado” che significa anche “guadagnato”.
LA TORRE ROJA
Avisos luminosos se encienden y se apagan.
Sobre la torre roja me toca vigilar:
cada chispa en la almohada,
la boca de mi madre con dos vueltas de llave,
las palabras que cuentan y los días contados,
las linternas que talan la noche de los sueños,
las vísceras al aire de la selva.
Se encienden y se apagan marquesinas.
Me toca resguardar:
la lengua en llamas de la sordomuda,
el camino salvaje,
las ollas donde hierve sus colores el bosque,
las cartas del exilio que te rompen la boca
y el que maquilla espejos con estrellas de talco.
¿Y los escombros que acarrea el insomnio?
¿Y el ahogado golpeándome la puerta?
¿La que busca en el horno la rosa de la muerte?
Sobre la torre roja yo vigilo.
El ojo del patrón engorda el ganado.
LA TORRE ROSSA
Avvisi luminosi si accendono e si spengono.
Sulla torre rossa devo vigilare:
ogni spruzzo sul cuscino,
la bocca di mia madre con due giri di chiave,
le parole che raccontano e i giorni contati,
le fiaccole che disboscano la notte dei sogni,
le viscere all’aria della selva.
Tettoie si accendono e si spengono.
Devo proteggere:
la lingua in fiamme della sordomuta,
il percorso selvaggio,
le pentole dove il bosco cucina i suoi colori,
le lettere dell’esilio che ti spaccano la bocca
e chi incipria specchi con stelle di borotalco.
E i rottami che l’insonnia trasporta?
E l’affogato che batte alla mia porta?
Quella che cerca nel forno la rosa della morte?
Sorveglio la torre rossa.
L’occhio del padrone ingrassa il bestiame.
DIARIO DEL CALCINADO
Sale Artaud chamuscado de su propio cuerpo
para prenderse fuego,
una y otra vez
lumbre,
a cada instante,
con la consigna de quemar las naves.
DIARIO DELL’INCENDIATO
Esce Artaud bruciacchiato dal suo stesso corpo
per darsi fuoco,
una e un’altra volta
falò,
in ogni istante,
con la consegna di bruciare barche.
FIBRAS
Asomará un venado para el que siembra tiempo, lo fabrica, largas hojas de tiempo, muy delgadas, con hebras, cerdas, hilos, filamentos, hilachas,
y escribe sobre el tiempo de rodillas, sobre un manto de sombras y camina después por la hoja en blanco donde la noche está despierta.
Asomará el venado si el que escribe mete las manos en el tiempo y roe, lo muerde, lo desgasta, lo adelgaza, lo vuelve tegumento, membrana.
Cuando el tiempo —pellejo de palabras— roce fugaz el aire,
asomará un venado.
FIBRE
Spunterà un cervo per chi semina tempo, lo produce, lunghe foglie di tempo, magrissime, con fibre, setole, fili, filamenti, filacce,
e in ginocchio scrive sul tempo, sul manto di ombre, e poi cammina verso la pagina bianca dove la notte è sveglia.
Spunterà il cervo se quello che scrive mette le mani nel tempo e rosicchia, lo morde, lo consuma, lo assottiglia, lo trasforma in corteccia, in membrana.
Quando il tempo – cotenna di parole – fugace strofina l’aria,
un cervo spunterà.
SONSONETE DE LA PÁGINA EN BLANCO
Tiran la mano y esconden la piedra.
Tiran la vida y esconden la poesía.
Tiran la piedra y esconden la mano.
Tiran la poesía y esconden la vida.
TAMBUREGGIAMENTO DELLA PAGINA BIANCA
Tirano la mano e nascondono la pietra.
Tirano la vita e nascondono la poesia.
Tirano la pietra e nascondono la mano.
Tirano la poesia e nascondono la vita.
EL DESESPERO
Hay un universo callado en el agua arremolinada de la espera.
Afanes del plantón. Anhelo en la aridez.
La garra de escarbar habita en los apremios de una estaca.
Un vacío-recodo donde el ansia se crispa.
Toda una vida, ¿prólogo de la muerte?
Toda la muerte, ¿insistencias de vida?
La espera es mano de obra esclava.
La falsedad
mete su pico largo en la fe del que aguarda,
mastica sus deseos, roba las mantas del dormir.
Crudos son los trabajos del mientras tanto.
LO SCONFORTO
C’è un universo silenzioso nell’acqua vorticante dell’attesa.
Sforzi del piantone. Anelo nell’aridità.
L’artiglio della ricerca abita nelle urgenze di un randello.
Un vuoto-ansa dove l’affanno si contrae.
Tutta una vita: prologo della morte?
Tutta la morte: ostinazione della vita?
L’attesa è manodopera schiava.
La falsità
mette il suo lungo becco nella fede di chi aspetta,
mastica i suoi desideri, ruba le coperte del sonno.
Sono crudi i lavori del frattempo.
FILOS
Ayeres recogidos en un vaso quebrado.
Donde hubo un cuenco crece
un retazo de noche, la sombra de la lluvia. Un día
y otro día es empezar de nuevo,
los filos por delante de ese rencor disperso.
Con hilitos de sangre voy a coser
cada palabra rota.
FILI
Giorni passati raccolti in un vaso infranto.
Dove c’era una cavità cresce
un ritaglio di notte, l’ombra della pioggia. Un giorno
e un altro giorno è iniziare di nuovo,
i fili davanti a quel rancore disperso.
Con sottili fili di sangue rammendo
ogni parola strappata.
HABLAN LOS OJOS DE NAZIM HIKMET
Sobre mi mano,
la mitad de una manzana brilla.
La otra mitad está sobre una mesa a miles de kilómetros de aquí.
Es imposible morder esta mitad
sin que duela el vacío.
PARLANO GLI OCCHI DI NAZIM HIKMET
Sulla mia mano,
splende la metà di una mela.
L’altra metà è su un tavolo a mille chilometri da qui.
È impossibile mordere questa metà
senza che il vuoto faccia male.
PUERTAS
¿La compañía de nadie te devolvía ninguno? ¿Por qué abriste esa puerta? ¿Era un buitre el aire empantanado? ¿Los anhelos en el extremo de su arpón? ¿Quién trenzaba orfandad con dedos que dicen adiós? ¿La soledad que te saqueaba?
¿Nadie vio?
¿Por qué abriste esa puerta?
¿Para qué muerte estamos trabajando? ¿Hubo lágrimas sujetas por cadenas? ¿Rechinaban allí? ¿Nadie las escuchaba? ¿Qué pedías? ¿Que alguien te recibiera en su andar, en su estar? ¿Por qué abriste esa puerta?
¿Desayunaste esa mañana?
PORTE
Nessuna compagnia ti restituiva a nessuno? Perché hai aperto quella porta? L’aria impaludata era un avvoltoio? Gli aneliti nell’estremo del suo arpione? Chi tesseva orfanezza con dita che dicono addio? La solitudine che ti saccheggiava?
Nessuno ha visto?
Perché hai aperto quella porta?
Per quale morte stiamo lavorando? Ci furono lacrime soggette a catene? Stridevano lì dentro? Nessuno le ascoltava? Cosa chiedevi? Che qualcuno ti ricevesse nel suo viaggio, nel suo stare? Perché hai aperto quella porta?
Quella mattina avevi fatto colazione?
REFINAMIENTO
El poeta y su estilo: tarascones al bulto.
RAFFINATEZZA
Il poeta e il suo stile: morsi al gonfiore.
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Traduzione dallo spagnolo di Alessio Brandolini
Jorge Boccanera nato nel 1952 a Bahía Blanca, a sud di Buenos Aires, nel 1962 si trasferisce con la famiglia nella capitale argentina. Dopo il colpo di stato militare del marzo 1976 si trasferisce in Messico e poi in Centroamerica. Torna in Argentina nel 1984, poi torna in Costa Rica nel 1989 vi resta fino al 1997. Attualmente vive nella provincia di Buenos Aires. Collabora a periodici e riviste e tiene corsi universitari sulla poesia. Ha diretto «Nómada», rivista bimestrale di cultura e poesia. Ha ottenuto per la poesia il Premio “Casa de las Américas” (1976, Cuba); il Premio “Nacional de Poesía Joven” (Messico, 1977); il Premio Internazionale di Poesia “Camaiore” (2008, Italia); il Premio “Casa de América de Poesía Americana” (2008, Spagna); il Gran Premio de Honor “Fundación Argentina para la Poesía” (2012); il Premio Internacional de Poesía “Ramón López Velarde” (2012, Messico); il Premio alla traiettoria poetica “Rosa de Cobre” (2014, Argentina).
Suoi testi sono presenti in varie antologie di poesia ispanoamericana e sono stati tradotti in diverse lingue. Ha pubblicato i libri di poesia: Los espantapájaros suicidas (1974, Argentina), Noticias de una mujer cualquiera (1976, Perù), Contraseña (1976, Cuba), Poemas del tamaño de una naranja (1979, Perù), Música de fagot y piernas de Victoria (1979, Messico), Oración (para un extranjero) (1980), Contra el Bufón del Rey (1980) – gli ultimi tre libri riuniti in Los ojos del pájaro quemado (1980, Messico) –, Polvo para morder (1986, Argentina), Marimba (antologia, 1986, Argentina), Sordomuda (1991, Costa Rica), Antología poética (1996, Argentina), Zona de Tolerancia (antologia, 1998, Argentina), Bestias en un hotel de paso (2001, Argentina), Antología Personal (2001, Argentina), Poemas (antologia, 2002, Argentina), Servicios de insomnio (antologia, 2005, Spagna), Palma Real (2008, Spagna), Tambor de jadeo (antologia, 2008, Costa Rica), Jadeo del viaje (CD/ Jorge Boccanera en su voz, 2008, Messico), Cuaderno del Errante (antologia, 2009, Messico), Sombra de dos lugares (antologia, 2009, Colombia), Cartas de nadie a nunca (antologia, 2013, Ecuador) e Monólogo del necio (2015, Argentina).
Ha scritto anche testi per il teatro e canzoni musicate da importanti artisti (tra gli altri: Mercedes Sosa, Silvio Rodríguez), poi raccolti in La poesía es un mal necesario. Ha pubblicato libri di saggi, tra i quali: Confiar en el misterio (1994, sull’opera di Juan Gelman) e Sólo venimos a soñar (1999, Messico, sull’opera di Luis Cardoza y Aragón). Tra i volumi di prosa si segnalano: Malas compañías (1997), Tierra que anda. El exilio de los escritores (1999), Redes de la memoria. Escritoras ex detenidas (2000), La pasión de los poetas (2002).
Nel 2008 è stata pubblicata in Italia la raccolta poetica Sordomuta (LietoColle, Premio Camaiore 2008 - sezione Internazionale) e nel 2011 Palma Reale (Edizioni Fili d’Aquilone) entrambe a cura di Alessio Brandolini.
alexbrando@libero.it
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