Chi ha letto il precedente libro di poesie Fabrica, certamente si aspettava la nuova raccolta Co’e man monche (Le Voci della Luna, 2011), quasi una seconda stazione annunciata: l’attuale condizione operaia del Nord-Est di Fabio Franzin rappresenta un microcosmo esemplare della condizione operaia italiana: «i ghe ‘à dat nomi de rejón: «via/Lazio, o Caeàbria, Basiìcata…/’A zona industriàe, cussì, à ‘è/come ‘na Italia cèa,/conpagna/ squasi de quea che l’é a Rimini»…
Come scrive nella prefazione Manuel Cohen: «Lo choc della chiusura della fabbrica, il licenziamento, l’agonia della cassa integrazione, il senso di colpa per quello stare inermi co’e man in man, solcano la tetra e prospettica scena presente».
A unire i vari capitoli del libro alcune foto in bianco e nero di Anna Visini, immagini del vuoto e della crisi, macerie di una inutile basilica dalle croci arrugginite, echi di sudore e bestemmie in luoghi sconsacrati. Siamo spettatori di una moderna Apocalisse, verrebbe da pensare, senza urla, dove il silenzio è deserto:
nel silenzio che rimane si cammina come sopra le macerie.
Questo accenno veterotestamentario è in sintonia con l’esergo al libro scelto da Franzin, tratto da Qoelet: «Il lavoro delle mie mani io guardo/ E la pena sofferta a farlo/Ed ecco è miseria tutto». Che è lo specchio, lo stato d’animo del poeta; più che la rabbia (da sempre stereotipo che accompagna gli operai) qui si legge dolore, si percepisce uno sdegno molto più profondo, una consapevolezza amara trasfigurata in parole di poesia: «E allora si sta qui in ostaggio/di un silenzio duro come/ il ferro; ora dopo ora le sbarre/si incrociano. Tu tacendo gridi».
Dice Franzin: «Non mi sono mai chiesto se ciò fosse/aspirasse ad essere poesia “civile”, ma ad un certo punto non mi bastava più cantare i fossi e le siepi delle mie contrade, anche perché quei fossi e le siepi erano sepolti dai capannoni… Questo anche con l’idea che la poesia debba trovare i suoi lettori fra la gente comune»
Ognuno dovrebbe scrivere di quello che veramente sa perché è l’unico modo di fare bene le cose, in questo caso Franzin fa bene poesia perché racconta la “sua” vita operaia, vita di tutti gli operai: Co’e man monche è un libro-poemetto senza titoli, in un flusso continuo, dettato da una urgenza accumulata negli anni, che ci presenta una serie di inquadrature girate in “esterni”, composte quasi interamente da metafore prese dalla natura, da modi di dire popolari, a volte di matrice religiosa, dal “minimo” quotidiano, e in “interni” dove vediamo, fra e nelle parole, terrazzini, cucine, famiglie (figli, mogli), dove spesso i ruoli “casalinghi” sono stravolti dalla necessità, stati d’animo, fino ad arrivare, via via che si susseguono le sezioni, ai problemi più intimi, ai “mali” di un corpo che parla, che è corpo anche nostro. Una visione a tutto tondo, lucida e drammatica.
Per commentarla esemplari sono le parole di Rondoni sul Domenicale del Sole 24 ore di domenica 6 febbraio: «Ci voleva questo titolo duro e le immagini, i dialoghi che vibrano nella serie delle poesie aspre, i precipizi di solitudine e di tempo vuoto a cui Fabio Franzin ha dato voce per far sentire di cosa siamo tutti corresponsabili. Non è poesia di denuncia sociale. Sarebbe poco. Perché la poesia fa denuncia totale».
In effetti i versi sono aspri, sregolati, con assonanze al centro a volte, troncati all’improvviso, tanto che si fa fatica a isolarne un frammento rispettando la fine delle quartine o il punto:
Dèss che del miràcoeo l’é restà sol l’eco zhigà pa’ piazhe e bar, e ‘l nord-est l’é tornà a èsser un grun de paesi persi tel caìvo fra stradhe e capanóni stuàdhie ‘l sant l’é passà via ciamàndo un brut nùvoeo nero de tempesta co ’l só vècio pastràn da Pantaeón, se ‘spèta i grani tea testa sperando che Dio èpie remissión dee nostre vite senza casco, senza paracadute intànt che se casca drento ‘sto burón scuro, fra boéte che sóea come fòjie de un ‘utùno da luto: ‘e man come forche butàdhe de nòt drento ‘l pozh.
Ora che del miracolo è rimasto solo l’eco urlato per piazze e osterie, e il nord-est è tornato ad essere un reticolo di paesi persi nella nebbia fra strade e capannoni spentie il santo è passato via annunciando una nuvolaglia nera da tempesta col suo vecchio tabarro da Pantalone, attendiamo la grandine sulla testa sperando che Dio abbia remissione delle nostre vite senza casco, senza paracadute mentre precipitiamo in questo abisso buio, fra bollette che svolazzano come foglie di un autunno da lutto:le mani come forche gettate di notte dentro un pozzo.
La lingua usata (questa appena trascritta è la prima poesia della prima sezione Passà el sant, passà el miracoeo) è il dialetto veneto-trevigiano dell’Opitergino-Mottense, considerata «un po’ come in tutti i neodialettali una lingua da piegare, quando occorra, ai fini del ritmo, della musicalità; concedendosi, cioè, non poche, ma neanche troppe, consce, licenze». Insomma, avverte la Nota Storico-linguistica all’inizio del volume, non vi aspettate qui la purezza filologica. E noi nemmeno la cerchiamo, piuttosto restiamo irretiti dal ritmo di ballata, che è trascinante, come un battito di piedi sulla terra, di mani sul tamburo, e che, in certi momenti, sa diventare (così come sa fare anche la vita) accattivante, simile alle voci dei cantastorie o addirittura delle madri che parlano ai figli bambini.
Ci racconta Franzin: «Entrambe le “raccolte operaie” Fabrica e Co’e man monche sono nate sotto una sorta di dettatura incalzante, in meno di un mese. L’ho fatto spinto da una necessità da una pulsione; ero stanco di sentir parlare degli operari solo quando morivano nei luoghi di lavoro, o di macello; in più sentivo che a provare a descrivere il microcosmo di una fabbrica, forse si riusciva a parlare anche di ciò che sta fuori dei cancelli di una fabbrica».
Aspettiamo il suo prossimo libro, lasciamo andare Franzin a fare due passi con la sua felpa rossa (che tanto ci ricorda il colore delle lotte dei lavoratori) acquistata in saldo, lungo la zona industriale anche se fa “brutto tempo”: «Come un papavero cressù tel ‘sfalto» (Come un papavero spuntato sull’asfalto).
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