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Specchiata nel lume ghiaccio della notte, lingua e canto di terre dissolte in pozze di luna, la costellazione invisibile di un seme. Nessun legame lo trattiene, la sua sola memoria è un passato votato a diventare foglia nell’abbraccio materno dell’alba. Fermenta come olio evaso da lampade di tenebra, annaspa nella vertigine fonda di una zolla, schiude i suoi occhi d’oasi tra i sassi - inaccessibile respiro del mondo che si fa voce e parla dalle labbra della luce.
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Le parole della notte sciamano lentamente dentro il palmo, costringono lo sguardo nel vortice di fuochi azzurrati accesi dal riverbero profondo che incanta le dita - sillabe silenziose nel lampo intermittente di ombre protettive, custodi di indecifrabili visioni balenanti nelle pupille di uno stormo in attesa. La voce che su quelle ali migra verso il buio, ignara si trascina l’eco di mai disperse nevi - si aggruma oltre l’orizzonte che sbrina nel chiarore, risale l’acqua di un antico sole stringendo in bocca rose dal rapinoso stagno delle ore.
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Mani che annaspano nell’aria dietro vele salpate al richiamo di un faro - mani che stringono le stesse parole mute che il polline semina nel vento per salutare l’esilio della foglia dalla spina. Mani arrese a un volto che si scioglie come la terra d’autunno in devozioni d’acque, come la notte a un passo dall’addio che marchia il cielo col rosso del suo sguardo, prima di immergersi per legge di silenzi nella luce improvvisa di non visibili tracce.
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Nessun fiore nello spazio sabbioso di urne di canto - solo la polvere dice di un astro venuto a lambire per strade di fiamma la sorgente dove lo stelo si veste d’immenso e s’affila nell’orbita di cieli scoperti per caso. Nessun fiore racconta alla voce le sue storie di un giorno covate tra febbri e radici – quando sporge oltre i bordi bagnati di luce a contemplare la chiarità di una morte sapiente, il colore dissolto nell’onda di un’acqua ormai cieca.
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Se potesse il nostro sguardo consumato dalla febbre del cammino, fiume irrequieto di memorie, fermarsi a rimirare gli orli feriti delle immagini che costellano le rive, e osservasse le pietre dove frange la marea dei giorni come un uccello fissa il proprio volo negli specchi del cielo, anche il nulla di cui fa fede la risacca illimitata dei miraggi sarebbe un silenzio che trascorre in natura di deserto rifiorito, il mistero che si schiude dal grembo di neve dell’aurora, la gemma che s’annuncia nel respiro profondo della pioggia, l’astro delle stagioni che fascia i calici dell’anima. Sarebbe voce stagliata su orizzonti di vertigine, alfabeto di fuochi in fondo al mare, e i nostri volti, tutti, gli infiniti nomi della luce.
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Pensa un istante sottratto a dimore d’inchiostro, una sillaba refrattaria a immobili eternità di alfabeto. Pensa una parola che si leva in volo e s’inoltra in sconosciute migrazioni d’esilio, in terre silenti di un tempo fuggito dal seno di meridiane spente. Pensa. E poi immagina la fedeltà laboriosa di una gemma al suo destino d’essere e passare. Il suo lampo che attraversa la mente e rovescia in cristalli di veglia lo sciame lunare di un grido, ha il volto schiarito dell’ultima pagina conquistata a fatica - è una lacrima che traghetta fuochi, e annuncia il giorno colma del gelo di fiori mai nati.
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Sul volto di una pietra levigata da lingue di sorgente, i segni di luoghi aperti a venti di visione – le orme del tempo e l’acqua, a immagine del cielo, che si avvicina a cavità di quarzo con mani colme del lume delle fonti. Domani sarà un flauto che risale l’aria e incastra suoni nelle lettere del mondo, una guglia accesa su cattedrali d’alghe, oppure uno sterpo, un glifo di sabbia dove l’ombra s’imbevera d’azzurro. Domani sarà albero o stelo di granito, pupilla in volo o cieco affluente di memoria, sarà fiamma, pioggia, luna trapassata d’echi, forma indefinita, pulviscolo, pensiero - domani sarà una rosa, verdissima linfa che soffia luce all’alba.
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Erbe al passo delle fonti, con nomi d’alberi e di stelle iscritti in libri d’ore, segnati dal labbro rossofuoco del deserto. Domani porta con sé reliquie di respiro, lo spazio inviolato di occhi risanati con linfe di visione. Le parole per dire la distanza incolmabile tra gli steli e la mano le possiede il silenzio - indicibili rose d’abisso germogliate all’insaputa degli occhi tra le pagine d’ombra di memorie mai scritte.
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Lascia incolti gli specchi del silenzio la pupilla di un fiume - antica, perpetua nel suo sottrarsi alla carezza evocata da ciò che non ha voce. Chi grida speranze dalla cenere immobile del tempo, attende che il suo vaso si colmi dell’anima di un fiore - dei suoni d’acqua che inconsapevoli corrono alla caduta nella tenebra del mare. La luce che lievita con lo stesso nome, declinando aggiunge fiamme al fuoco, ore alla clessidra – prima che il labbro della sera cancelli note chiare dall’arco del suo canto.
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L’occhio segreto di una rosa innevata di giorni contempla sui bordi del cielo sciami di luci alate partorite dal sogno delle spine, s’immerge nella purezza d’acqua del silenzio. A te che attendi dalla misericordia dell’aurora il dono di un fuoco fiorito, una sorgente accesa tra le sillabe di sabbia del tuo volto, l’inudibile dio che libera nell’aria il vento del disgelo colma la pupilla di presenze, un concilio di immagini raccolte in taciti, liquidi cristalli di sale. Tu le chiami lacrime, schegge di mondo che il nulla strappa a un grido - ma il nulla è nella mano di chi sigilla il varco, cancellando quelle tracce d’infinito dal suo ciglio.
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Il calice inviolato di memoria su cui talvolta posano le labbra al lume d’invisibili presenze, conserva la neve segreta sposa dei boschi, il bagliore dove dio si mostra nel vento sempreverde di una gemma. Il suo occhio che d’un tratto s’illumina nell’eco sotterranea di una fonte, fruga tra le brume fumanti l’ombra dalle mille braccia nella cui stretta farsi corpo, albero, eternità migrante in un respiro.
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C’è sempre un’ombra che ci somiglia, rinserrata in noi, nelle pupille, come cenere nell’urna, come una vela nel porto alla fine d’una lunga traversata. La strada degli occhi è costellata di onde che il giorno visita una ad una prima di immergersi nell’oblio di quarzo degli abissi. È cammino di voci che bussano alle tempie in cerca di dimora, è fiochi grani di pollini vaganti in reti di alveare, è lingua di sorgente in attesa del deserto in cui svanire. Immagina una rosa di nessun luogo, la rosa dei miraggi, nella cui luce il tempo schiuma unguenti di destino, e senza suoni guarisce la ferita delle sabbie.
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Ramifica intorno alla voce l’iridescente muschio verdebuio, occulta arsura galleggiante nel pozzo delle mani, ultimo porto di luce nel declinare aspro dell’estate. Presto anche il polline troverà dimora in estasi di tuono e una parola, tremula luna in respiri di passaggio, allaccerà i suoi occhi alle vene rosseggianti di una foglia – parola àncora in acque inavvertite di piovasco, indicibile come il lampo che cava dalla pietra un grido e trapassa il silenzio appesantito d’ombre di una rosa che imbianca sul crepuscolo. I fiori dell’autunno parlano dal cupore fondo che ha il luccichìo dell’anima dei morti.
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Sigilla nella purezza del gelo l’alfabeto sulle cui ali attraversi i giorni, trascinando di soglia in soglia il dolore di una luce che non ha più parole. L’estasi costellata di presagi di un petalo che cade nell’onda di risacche d’erba, il faro sempreluce racchiuso nello scrigno di un grido di gabbiano, cercano il porto in carità di nevi, si fanno vela nel vento che stempera il fuoco dei pensieri, e da maree di tempo approdano alla lingua dei tuoi occhi.
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Risonante ombra frammezzo gli occhi di una stella incisa a punta, a strali, o sulle ali offerte in voto a un angelo di marmo – ombra che regge la repentina luce che nomina, oscurandoli, i ceri di un grido e della sera. Qualcosa sbarra il passo a transiti di luna – stellalbe deserte sul ciglio di una rupe o gli occhi del cielo rilucenti di schiuma verdefaro. Qualcosa d’incompiuto, nell’ora che s’innalza come una preghiera sul margine più quieto di silenzi arresi a interminabili, luminosi baratri di gigli.
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S’inarca il fuoco di un fiume mareggiante d’ali trattenuto dal vento a un passo dalla foce, dialoga con la notte dai pori accesi dei suoi mille occhi, e l’eco riporta cristalli azzurrati di perdute sorgenti, l’infanzia offerta in dono alla sete della terra e delle stelle. Dalla sua ombra prendi soltanto quanto basta per farti mondo e orientarti su strade d’uragano, camminare tra spine di boschi pietrificati e luci che fuggono al riparo delle pietre, lo sguardo filtrato da corpi trasparenti in bilico nell’aria che arde di faville, e ti apre il varco alle distese di un canto senza voce.
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