La casa editrice “Fili d’aquilone” ha recentemente pubblicato il romanzo di Annarita Verzola intitolato Quando l’usignolo; è un romanzo che risponde pienamente alla domanda della rivista “Fili d’aquilone” di questo numero che ha per argomento l’enigmatico titolo “Germogli”. Infatti si tratta di un vero e proprio romanzo di formazione, almeno come lo si intende nella letteratura tedesca. Il romanzo di formazione o Bildungsroman (dal tedesco) è un genere letterario riguardante l’evoluzione del protagonista verso la maturazione e l’età adulta. In passato lo scopo del romanzo di formazione era quello di promuovere l’integrazione sociale del personaggio principale, mentre oggi è quello di raccontarne emozioni, sentimenti, progetti, azioni viste nel loro nascere dall’interno.
Strettamente parlando il romanzo di formazione è un genere tipico della narrativa tedesca (Bildungsroman). Il più noto documento è Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister del 1796 di Johann Wolfgang Goethe, in cui il protagonista, un giovane borghese, viene iniziato alla vita e all’arte attraverso un viaggio che è sia materiale che spirituale attraverso l’Europa.
Il romanzo di formazione fiorisce anche in Francia. Stendhal (pseudonimo di Henri Beyle) nel 1830 inaugura il romanzo realistico con Il rosso e il nero, storia di un arrivista che alla fine delle sue esperienze si rende conto che il suo vero io si era espresso nell’amore disinteressato. Gustave Flaubert nel 1869, con L’educazione sentimentale, racconta il fallimento di una grande ambizione che il protagonista sperava di potersi realizzare nella capitale parigina.
In Inghilterra il romanzo di formazione è agli albori di quella che sarà la grande stagione del romanzo inglese: nel Settecento autori come Henry Fielding con Tom Jones e Samuel Richardson con Pamela (sebbene quest’ultimo paradigmaticamente molto diverso nella struttura da altri romanzi di formazione più propriamente detti) narrano il cammino di un giovane, dalla crisi iniziale, attraverso svariate peripezie all’immancabile lieto fine. Si arriverà poi a Charles Dickens con David Copperfield, romanzo autobiografico del 1850, in cui descrive dolori paure e innamoramenti dell’infanzia che si concludono con un felice inserimento sociale, con l’amore e la sconfitta dell’infingardaggine e dell’immoralità.
In Italia è possibile citare Ippolito Nievo per le Le confessioni d’un italiano, romanzo pubblicato nel 1858, in cui l’autore rivive la propria infanzia alla luce della raggiunta maturità che allude alla pervenuta unità nazionale.
Più recentemente, nel 1906, lo scrittore austriaco Robert Musil nell’autobiografico I turbamenti del giovane Törless, in una vita di collegio con esperienze abiette, racconta il passaggio dalla fanciullezza alla virilità e la scoperta delle contraddizioni della società borghese. Lo scrittore irlandese James Joyce nel 1917 nel Ritratto dell’artista da giovane, più conosciuto in Italia col titolo di Dedalus, esprime le emozioni dell’infanzia, i turbamenti della pubertà, le insoddisfazioni della giovinezza, e infine, come Dedalo, la fuga da Dublino che lo imprigiona per approdare “esule” nel continente. Nel 1947 nel Doctor Faustus di Thomas Mann, si ritrovano simboleggiate le farneticazioni naziste nelle vicende del protagonista che impazzisce dopo aver composto un pezzo di musica dodecafonica che spazza via le leggi musicali.
I compiti fondamentali del romanzo di formazione dell’Ottocento erano quelli di tenere sotto controllo l’imprevedibilità del mutamento storico incardinandola nella rappresentazione della gioventù, di mettere a fuoco la natura flessibile della «esperienza» moderna, di rappresentare la socializzazione delle classi medie europee. Tale narrativa ha svolto una funzione pedagogica e moralistica che, dopo il conflitto mondiale, ha difficoltà ad esprimersi ancora perché esso ha mostrato l’insignificanza dell’esistenza individuale.
La crisi del romanzo di formazione coincide con la messa in discussione della pedagogia e con l’affermarsi di un nuovo modo di narrare che, parafrasando Niccolò Ammaniti, consiste nell’entrare nella testa dei personaggi e raccontarne l’agire dal di dentro. Si spiega così anche la scarsa saggistica sull’argomento.
Questa lunga premessa sul romanzo di formazione serve soprattutto a far capire il romanzo di Annarita Verzola e, soprattutto, la strana etichetta di romanzo per ragazzi che l’autrice ha imposto all’editore.
Cosa si intende per romanzo per ragazzi? Se si vuole intendere una narrativa minore, una mini narrativa semplicistica e semplificata ad uso e consumo dei lettori più giovani, allora non ci siamo proprio. Sembra proprio che l’autrice di Quando l’usignolo pecchi di troppa umiltà. Il romanzo in questione è, lo ripetiamo, un ottimo romanzo di formazione, un’iniziazione medioevale alla vita, un eccellente spaccato della vita sociale di una famiglia agiata del XIII secolo.
La trama è abbastanza semplice: due rampolli di nobili famiglie feudali, Vieri Bonomi e Jacopo Piccolini, devono essere educati alla vita. Dovranno un giorno prendere il posto dei loro genitori nella gestione del feudo, e dovranno quindi essere pronti sia culturalmente che fisicamente. Per questo motivo hanno due precettori, Pietro Arquati e Vanni Bonaccolsi, che si occuperanno di istruirli sia nelle arti letterarie che in quelle del combattimento.
Sarà tutto un susseguirsi di emozioni forti, amore, rivalità, onore. In più c’è anche un pizzico di storia che non guasta, con la partecipazione di Jacopo alla crociata di Luigi IX di Francia.
I due ragazzi conosceranno l’amore, il senso dell’onore, la fedeltà. E soprattutto scopriranno entrambi un segreto che avrebbe potuto distruggere le loro certezze: e alla fine riusciranno, non senza difficoltà, a superare anche questa prova.
Molto interessanti sono le parti in cui l’autrice mostra di conoscere a fondo sia la psicologia giovanile che gli usi e i costumi di quel lontano periodo storico. Particolarmente notevoli sono le descrizioni del torneo cavalleresco che sancirà la loro entrata nell’età adulta. Così come risulta ben sviluppato il tema del turbamento di Vieri quando scopre che la madre, da poco morta, non era stata propriamente uno specchio di onestà integerrima. Il ragazzo dovrà vincere se stesso e la sua ira, il suo orgoglio ferito, per poter perdonare la memoria di sua madre e vivere serenamente il presente. Di sicuro quest’ultimo, nella sua complessità, non è un tema da romanzo per ragazzi. Forse Annarita Verzola avrebbe dovuto osare di più e togliere qualsiasi etichetta a questo buon libro perché Quando l’usignolo rientra indubbiamente nel novero dei migliori romanzi di formazione.
Annarita Verzola, Quando l’usignolo, Edizioni fili d’Aquilone, Roma 2012, pagg. 209, euro 12.
Da Quando l'usignolo (cap. IX, pagg. 107-110)
Giungevano fino all’interno gli urli della folla e gli squilli delle trombe, il torneo era incominciato. Il rullare dei tamburi precedeva l’ingresso di ogni campione e le urla della folla accompagnavano i buoni colpi dell’uno o dell’altro contendente, scelto come proprio eroe con un semplice criterio di simpatia a prima vista dettata dall’atteggiamento e dall’aspetto del cavaliere in lizza. Vanni aggiustava con rapidità e con precisione l’armatura di Jacopo e intanto parlava a entrambi i ragazzi.
“Vi ho spiegato fino alla nausea ciò che dovete fare.”
“E allora trattieni lo stomaco e ripeti”, lo rimbeccò Ottorino, senza sollevare lo sguardo dall’armatura di Vieri.
Vanni sospirò, ma riprese subito: “Vi presenterete ai giudici di gara per farvi riconoscere e consentire loro di controllare la regolarità delle vostre armi, quindi appenderete gli scudi alle lance infisse nel terreno e raggiungerete, uno alla volta, l’estremità del campo per affrontare tre giri di quintana ciascuno. Sono certo della vostra preparazione e del vostro coraggio, ora sta a voi dimostrare entrambi. Che Dio vi assista, con l’aiuto di San Giorgio e di San Michele buona fortuna, via di qui!”
Con quelle strane parole, a metà fra la preghiera e il comando, Vanni terminò bruscamente il breve discorso.
“Avete già deciso chi giostrerà per primo?” chiese più realisticamente Ottorino.
“Io, naturalmente!”
Jacopo avrebbe voluto domandare a Vieri perché gli sembrasse poi così ovvio essere il primo, ma incontrò lo sguardo del maestro d’armi e capì il rapido movimento delle sue sopracciglia, così tacque. Sulla soglia si voltò e lo vide sorridergli, stringendosi nelle spalle. L’intensa luce e il calore del sole, il luccichio delle armi e le occhiate curiose della folla li intimidirono un poco. Procedettero affiancati, guardandosi attorno furtivi. Tutto sembrava diverso dalla baldanza dei sogni, meglio non alzare lo sguardo verso il palco dei loro cari e prestare attenzione solo alle parole dei giudici. Era impressionante la sfilata di scudi appesi, che testimoniava l’importanza di quel torneo e garantiva emozioni e divertimento per tutti. Jacopo si trasse in disparte e guardò il compagno montare in sella, accarezzando il cavallo. Il ‘saraceno’ era in mezzo al campo, con la sua tunica a righe sgargianti e quella crudele fissità nello sguardo dipinto. Com’erano reali invece le pesanti mazze acuminate che pendevano dal suo pugno.
Vieri si lanciò all’improvviso ed ebbe la netta sensazione di sentir ancora ronzare nelle orecchie le raccomandazioni di ser Vanni. Andatura flessibile, gambe salde, lancia ben bilanciata. Un gran frastuono, il pupazzo girava con le pericolose mazze che fischiavano a vuoto. Era andato, il primo colpo era andato. Vieri sentì tutto il caldo patito fino a quel momento trasformarsi in un abito di sudore gelido, mentre tornava indietro e cercava sullo scudo il punto per colpire senza essere sbilanciato. Si avvicinò in fretta, un tocco deciso ma leggero e, via. Se avesse affondato di più, non sarebbe riuscito a scansarsi in tempo; finalmente capiva che cosa intendesse ser Vanni per tocco sensibile. Il terzo giro fu semplice e quasi privo di emozione, ma gradevole e eccitante fu il saluto della folla dopo la prova.
“Stai tranquillo non è difficile quanto sembra!”
C’erano comprensione e un pizzico di superiorità nel gesto con cui Vieri si appoggiava al suo braccio, ma Jacopo vi sentì soprattutto insultante e inutile vanità. Dovette mordersi un labbro per non dargli una risposta pungente. Era così agitato che commise l’errore di voltarsi verso il palco, ma per fortuna la vista annebbiata gli mostrò solo un confuso ammasso di colori. La momentanea frescura dell’elmo lo ristorò e la ristretta visuale lo rincuorò. Si sentiva protetto così da ogni possibile distrazione esterna, obbligato a concentrarsi solo sul ‘saraceno’. Afferrò la lancia e la bilanciò nella mano; aveva avuto ragione ser Vanni facendoli allenare con un’arma molto più pesante, perché in tal modo quella regolamentare era più maneggevole e pratica. Ormai l’elmo si era riscaldato e il cavallo nitriva inquieto. Jacopo si affrettò a carezzarlo e l’animale obbedì alle sue mosse. Dopo il primo colpo ammise a malincuore che Vieri aveva ragione. Non provava l’emozione spesso immaginata ed ebbe facilmente ragione del povero pupazzo, facendo ritorno al padiglione quasi con rammarico. Lì si lasciò sballottare dall’affettuoso ma sempre energico abbraccio di Ottorino.
“Siete stati molto bravi, tutti e due, non avevo il minimo dubbio! Giovanni ha fatto un ottimo lavoro.”
“Dov'è andato?” chiese bruscamente Jacopo.
“Non lo so, era qui poco fa. Jacopo, dove vai? Dovete recarvi a salutare i signori, è l’usanza”, gli gridò dietro Ottorino, ma Jacopo si allontanò ugualmente, annuendo. Perché si aspettava i complimenti del maestro, quando ben sapeva come ciò non fosse nelle sue abitudini? Aveva assistito alle loro prove, Ottorino l’aveva detto, dunque dove era andato? E perché? Insopportabile la folla, che non cessava di urlare e di agitarsi, indicando il campo. Jacopo guardò con infastidita curiosità e vide un cavaliere dall’armatura priva di insegne che appendeva a una lancia il proprio scudo avvolto in un drappo nero, manifestando così l' intenzione di combattere mantenendo l’anonimato. C’era in lui qualcosa d’imperioso, ma senza spavalderia, i suoi movimenti erano decisi e tranquilli. Non si curava come gli altri dei saluti e delle grida, continuava a fissare gli scudi come se intorno a sé vi fosse il vuoto. Accompagnava l’osservazione con leggeri movimenti del capo e la sua lancia guizzò all’improvviso contro uno scudo, quello a bande rosse e bianche di Vieri. Jacopo era inchiodato al suolo dalla sorpresa, mentre lo sconosciuto colpiva anche il suo scudo. Aveva appena sfidato entrambi a singolar tenzone, era assurdo. Tutti sapevano che ai novelli cavalieri era riservata la quintana, chi era costui per permettersi di infrangere così le regole?
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Annarita Verzola è nata nel 1959 a Vigevano, la città di Eleonora Duse e di Lucio Mastronardi, ma vive a Roma. Lasciata la cattedra da precaria, da alcuni anni lavora di nuovo nella scuola, però dietro una scrivania. Ha pubblicato due testi di narrativa per la scuola secondaria di primo grado: Fiammetta dei dipinti (Liguori, 1993) e Il mistero dell'altopiano (Edizioni Raffaello, 2003). Collabora con brevi storie per bambini alla rivista "Fili d’aquilone", cura un blog sulla letteratura per ragazzi, L'angolo di Annarita, e un sito di traduzioni dedicato alla raccolta di fiabe del folklorista scozzese Andrew Lang, Le favole di Lang.
o.palamenga@tin.it
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