“Dico patria / e c’è un pesce azzurro / che nuota in un mare illimitato”.
Questi versi sono quelli che forse in modo più immediato comunicano il senso della poesia di Rodolfo Dada, poeta costarricense nato nel 1952, di cui “Fili d’Aquilone” ha appena pubblicato la raccolta antologica Cardumen, curata e tradotta da Alessio Brandolini.
La letteratura scritta nacque in Costa Rica alla fine dell’Ottocento come letteratura “bianca”, fondata sul registro alto della lingua spagnola e sull’eredità della colonizzazione: una letteratura dunque assai poco adatta a esprimere l’anima di un paese plurale per popoli e tradizioni. Per reazione sorse un ampio movimento rinnovatore che mirava, e mira, alla riscoperta e valorizzazione della cultura afrocaraibica. È in questo contesto che Dada scava in una tradizione orale intessuta di fiabe, di storie, di musiche, in una lingua che di fronte a quella della lontanissima madre patria rivendica la sonora, sontuosa “impurità” di uno spagnolo ibridato, che trova in queste poesie una rinnovata esistenza. Si tratta di nomi di animali, di piante, di pesci, matapalo, ojarán, tepezcuintes, espaveles, impossibili da tradurre e che dunque restano intatti nella loro capacità di comunicare al lettore italiano un senso di fascinosa distanza finendo tuttavia per farsi familiari.
Cardumen in spagnolo significa propriamente “banco di pesci”. Ma esprime anche il senso di “moltitudine di cose”, e dunque l’acuta intuizione di Brandolini ha voluto lasciarlo in originale, perché non suonasse riduttivo di fronte a quella molteplicità di spazi, oggetti e immagini, forme animali e vegetali che si agitano in queste poesie intrecciandosi in una rete di significati simbolici. Dalla sezione più recente, “Cardumen” appunto, l’antologia percorre a ritroso un itinerario poetico che ha origine nella contemplazione della natura centroamericana nella sua purezza. La Costa Rica è un paese di selva e d’acque; due oceani la bagnano, la percorrono fiumi. Lo sguardo attonito che fu di Colombo e dei cronisti delle Indie, e che fu di Darwin, è per Dada lo sguardo di un nativo che non ha bisogno di mediazioni e che riconosce quel mondo come suo, lasciandosi andare alle immagini e ai ritmi che salgono dalle radici: “Dicono che il vento ha lasciato / la musica del sogno / Um burum,/ la musica del sogno”. Una voce poetica felicemente contemplativa che tuttavia non ignora le tensioni sociali e politiche, e dichiara tutta la sua inquietudine per la sorte dei bambini in un mondo violento devastato dall’ingiustizia e dall’ineguaglianza: ma è una voce che denuncia senza gridare troppo, piuttosto ai bambini si rivolge con tutta la forza rassicurante della favola, della filastrocca, della canzone, di cui l’antologia offre significative testimonianze. E nello stesso tempo quest’ultima mostra la poesia di Rodolfo Dada nel suo nascere sotto il segno di una possente immaginazione materiale, che col tempo va definendo un percorso dal fuori al dentro: da una dimensione sostanzialmente descrittivo-evocativa a una progressiva interiorizzazione in cui soggetti e spazi della natura si rivelano come simboli dell’intimità, irradiantesi da un dominante archetipo centrale, il mare.
“Dico patria / e c’è un pesce azzurro / che nuota in un mare illimitato”.
Negli oceani che bagnano le rive della Costa Rica a oriente e a occidente, Dada individua l’elemento unificante di un’identità nazionale formatasi per successive metamorfosi, come è proprio di una società meticcia: il mare come acqua madre, elemento transitorio per eccellenza, luogo delle nascite, delle trasformazioni e delle rinascite; come scrive Bachelard, «destino essenziale che metamorfizza senza cessa la sostanza dell’essere». Segni di una metamorfosi universale sono appunto disseminati nella poesia di Dada: “Il mare vola infinito”; “Il colibrì / è un pesce fuggito dall’acqua (…) / Mai abbandonò l’iride delle sue pinne / mai dimenticò l’intensità dei coralli”; “Un pesce sbuca alla finestra, giorno dopo giorno // Becca e stacca i parassiti dalla cornice / taglia foglie / piccoli rami / qualcosa vorrà dirmi”.
Di fronte al mito tellurico e ctonio che anima tanta letteratura latinoamericana, Dada fonda dunque un mito equoreo, in cui si compongono in unità gli esseri umani e il mondo naturale: sfuggendo però a ogni tentazione metastorica, ché la sua poesia è al contrario perennemente immersa in una elementare concretezza, in cui il mito si cala costantemente nella quotidianità della condizione umana, in primo luogo nell’infanzia dell’autore. Felice a volte, a volte turbata da presagi e visioni di barche affondate, di abbandonati relitti: “La mia infanzia / costa popolata di uccelli e pesci”; “La mia infanzia / mare svuotato con un bicchiere / tronco ancorato alle voci di un naufragio”.
Il naufragio è l’altra faccia del mare azzurro e calmo navigato da barchette pescatrici, la faccia oscura del mare “coscienza pura”, “pigrizia azzurra”, in una doppiezza strettamente derivante dalla stessa natura archetipica del mare: instabile, dinamico, “dio addormentato”, al tempo stesso materno-paterno e inaffidabile. Di naufragi si nutre appunto il mare di Dada, in una visione obliqua che oscilla tra il regime diurno e il notturno dell’isotopia marina, a volte all’interno dello stesso testo: “Mio padre è mare, infanzia (...) / Mio padre è sogno (...) / Mare azzurro, impalato, infinito (...) / Onda persa, scoglio senza coralli / la morte è un mare svuotato”.
Dilaga, soprattutto nella più recente raccolta,“Cardumen”, il colore azzurro: il più misterioso, più profondo e immateriale, che smaterializza ciò che di esso si colora, e che in sé compendia l’alternarsi del giorno e della notte, della vita e della morte. In queste poesie del 2004 la natura appare totalmente interiorizzata: e così la musica del verso, che se altrove era a volte ritmo della tradizione popolare, qui risuona in una diversa misura ritmica, ipnoticamente accompagnando la sistole e diastole dell’onda: “Il mare / coscienza pura / è una pigrizia azzurra / Senza rivali per i suoi giochi / il tempo dei pesci è futuro / Culla come un bambino la sua tristezza / palla bianca incorona un campo desolato”.
“Dico patria / e c’è un pesce azzurro/ che nuota in un mare illimitato”.
Se è il mare, per Rodolfo Dada, il fondamento della patria, questo fondamento finisce per apparire esso stesso incerto e variabile, sottoposto al rischio perenne che siano travolte le dimore dell’uomo: ed è la stessa incertezza, lo stesso rischio della parola poetica, identificata al suo nascere con l’acqua del mare:
La parola tocca il cristallo è un occhio ancora senza nomeNuota incipiente tra i polpi fa scivolare i suoi tentacoli con un braccio si afferra alla roccia Naviga questa pagina azzurra come una barca capovolta in un naufragio Confusa nel plancton si trasforma in nostalgia è branchia è tenaglia Tenera come un pugnale scuoia i bisonti taglia i fili spinati intorno ai figli dipinge un cervo nella grotta.
Rodolfo Dada, Cardumen, a cura di A. Brandolini, introduzione di Jorge Boccanera, Edizioni Fili d’Aquilone, 2013, pagg. 181, euro 15
Rodolfo Dada è nato a San José, in Costa Rica nel 1952. Ha pubblicato libri di poesia e di narrativa per ragazzi: El domador (1973), Cuajiniquil (1975), Abecedario del Yaquí (1983, 2003), Kotuma, la rana y la luna (1985, 2008), La voz del caracol (1989, 2006), De azul el mar (2004) e Cardumen (Antología poética, 2004). Suoi testi sono stati inseriti in diverse antologie ispanoamericane e ha curato lavori poetici su Eunice Odio e Juan Gelman. Ha ricevuto il «Premio Universitario de Cuento» (1971) con El domador, il «Premio Carmen Lyra» (1981), con El abecedario del Yaquí; il «Premio UNA-PALABRA» (1984) con Kotuma, la rana y la luna. Nel 2004 ha ricevuto il «Premio Nacional de Poesía». I libri Abecedario del Yaquí e La voz del Caracol sono testi di lettura obbligatori nel programma educativo del Ministero di Pubblica Istruzione del Costa Rica.
tarquini.francesco@fastwebnet.it
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