L’uomo che incontro in fila a uno sportello bancario si chiama Paolo Bonomi. Era un bravo sottufficiale addetto al magazzino: per tre decenni ci siamo visti praticamente tutti i giorni. Scherzando si mette sull’attenti e urla: «Comandi signor colonnello!».
Si voltano a guardarci. Entrambi in pensione: gradi e titoli onorifici contano meno di zero.
Gli tendo la mano e lui mi abbraccia, non è la norma tra militari. Parla a ruota libera. Anche al bar dove andiamo per un caffè, dal tabaccaio, a casa davanti a mia moglie e al gatto Spiro.
Nessun allarme per le questioni personali, dice, né urgenze. Ma di che parla? Non lo capisco. No, aggiunge, però sarebbe il caso di farsi arrestare, andare in galera per le colpe che ci portiamo dietro. Quali colpe? gli faccio, ma Paolo non ascolta: in testa ha un disco rotto. Quanto durerà questa musica irritante?
Io e mia moglie pranziamo, lui non ha fame. Solo un bicchiere d’acqua, grazie, con due gocce di limone.
Io e mia moglie arrotoliamo gli spaghetti al sugo e lui straparla. Lei ogni tanto mi tira un’occhiataccia: «Ma chi cavolo ti sei portato dietro?».
Resisteremo altri 15 giorni o 15 mesi, chi può dirlo? Poi si vedrà il da farsi, dice alzandosi di scatto. Ne riparleremo, se avrete voglia di ascoltarmi. Ora tolgo il disturbo.
Mando giù il boccone, mi pulisco le labbra e accompagno alla porta quell’ospite poco gradito. Intanto lui seguita a parlare di tutto e di tutti e noi a non capire niente di nulla. Anche se le frasi sono fluide, scandite come slogan.
Dobbiamo tenere duro, dice, non soffrire troppo, se possibile, né togliersi di mezzo sparandosi un colpo di pistola. Eh no, cazzo, sarebbe troppo facile, troppo comodo. E poi la pensione chi se la gode?
Prima di salutarci esplode in una risata che gli devasta il volto ricoperto di nei e rughe. Gli occhi sono due fessure. Ride di cuore e ci abbraccia come fratelli o amici inseparabili. Con mia moglie è la prima volta che s’incontrano.
Ho preso il sopravvento, ci sussurra a cinque centimetri dalla faccia, sulle incertezze, sulle speranze. Nessuno muove un dito per allontanami dalla marea, per ripescarmi. Nemmeno mia moglie, morta l’anno scorso. Mi ha lasciato solo e io non so cucinarmi neanche un uovo, stirarmi le camicie. I miei tre figli vivono lontano, se ne stanno per conto loro. I miei nipoti li vedo raramente e di me hanno paura. Ma ora, dice enfatico, ci siete voi!
Poi accade una cosa che mi sorprende.
Mia moglie, con Paolo fin troppo astiosa, richiude la porta e gli impone di restare altri cinque minuti. Lo fa sedere nella poltrona più comoda del salotto e corre in cucina a preparare il caffè. Lo beve sorseggiandolo e facendo i complimenti: forte e caldo, proprio come piace a me. Tutti hanno fretta, sempre mille cose da fare, vero? E noi due a fare di sì con la testa.
Dovevo capirlo prima, non mi sarei ammalato. La sola cosa che posso fare, visto che sono un vecchio decrepito e rimbambito, è quella di resistere con ogni mezzo, con ogni espediente.
Resistere al disfacimento fisico e mentale.
Resistere fino alla fine.
Seguita a parlare. Frasi brevi, a volte a effetto, ma che per noi non hanno significato. Si afferra una devastante angoscia di fondo, un’immensa solitudine.
Ci abbraccia di nuovo e questa volta bacia mia moglie sulle guance. Si piega per accarezzare Spiro che subito scatta da una parte per evitarlo. Davanti all’ascensore si volta, le lacrime lungo le rughe. Ci ringrazia e scandisce l’unica frase inequivocabile dell’incontro: «Posso telefonarvi qualche volta?».
Paolo non telefona, però passa a trovarci, senza avvisare. Un paio di volte al mese, in tarda mattinata. Porta dei fiori a mia moglie, qualche volta una crostata. Poi pranziamo assieme.
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