FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 36
ottobre/dicembre 2014

Mare

 

L'INGANNO DEL MARE
Alcune pagine di Robert Walser ritrovate
nel manicomio di Herisau
(1955)

di Marco Ercolani



Spiegarti perché sono qui, mio caro visitatore, mio illustre curioso? Spiegarti perché sono qui sigillato come una noce dentro le mura dell’istituto per alienati di Herisau? La tua domanda non è nuova. Un filosofo, non ricordo chi, consigliava di “vivere nascosti”. Sì, sono tranquillo, a Herisau, perché qui sono libero di uscire e libero di tornare, ma non riesco a spiegarti in modo preciso ed esauriente perché. Non ho mai compreso i vagabondi che si fermano infreddoliti in baracche sempre diverse dove non hanno mai respirato prima, o sotto ponti gelidi dove non arde la fiamma di nessun fuoco. Lo trovo inopportuno, scortese. Occorre sempre tornare nella nostra stanza, nella nostra casa, anche se ci appartenesse solo per un attimo. Fossimo anche su un cratere lunare dove siamo saliti grazie al soffio potente della nuova mongolfiera, dovessimo anche fare un viaggio tortuoso e lunghissimo fra boschi e crepacci e ci trovassimo a dormire all’aperto in una radura fitta di erbe spinose, alla fine, però, potremmo sorridere se abbiamo un luogo dove tornare. Come si può vivere senza una casa? Herisau è la mia, ora. Non è soltanto un nido per scrittori inoperosi: la condivido con persone che hanno l’aria strana di non voler stare nel mondo degli altri e così sono anche meno solo, perché il loro pensiero è il mio. Certo, restassi sempre fermo qui sarei un idiota. Durante il giorno occorre camminare, camminare. E poi, se non fosse chiaro, ancora camminare. Sarebbe bello anche ridere, mentre si mette un piede dopo l’altro. Io vado e vado, sempre a piedi. So che la mia mente vacilla ma il corpo no, sembra immune. In fondo sono un po’ come Montaigne quando diceva che il vero assetto dell’uomo è starsene a cavallo, è vedere il mondo in groppa a un destriero e oscillare il corpo secondo il suo trotto, traversare vedere assorbire un mondo che cambia sempre, instabile, fluttuante, con odori e luci sempre diverse. No, caro signor intruso, no, mio gentile visitatore, non potrei restare sempre a Herisau. Non sono un mobile. Non sono un vaso. Non sono una gamba del letto. Io vibro. Io sono una pianta che sussulta. Posso anche tenere il dolore fermo, con radici di legno e di ferro, ma l’anima volteggia, chi la può fermare? Non sono un oggetto della casa. Sono un uomo superfluo, a cui né strada né casa interessano, ma solo le grotte, le fessure, quelle che un serio filosofo chiamerebbe le stalagmiti della mente. Lo traverso, il mondo, a modo mio. E come fare, se non così? Un tempo mi piaceva dire nei libri tutto questo (anche ora, sì, mi piace), ma oggi me lo tengo segreto, nella mia minuscola scrittura che, in pochi centimetri, racchiude un racconto. Ogni macrocosmo è microcosmo. Ogni foglio, piccolissimo, resta invisibile se prima il lettore non lo decifra. Ogni uomo è un libro in viaggio. Qui con me, nel mio cuore, ci sono miriadi di fogli, montagne e oceani di fogli, vertiginosi romanzi d’avventure. Cammino fra le case ma anche fra le pietre dei fiumi, magari domani fra gli scogli del mare. Percorro una mai consueta odissea. Ma dopo, dopo devo, dopo devo, devo tornare. Capisci l’importanza, mio caro visitatore, mio gentile intruso, l’importanza di quello che ti sto dicendo? La casa è sì il dolore di chi ci sta dentro, murato nei suoi pensieri intimi, indolenti, terrorizzati; ma è anche nido dove piegare le piume, dopo il lungo volo per gli spazi del cielo, finalmente: luogo di silenzio e di speranza; parete dove le proprie voci si fermano come graffiti.

Troppe volte ho vagabondato pensando di essere uno scrittore che fa i suoi giusti percorsi e poi metterà a frutto le sue passeggiate con opere pensose e delicate, fatte di belle frasi, cariche di insegnamenti positivi. Ma col tempo mi sono accorto che non ho nulla da insegnare a nessuno. Sono i cani, i gatti, i fiori, le foglie, le rondini, le aquile, le farfalle, l’universo intero a insegnarmi come si fa, finalmente, a non essere uomo fra gli uomini, padrone fra i padroni, violentatore fra i violentatori. Disobbedendo con mite (ma proprio mite?) violenza. Se sapessi come mi è sembrata inutile la mia sterminata opera, che forse leggeranno studiosi che non esistono più, vissuti in secoli passati. Credo siano più utili le lettere che spedisco ai miei non conosciuti interlocutori: lettere è dire troppo, sono cenni della mano, messaggi da casa a casa, da terrazzo a terrazzo, da continente a continente, da galassia a galassia; scintille, fuochi; sollievo dolce da quella catastrofe che è sempre la vita, se prendiamo la vita alla lettera, come crudele pezzo di tempo fra nascita, giovinezza, vecchiaia, morte: se la vediamo per quello che ferocemente è, senza nessuna magia, senza nessuna mongolfiera gonfia d’aria celeste, freccia scagliata chissà dove, freccia che dopo un certo tempo ricade. Cenni, sì, flebili congedi.

Quando tu, caro intruso, uscirai di qui, quando abbandonerai le mura della nostra casa, vòltati. Se starai molto attento e mi vedrai, io ti saluterò. Non ricordare le mie parole, mi raccomando, ma il mio saluto di ospite volontario della casa. Io, ospite pronto a tornare nomade, a passeggiare ancora fra sassi e foreste, ma che poi inevitabilmente tornerà, qui, proprio qui, perché solo qui ci sono i folli, gli amici, i veggenti che possono parlargli (o almeno stare con lui). Tu sai che Itaca, per Ulisse, non era lo scoglio pietroso di cui ci raccontano le carte geografiche ma lo splendido nido da cui estirpare il male con le mitiche frecce e riconquistare il grande letto di quercia, dove ricongiungermi alla sposa paziente. Non so se sarò mai atteso da qualche odiosa Penelope o se ritroverò mai la mia stupida Itaca. Tantomeno se avrei la forza o la voglia di scagliare delle frecce. Ma facciamo finta che.
In fondo il ritorno esiste sempre per quei viaggiatori che non si perdono fra le Simplegadi, che non sono ammaliati da filtri e amori e ciclopi, ma vanno là dove sono sempre stati. Importante sarebbe ricordare dove si è stati. Già, ricordare. Ma dopo tanti anni… Non chiederlo a me. Non a me. Non a me. Io ne ho perso memoria e così resto qui, dentro le mura, e saluto chi arriva, intrusi, sconosciuti, navigatori, amici. Invitati senza invito. Persone che non uccidono e non possiedono. Che si perdono sorridendo e fissano, talvolta, quel mare bellissimo e scuro. Perché laggiù, ne convieni con me, c’è il mare, vero? Non è che mi inganno, ancora una volta?


NOTA AL TESTO
Il brano proposto è stato scritto espressamente per questo numero di “Fili d’aquilone” sulla scia della pubblicazione di Preferisco sparire (Robin, 2014), un romanzo apocrifo dedicato agli ultimi anni di vita di Robert Walser.


mark.ercolani@libero.it