La lunga ricerca del maestro dei writers metropolitani che per alcuni deturpano le già deturpate periferie urbane e per altri invece creano le nuove forme del terzo millennio è terminata. La protagonista di Il cecchino paziente (Rizzoli, 2014), l’ultima fatica letteraria di Arturo Pérez-Reverte, a metà strada tra la critica d’arte, la gallerista e la cacciatrice di talenti, ha molte ragioni per trovare il mito notturno delle giovani tribù che non accettano l’arte come denaro e merce. Questa storia, tradotta da Bruno Arpaia, è una passeggiata notturna tra gli artisti incappucciati e veloci non solo a graffitare ma a scappare da polizia e guardiani notturni, pronti a rischiare di brutto: per esempio di precipitare da decine di metri o di essere stritolati nella metropolitana. Tra Spagna, Portogallo e il Belpaese, Lex corteggia le tracce dell’ubiquo e introvabile Sniper senza mai perdersi d’animo, perché non deve parlargli solo di cataloghi e mostre. L’amore – ovviamente collegato alla morte, come nella migliore tradizione – non è assente in questo lungo tributo ad una delle nuove forme d’espressione che la fine della modernità ha visto nascere dalle macerie o – più semplicemente – dai cambiamenti radicali dell’arte novecentesca.
Quando i personaggi escono di scena rimane qualche perplessità, forse per alcune pagine che appesantiscono eccessivamente la trama, ma resta anche qualche motivo di riflessione fuori dai denti: il discorso sull’arte tra la cacciatrice di firme prestigiose e il cacciatore di muri da firmare, per esempio. Sono pagine che valgono da sole il romanzo, anche se non aggiungono nulla di nuovo al dibattito sulla natura dell’arte e la sua dipendenza – o meno – dallo spirito del tempo e dal mercato. Lex non giudica – forse perché c’è qualcosa in lei che urge molto di più delle considerazioni estetiche – l’arte in sé e per sé, ma l’operato del writer che, da parte sua, ha molto da dire. Lo scontro non è tra diverse concezioni dell’arte, ma sulla sua utilità sociale. Non solo, ma si torna alla vexata quaestio della necessità o meno di un’etica. Wilde e Ruskin, solo per dirne due, non sono passati invano. Ma anche Sniper ne ha da dire, e quello che dice potrebbe suonare come il de profundis di ogni tentazione rivoluzionaria e il ritorno del fascino del vuoto, del cinismo, della presa per i fondelli di chi crede al grande progetto e ignora il bluff, sempre in agguato, o per qualcuno inesorabilmente implicito, che c’è dietro. Non vorrei dirlo, ma questo di Lex-Sniper mi fa venire in mente lo stupore e forse le risate del Rimbaud africano quando venne a sapere dell’incenso che la borghesia europea da cui era scappato a gambe levate si era decisa a spargere sulle sue poesie d’adolescente. Poesie che in realtà celebravano, d’accordo, genialmente, i funerali dei suoi modi e della sua stessa ragion d’essere.
“L’unica cosa che faccio è aiutare l’Universo a dimostrare le sue regole”. “E questa è arte?” “Naturalmente. L’unica possibile. Un bombardamento continuo di immagini destinate a manipolare lo spettatore ha cancellato le frontiere tra il vero e il falso… Quello che faccio io restituisce, con la sua tragedia, il senso della realtà”.
Arturo Pérez-Reverte, Il cecchino paziente, traduzione dallo spagnolo di Bruno Arpaia, Rizzoli, 2014, 256 pagine, 18 euro.
Arturo Pérez-Reverte è nato a Cartagena, Spagna, nel 1951. Per vent’anni reporter di guerra in Libano, in Eritrea, alle Falkland, in Nicaragua, in Mozambico, in Romania, in Bosnia e in altre zone roventi del pianeta, romanziere di lungo corso, è autore di libri pubblicati in quaranta lingue: tra i più celebri Il club Dumas, La carta sferica, la serie Le avventure del Capitano Alatriste.
Con Il tango della Vecchia Guardia, il primo dei suoi romanzi pubblicato da Rizzoli, ha dominato per mesi le classifiche spagnole riuscendo nella rara impresa di ottenere un successo sia di pubblico che di critica.
Il cecchino paziente è uscito in Spagna nel 2013 con il titolo El francotirador paciente.
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