In fondo poteva finire anche peggio. Nonostante fossi stato sbalzato dal sellino me la cavavo soltanto con qualche sbucciatura su gambe e braccia, completamente sporco di fango ed erba. Peccato però che la ruota anteriore fosse da buttare e questo – oltre al fatto di dover mettere la bici in spalla per tornare a casa – avrebbe comportato una lunga serie di paternali. Comunque, mi potevo dire fortunato.
Tutta colpa di quella discussione con mio cugino.
Quella mattina mentre facevamo ripartire il mangiadischi ascoltando per la centesima volta i Rokes e i Corvi, quando Ernesto scoprì che a quasi tredici anni ancora non sapevo andare in bicicletta, cominciò a canzonarmi dandomi del ”cittadino”. Mi si sentii umiliato e lo aggredii prima colpendolo con una serie di pugni e infine, alla sua reazione, lo misi con le spalle a terra tenendolo bloccato anche con un ginocchio. E avrei pure ricominciato a menarlo se non fosse intervenuta la zia Edda.
Sapevo bene che mio cugino aveva ragione, intanto perché sono nato e vivevo a Roma e poi perché ero pure figlio unico di una mamma e un papà ansiosi da togliere il respiro. Per questo non ero mai salito in bicicletta. Per fortuna tra pochi giorni sarebbe nato mio fratello e forse i miei avrebbero dedicato a lui tutte le attenzioni che finora mi avevano oppresso. Anzi qualcosa stava già cambiando: in attesa del lieto evento ero andato a trascorrere l’estate in casa di parenti che vedevo due volte l’anno, ospite in un podere immerso tra campi di grano appena tagliato.
Dopo la presa in giro di mio cugino avevo passato tutto il pomeriggio in bicicletta, avanti e indietro nel piazzale davanti al casolare, cercando un equilibrio sconosciuto che all’inizio sembrava irraggiungibile. Lentamente il primo giro di pedali senza mettere i piedi a terra, poi altri tentativi falliti e ancora dieci metri che diventavano venti, pedalando con quella stabilità sempre più vicina. Infine l’equilibrio, la consapevolezza di partire, di arrivare dove volevo e la gioia di saper curvare senza scendere.
Poco prima di sera mi sentivo talmente sicuro da decidere di allontanarmi lungo la strada che costeggiava un piccolo corso d’acqua. Ero eccitato dalla nuova conquista e decisi di attraversare il rigagnolo sfruttando la pendenza della sponda. Non sarebbe stato quel minuscolo guado a fermare la velocità del mio mezzo oramai addomesticato, a interrompere la mia impresa. Prendo una breve rincorsa e mi butto per la discesa ma al contatto con l’acqua la ruota anteriore si incaglia. Tutta la velocità accumulata mi scaraventa addosso alla sponda opposta. Perché da cittadino, dominatore in un solo pomeriggio delle due ruote, ciclista quasi senza macchia e – incoscientemente – senza paura, traversatore di fiumi, ruscelli, canali e di qualsivoglia corso d’acqua, non potevo sapere che in fondo a quelle sponde costruite dall’uomo, sotto quei pochi centimetri d’acqua estiva si nascondeva un altro incavo che avrebbe bloccato la mia ruota.
A cena mio zio Gino, il nonno di Ernesto, mi spiegò cosa era accaduto. Prima però mi dedicò una noiosa ramanzina. Capii quanto bastava. Quel piccolo fossato nel canale più grande si chiamava savanella e il vecchio era arrabbiato perché il cerchio era da buttare. La lingua dello zio era, sì, fatta di parole italiane alle quali spesso veniva mozzata la vocale finale ma anche di tante espressioni che proprio non riuscivo a comprendere e per le quali, vista la situazione, avevo evitato di chiedere un supplemento di spiegazione. Però una cosa l’avevo memorizzata bene: quel corso d’acqua si chiamava Canale Mussolini e questo non lo avrei mai dimenticato.
Nei giorni seguenti, scontata la punizione, mi fu permesso di riprendere la bicicletta. Giurai che avrei attraversato il canale solo sui ponti e cominciai le mie esplorazioni dei dintorni. Visitavo posti sempre diversi arrivando ogni giorno più lontano. I monti dell’entroterra mi aiutavano ad orientarmi con quel paese di nome Norma a fare per me da stella polare.
Poi un giorno conobbi Brunella che a dispetto del nome era rossa di capelli e aveva gli occhi verdi. Era bellissima. Viveva a Iesolo e aveva appena finito gli esami di terza media. La incontrai lungo un viottolo, con una gomma della bici a terra. Provai a gonfiarla con la sua pompa e questo le permise di pedalare per duecento metri. Andammo avanti così per altre quattro, cinque volte fino a quando lei scorse il suo podere in lontananza. La scortai fino a destinazione e salutandola le diedi appuntamento al giorno seguente.
Dal momento della foratura passammo assieme tutti i pomeriggi, anche il sabato e la domenica. Le raccontavo della mia passione per la musica beat e le feci conoscere l’Equipe 84 e un giovane cantante che si chiamava Lucio Battisti. Lei, che trascorreva ogni estate in quel podere, mi rivelò i segreti di quella terra: mi mostrò i piccoli ponti che oltrepassavano la fitta rete di canali, mi svelò le scorciatoie per attraversare le diverse proprietà indicandomi ogni tipo di coltivazione, mi insegnò a riconoscere le tane di piccoli animali, le buche delle talpe e i nidi dei numerosi uccelli nascosti tra i rami. Io le parlai delle mie partite di pallone in parrocchia giocate all’insaputa dei miei genitori che credevano che andassi a servire messa. Lei mi raccontò di come quella pianura fosse stata rubata alle acque e alla malaria, poi rivelò le origini della sua famiglia e del nonno che dal Veneto aveva affrontato l’avventura più difficile lasciando il paese per andare a coltivare quella pianura malsana e di sua mamma che si era sposata con un veneto del litorale ed era tornata nella terra d’origine.
Vivevo in funzione di quei pomeriggi, dei racconti e della vicinanza della mia amica. E me ne innamorai.
Spesso fui sul punto di dimostrarle in modo aperto il mio sentimento. Quando eravamo stanchi di pedalare ci stendevano sull’erba all’ombra di un albero o lungo le sponde del canale con le teste vicine e le dita che si sfioravano. Fui più volte tentato di accarezzarla, di prenderle la mano, di baciarla ma rimandavo sempre sperando in un’occasione più propizia. Ero frenato dalla sua bellezza e da quell’anno di differenza che mi faceva sentire inadeguato. Stavo bene insieme a quella ragazza piena di lentiggini e non volevo rovinare tutto.
Poi da Roma giunse la notizia che era nata mia sorella. Per me fu una delusione. Da quando avevo saputo che mamma era incinta avevo sperato in un fratellino complice a cui insegnare i segreti del pallone o del meccano. Lo sconforto però fu mitigato dalla gioia per i pomeriggi che avrei passato ancora con Brunella. Invece, dopo neanche dieci giorni dalla nascita di Claudia, così avevano chiamato mia sorella, fui richiamato a Roma. Una sera arrivò la telefonata di mio padre che mi avrebbe aspettato per il giorno dopo.
Il treno partiva alle 11,45 per Roma da Littoria Scalo (come la chiamava zio Gino). Mi svegliai alle sette e mezza, presi la bicicletta e pedalai come un forsennato verso il podere di Brunella. La incontrai a poche centinaia di metri dalla sua abitazione insieme ad una cugina più grande. Salutai in maniera educata e spiegai che la mia vacanza era finita e che tornavo a Roma. Mentre le raccontavo della mia immediata e improvvisa partenza vidi gli occhi della mia amica bagnarsi di lacrime. Per non farmi coinvolgere in quel momento di commozione le misi in mano il foglietto sul quale avevo scritto il mio indirizzo e scappai via.
Tornai al podere giusto in tempo per prendermi l’ultimo rimbrotto dalla zia con la quale avrei fatto il viaggio in treno e che non trovandomi nel mio letto aveva pensato che fossi scappato. Fummo accompagnati allo Scalo dal vecchio zio sulla cinquecento celeste. Come un condannato a morte espressi il mio ultimo desiderio e mi fu permesso di percorrere i pochi chilometri con la capote aperta.
Il resto dell’estate fu tutto occupato dal dolore per il distacco dalla mia amica. Inoltre mia sorella aveva cominciato a dettare i propri tempi alla famiglia svegliandosi ogni tre ore di notte e strillando per la fame. Un inferno!
All’inizio di settembre, arrivò una cartolina di Brunella. Nelle poche righe a disposizione mi spiegava che era tornata a Iesolo, mi comunicava l’indirizzo e in un minuscolo post scriptum mi dava un’indicazione: look under the stamps. Il mio inglese non era molto brillante ma impiegai poco per capire. Misi la cartolina in una piccola ciotola d’acqua tiepida. Dopo poco i francobolli staccati svelarono il messaggio segreto: TI AMO! Così, scritto in stampatello e la penna ripassata più volte.
Rimpianto e gioia si sovrapposero, l’uno tentando di scalzare l’altra. Ripensai all’amore non dichiarato e alle frasi che invece da oggi potevo scriverle. Fantasticai sui baci che ci saremmo scambiati e provai dispiacere per quelli invece perduti nelle tante ore passate insieme. Immaginai il mio primo, lungo viaggio a Iesolo per passare l’estate con la mia ragazza dai colori del tramonto.
Lo scambio epistolare continuò per un paio di mesi. Poi a metà novembre Brunella scrisse un breve messaggio in cui mi comunicava che la mamma aveva trovato le mie lettere e che le aveva giudicate “sconvenienti”. Quella perciò sarebbe stata l’ultima volta che mi scriveva.
Mi sembrò di impazzire. Quel rapporto era diventato una ragione per affrontare il terzo anno e gli esami della medie, per sopportare la nuova intrusa in famiglia. Era la sicurezza che ogni due settimane potevo incontrare il suo amore grazie ai suoi racconti. Di certo non sarebbe stata la fermezza di un genitore a far finire quel sentimento lasciandomi da solo contro le prove più dure.
Alla fine decisi di scrivere alla mamma di Brunella. Le mie ragioni sarebbero state così oneste e convincenti da farle cambiare idea. Impiegai quasi una settimana a redigere la lettera. Premisi che ero un ragazzo serio e di buona famiglia e che davvero non riuscivo a capire cosa ci fosse di sconveniente nel confessare l’amore che provavo per sua figlia. Le spiegai perché secondo me quelle innocenti e sincere lettere non potevano turbare la sensibilità della ragazza e mi dissi disposto anche a presentarmi alla famiglia, se lei lo avesse richiesto.
La risposta della mamma non tardò. In maniera gentile - in alcuni tratti materna - mi rispose che non metteva in dubbio la natura del mio sentimento ma ribadiva fermamente che sua figlia non doveva concedersi distrazioni in un momento così delicato della crescita e della sua formazione scolastica. Alla fine mi ringraziava per averle chiesto quel chiarimento e si diceva sicura che, vista la mia giovane età e distratto da altri interessi, presto avrei dimenticato quella storia.
Come nel tentativo del guado a cavallo della bici mi ritrovai disarcionato, sbattuto a terra da un ostacolo imprevisto. Però anche stavolta il mio ottimismo arrivò in soccorso cercando di cogliere solo il lato bello della vicenda. In fondo l’estate appena trascorsa non era affatto da buttare. Qualcosa in me era cambiato: grazie alla bici avevo imparato ad essere meno “cittadino”, avevo conosciuto Brunella e le storie sui canali costruiti dall’uomo per domare quella terra, sugli eucalyptus che la difendevano dai venti e ne drenavano l’acqua. Verso di lei avevo provato per la prima volta l’amore pur praticandolo soltanto in maniera epistolare e per difenderlo avevo affrontato la prova più dura: confrontarmi con un adulto per far valere le mie ragioni. Purtroppo ne ero stato privato ma quelle esperienze sarebbero rimaste per sempre mie. Mi sentivo più forte e consapevole di aver fatto un grande passo. Adesso però era il momento di soffrire per il distacco ingiusto e violento.
Poi, se la madre di Brunella era stata sincera, presto il tempo avrebbe guarito il mio dolore.
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