Se mi chiedessero di dare una definizione di quella strana, imprevedibile, misteriosa avventura quotidiana che chiamiamo vita, oggi risponderei in questo modo: almeno per me, la vita è stata una serie di tentativi – alcuni riusciti, altri meno – di rendere solido il terreno sul quale dovevo camminare ogni giorno. Messa così, non pare un’impresa proibitiva: è sufficiente affidarsi ai beni che si possiedono e non fare passi falsi, non avventurarsi su strade viscide e pericolose. E dunque, confermare al primo posto gli affetti familiari, fare onestamente il proprio lavoro, circondarsi di veri amici, donare agli altri un po’ del proprio tempo. Ma la vita è piena di insidie: un lutto, un grumo di sangue nelle arterie, la perdita improvvisa del lavoro e l’intero edificio crolla in un istante. Sono le situazioni che ci fanno dire che la vita non ha senso, che è solo una grande fregatura; e in effetti, dinanzi al corpo inerte di un giovane, di un bambino, di un uomo morto nel fiore degli anni, “assurdo”, “incomprensibile”, “insensato” sono i soli aggettivi che la nostra mente è in grado di partorire.
“È morto”; oppure: “Non c’è più”; o ancora: “È scomparso”, “Ha cessato di vivere”. “Ha cessato”: forse sono le parole più giuste, perché la vita, in fondo, non è che una serie di cessazioni, che cominciano da quando nostra madre decise di staccarci dal suo seno: il primo distacco, la fine del piacere di suggere la vita dalla creatura più importante della nostra esistenza. E poi, altre cessazioni, altri distacchi: dalla spensieratezza dell’infanzia, dalla scuola, dalle energie giovanili, e poi dai genitori, dalla salute, e infine dalla vita stessa: il distacco supremo, da cui dipende tutto il nostro agire, perché la vita, nella sua essenza, non è che una continua resistenza alla consapevolezza di dover morire.
Ma la morte è ineluttabile: e allora? Allora non resta che onorare la nostra esistenza, questa esistenza; inutile pensare alla morte con disperazione, inutile rifiutarla o cercare di neutralizzarla. Alla consapevolezza della morte si reagisce con l’unica forza in grado di contrastare il pensiero di quando non saremo più: l’Amore. C’è un sentimento che resiste al supremo distacco: perché l’Amore, in ogni sua forma, disconosce la morte.
Dieci anni fa, in piena notte, arrivò una telefonata dall’Ospedale San Giacomo di Roma: “Ci dispiace, dobbiamo darle una brutta notizia. Suo padre è morto”. Quello che mi sembrava un luogo comune, tante volte ascoltato, divenne improvvisamente realtà: sentii che mi veniva strappato un pezzo del corpo, che un qualche organo interno, non vitale, ma importante, tremendamente importante, cessava di funzionare. E solo qualche ora dopo, guardando il suo volto cereo e impassibile, capii che non avrei mai più pronunciato una delle parole più rassicuranti del vocabolario di tutte le lingue, quella più invocata nei momenti di debolezza e di paura, di aiuto, ma anche di gioia, di passione, di orgoglio: “Papà”. Un elemento fondamentale della mia vita non ne faceva più parte, se non nel ricordo.
Non trovai più mio padre nella vigna che aveva iniziato a coltivare una volta andato in pensione, ma per interi giorni continuai ad entrare nel podere chiamando: “Papà, papà”. Non importava che non mi rispondesse; era una mia esigenza, volevo sentirlo ancora presente, vicino, illudermi per un attimo di rivedere il suo viso buono e pacifico, di ascoltare la sua voce dolce e pacata.
Se potessi veder realizzato un mio desiderio, uno solo, non avrei il minimo dubbio su quale dovrebbe essere: riabbracciare mio padre, dirgli quello che ho pensato tante volte, ma non ho mai avuto il coraggio di esprimere: “Papà, tu non sai quanto ti amavo e quanto ti amo ancora, e quanto ti amerò se è vero che avremo una vita eterna”.
La morte di un genitore non può non lasciarti una perenne ferita. Ma come ha sperimentato chiunque abbia subito una tale perdita, all’inevitabile dolore subentra, lentamente, l’elaborazione del lutto. Nessun genitore si distrugge con la morte, con i figli ha lasciato qualcosa dopo di sé. Non è tanto un fatto di discendenza; ciò che importa è che abbia amato e insegnato ad amare: è questo il senso della vita da trasmettere alle creature che generiamo. Oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, mio padre è presente dentro di me come forse non era mai stato prima, con l’amore che mi ha donato, con l’eredità morale che mi guida in ogni azione della vita.
Avere dei genitori e vivere un buon rapporto con loro, perderli e dare un senso alla loro scomparsa; sembrano cose scontate, ma non lo sono. Il pensiero va a tutti quelli che non hanno mai pronunciato una sola volta quei nomi, “mamma” e “papà”; la storia è piena di esistenze orfane dell’amore genitoriale, e ognuno di noi ne conosce qualcuna. Per quanto mi riguarda, la storia più commovente riguardante la privazione dell’amore genitoriale – anzi, dell’amore in generale – l’ho trovata in un noto ed erudito libro di viaggi di metà Ottocento; è Visits to Monasteries in the Levant di Robert Curzon, uno dei grandi classici della letteratura di viaggio.
Robert Curzon, 14° Barone Zouche, nacque a Londra nel 1810 e fu educato a Charterhouse e poi al Christ Church College di Oxford, dove studiò la storia della scrittura manuale. Divenne prima membro del Parlamento, poi diplomatico; nel 1833 iniziarono i viaggi nel Vicino Oriente che sono alla base dell’opera che lo renderà famoso, e che lo porteranno in Egitto e in Terrasanta negli anni 1833-34, e al Monte Athos nel 1837.
Amante della Classicità, appassionato di libri e manoscritti antichi, Curzon programma i suoi viaggi nella convinzione, molto diffusa al suo tempo, che le terre del Levante nascondano una miniera di classici ritenuti perduti e di manoscritti rari e preziosi. È una caccia, la sua, che lo vedrà esaltarsi e smarrirsi, mettere a segno colpi strepitosi e incappare in delusioni memorabili, contrattare lealmente e usare i raggiri più raffinati per accaparrarsi un manoscritto, giocare duro o in modo squisitamente diplomatico.
Una delle tappe più importanti del viaggio di Curzon è la penisola del Monte Athos, dove il bibliografo inglese spera di trovare copie perdute dei Vangeli e scritti dei Padri del Deserto. La ricerca lo porterà a visitare tutti e 20 i monasteri della Santa Montagna, nei quali troverà e acquisterà manoscritti rari e preziosi, che oggi è possibile ammirare al British Museum di Londra. La descrizione del viaggio all’Athos è uno dei capitoli più godibili di Visits to Monasteries in the Levant; pur non essendo uno scrittore di professione, Curzon, in cui il wit britannico si incarna alla perfezione, delizia il lettore con pagine piene di interesse e di fascino.
Una sera, appena rientrato nel monastero di Xiropotamou, Curzon vi trova un monaco che vive in una delle dipendenze rurali del convento. Il monaco, testimonia Curzon, ha un’età di trenta-trentacinque anni e un volto bellissimo (magnificent looking-man) con grandi occhi scuri, barba setosa e lunghi capelli corvini; conosce un po’ di italiano, ed è nella nostra lingua che Curzon conversa con lui. Mentre parlano in una sala del monastero, alla luce di una lampada a petrolio che illumina e nel contempo adombra il viso del monaco, Curzon pensa che un viso tanto bello avrebbe potuto costituire il soggetto di una pittura di Tiziano o di Sebastiano del Piombo. È a questo punto che accade il commovente episodio cui accennavo sopra. Il giovane monaco rivela che ha imparato l’italiano da un altro monaco, perché non è mai stato in Italia, anzi, non è mai uscito dall’Athos, dove era giunto da bambino. Infatti, i suoi genitori, e quasi tutti gli abitanti del villaggio rumeno in cui era nato, erano stati trucidati dopo aver preso parte a una rivolta. Portato all’Athos, era stato educato nel monastero di Xiropotamou e in altri conventi. Nel silenzio pieno di emozione di Curzon, il monaco dice tristemente che non solo non ricorda sua madre, ma che non gli sembra neppure di averne avuta una. E aggiunge – e qui la confessione si fa struggente – che non avendo mai lasciato il Monte Athos non ha mai visto una donna, né ha idea di come una donna sia fatta. Fissando Curzon, gli chiede se le donne assomiglino alla Vergine rappresentata nelle icone del Monte Athos. L’ospite, turbato, risponde che le donne non sono esattamente come le pitture delle chiese athonite le rappresentano, e non osa dire una parola di più.
Ancora adesso, il mio cuore si stringe quando mi capita di rileggere questo brano. Un uomo privato totalmente dell’affetto, della comprensione, dell’esempio delle persone che lo avevano messo al mondo. Certo, anche gli orfani ricevono un’educazione, una preparazione alla vita, stimoli affettivi e culturali; ma il clima non è lo stesso di quello riscaldato dall’amore profondo che solo dei genitori possono dare. Nasciamo uomini, ma umani dobbiamo diventarlo, e nessuno meglio di un genitore amorevole e responsabile può aiutarci in tale compito.
Che cosa è stato del monaco che non aveva alcun ricordo dei genitori e che non aveva mai visto il viso di una donna? Non lo sappiamo: la storia non si è soffermata sull’anonima creatura privata di beni interiori così importanti. E immagino che un’eventuale ricerca al Monte Athos – dove i dati anagrafici non hanno alcuna importanza – non darebbe alcun frutto.
Eppure, sono certo che quel monaco è presente nei pensieri di molti fra i lettori di Visits to Monasteries in the Levant. Per quanto mi riguarda, mi capita di pregare tutte le volte che rileggo o ripenso all’episodio narrato da Curzon; e ogni volta chiedo a Dio di accogliere nelle sue braccia quel monaco athonita, ricolmandolo di un Amore infinitamente maggiore di quello, pur grande e profondo, di cui sarebbero stati capaci i genitori che non aveva mai conosciuto.
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