FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 24
ottobre/dicembre 2011

Crisi

 

COME UN PAPAVERO SPUNTATO SULL’ASFALTO
Su Co'e man monche, ultimo libro di poesia di Fabio Franzin

di Anna Elisa De Gregorio



Chi ha letto il precedente libro di poesie Fabrica, certamente si aspettava la nuova raccolta Co’e man monche (Le Voci della Luna, 2011), quasi una seconda stazione annunciata: l’attuale condizione operaia del Nord-Est di Fabio Franzin rappresenta un microcosmo esemplare della condizione operaia italiana: «i ghe ‘à dat nomi de rejón: «via/Lazio, o Caeàbria, Basiìcata…/’A zona industriàe, cussì, à ‘è/come ‘na Italia cèa,/conpagna/ squasi de quea che l’é a Rimini»…
Come scrive nella prefazione Manuel Cohen: «Lo choc della chiusura della fabbrica, il licenziamento, l’agonia della cassa integrazione, il senso di colpa per quello stare inermi co’e man in man, solcano la tetra e prospettica scena presente».
A unire i vari capitoli del libro alcune foto in bianco e nero di Anna Visini, immagini del vuoto e della crisi, macerie di una inutile basilica dalle croci arrugginite, echi di sudore e bestemmie in luoghi sconsacrati. Siamo spettatori di una moderna Apocalisse, verrebbe da pensare, senza urla, dove il silenzio è deserto:
      nel silenzio che rimane
      si cammina
      come sopra le macerie.
Questo accenno veterotestamentario è in sintonia con l’esergo al libro scelto da Franzin, tratto da Qoelet: «Il lavoro delle mie mani io guardo/ E la pena sofferta a farlo/Ed ecco è miseria tutto». Che è lo specchio, lo stato d’animo del poeta; più che la rabbia (da sempre stereotipo che accompagna gli operai) qui si legge dolore, si percepisce uno sdegno molto più profondo, una consapevolezza amara trasfigurata in parole di poesia: «E allora si sta qui in ostaggio/di un silenzio duro come/ il ferro; ora dopo ora le sbarre/si incrociano. Tu tacendo gridi».

Dice Franzin: «Non mi sono mai chiesto se ciò fosse/aspirasse ad essere poesia “civile”, ma ad un certo punto non mi bastava più cantare i fossi e le siepi delle mie contrade, anche perché quei fossi e le siepi erano sepolti dai capannoni… Questo anche con l’idea che la poesia debba trovare i suoi lettori fra la gente comune»
Ognuno dovrebbe scrivere di quello che veramente sa perché è l’unico modo di fare bene le cose, in questo caso Franzin fa bene poesia perché racconta la “sua” vita operaia, vita di tutti gli operai: Co’e man monche è un libro-poemetto senza titoli, in un flusso continuo, dettato da una urgenza accumulata negli anni, che ci presenta una serie di inquadrature girate in “esterni”, composte quasi interamente da metafore prese dalla natura, da modi di dire popolari, a volte di matrice religiosa, dal “minimo” quotidiano, e in “interni” dove vediamo, fra e nelle parole, terrazzini, cucine, famiglie (figli, mogli), dove spesso i ruoli “casalinghi” sono stravolti dalla necessità, stati d’animo, fino ad arrivare, via via che si susseguono le sezioni, ai problemi più intimi, ai “mali” di un corpo che parla, che è corpo anche nostro. Una visione a tutto tondo, lucida e drammatica.

Per commentarla esemplari sono le parole di Rondoni sul Domenicale del Sole 24 ore di domenica 6 febbraio: «Ci voleva questo titolo duro e le immagini, i dialoghi che vibrano nella serie delle poesie aspre, i precipizi di solitudine e di tempo vuoto a cui Fabio Franzin ha dato voce per far sentire di cosa siamo tutti corresponsabili. Non è poesia di denuncia sociale. Sarebbe poco. Perché la poesia fa denuncia totale».
In effetti i versi sono aspri, sregolati, con assonanze al centro a volte, troncati all’improvviso, tanto che si fa fatica a isolarne un frammento rispettando la fine delle quartine o il punto:

      Dèss che del miràcoeo l’é restà
      sol l’eco zhigà pa’ piazhe e bar,
      e ‘l nord-est l’é tornà a èsser
      un grun de paesi persi tel caìvo
      fra stradhe e capanóni stuàdhi

      e ‘l sant l’é passà via ciamàndo
      un brut nùvoeo nero de tempesta
      co ’l só vècio pastràn da Pantaeón,
      se ‘spèta i grani tea testa sperando
      che Dio èpie remissión dee nostre

      vite senza casco, senza paracadute
      intànt che se casca drento ‘sto burón
      scuro, fra boéte che sóea come fòjie
      de un ‘utùno da luto: ‘e man come
      forche butàdhe de nòt drento ‘l pozh.


        Ora che del miracolo è rimasto
        solo l’eco urlato per piazze e osterie,
        e il nord-est è tornato ad essere
        un reticolo di paesi persi nella nebbia
        fra strade e capannoni spenti

        e il santo è passato via annunciando
        una nuvolaglia nera da tempesta
        col suo vecchio tabarro da Pantalone,
        attendiamo la grandine sulla testa sperando
        che Dio abbia remissione delle nostre

        vite senza casco, senza paracadute
        mentre precipitiamo in questo abisso
        buio, fra bollette che svolazzano come foglie
        di un autunno da lutto:le mani come
        forche gettate di notte dentro un pozzo.

La lingua usata (questa appena trascritta è la prima poesia della prima sezione Passà el sant, passà el miracoeo) è il dialetto veneto-trevigiano dell’Opitergino-Mottense, considerata «un po’ come in tutti i neodialettali una lingua da piegare, quando occorra, ai fini del ritmo, della musicalità; concedendosi, cioè, non poche, ma neanche troppe, consce, licenze». Insomma, avverte la Nota Storico-linguistica all’inizio del volume, non vi aspettate qui la purezza filologica. E noi nemmeno la cerchiamo, piuttosto restiamo irretiti dal ritmo di ballata, che è trascinante, come un battito di piedi sulla terra, di mani sul tamburo, e che, in certi momenti, sa diventare (così come sa fare anche la vita) accattivante, simile alle voci dei cantastorie o addirittura delle madri che parlano ai figli bambini.
Ci racconta Franzin: «Entrambe le “raccolte operaie” Fabrica e Co’e man monche sono nate sotto una sorta di dettatura incalzante, in meno di un mese. L’ho fatto spinto da una necessità da una pulsione; ero stanco di sentir parlare degli operari solo quando morivano nei luoghi di lavoro, o di macello; in più sentivo che a provare a descrivere il microcosmo di una fabbrica, forse si riusciva a parlare anche di ciò che sta fuori dei cancelli di una fabbrica».

Aspettiamo il suo prossimo libro, lasciamo andare Franzin a fare due passi con la sua felpa rossa (che tanto ci ricorda il colore delle lotte dei lavoratori) acquistata in saldo, lungo la zona industriale anche se fa “brutto tempo”: «Come un papavero cressù tel ‘sfalto» (Come un papavero spuntato sull’asfalto).




Fabio Franzin
è nato nel 1963 a Milano, da genitori veneti. Nel 1970, al seguito dei genitori torna in Veneto, a Chiarano. A sedici anni inizia a lavorare come operaio in un mobilificio, sua attuale professione. Vive a Motta di Livenza, in provincia di Treviso. Ha pubblicato libri di poesia in dialetto e in lingua:
    2000   El coeór dee paròe;
    2005   Canzón daa Provenza (e altre trazhe d’amór);
    2005   Il groviglio delle virgole;
    2006   Pare;
    2007   Mus.cio e roe;
    2009   Fabrica;
    2011   Co’ e man monche.


bolognini@mktplan.191.it




Su Fabio Franzin, vedi anche, nel n. 21
Fabrica
di Anna Elisa De Gregorio

e, nel n. 22, la silloge inedita
Ostie de tèra (Ostie di terra)