Crisi finanziaria, crisi dell’Occidente, crisi di valori, non si parla d’altro. Ma forse è solo la fine della pacchia immeritata di una società che continua a vivere al di sopra delle proprie possibilità. È crisi mettere in discussione le scelte economiche, i parametri finanziari, i tetti di spesa, gli stili di vita?
La crisi è tale per chi perde il lavoro, per chi lo cerca invano, per chi studia con profitto senza trovare sbocchi professionali. Ma per i più, per un mondo che corre alla velocità del suo folle consumismo, questa crisi rappresenta una salutare pausa critica, un prezioso bagno di umiltà.
Saremo tutti meno ricchi, o un po’ più poveri?
Bene, questa non è crisi. Crisi è altro.
La vera crisi è sempre un fatto individuale, e riguarda l’anima, non il tenore di vita. Come rivela il suo etimo (greco krìsis, che vuol dire separazione, scelta, giudizio), crisi è quando sei separato da te stesso, quando le tue scelte paiono dettate da un demone che domina la mente e i pensieri. Crisi è smarrirsi, entrare nel buio; sai che ti ha preso perché avverti il peso di un’angoscia che è impossibile sopportare.
L’11 settembre 2001, nel disastro delle Torri Gemelle, muoiono i fratelli John e Joe Vigiano, vigile del fuoco il primo, poliziotto il secondo. Erano due uomini robusti, entusiasti, innamorati del loro lavoro; “due forze della natura”, come ha ricordato in una recente intervista il loro papà. Accorsi alle Twin Towers per prestare soccorso, non ne sono usciti vivi.
“Da allora non abbiamo più una vita”, dicono i loro genitori. Non ridono più, non celebrano più feste né ricorrenze, non vogliono vedere nessuno. Ecco, questa è la crisi. Ti morde il cuore, e può prenderselo nel bel mezzo della tua esistenza comoda, pacifica, apparentemente sicura.
Nel 2003, durante una gita in montagna organizzata dall’azienda svizzera per cui lavora, Matthias Schepp, un bell’uomo trentaquattrenne, simpatico e intelligente, conosce la collega Irina Lucidi. Si innamorano, si sposano e vanno a vivere a Champagne, cittadina non lontana da Losanna. Nel 2004 l’unione è allietata dalla nascita di Alessia e Livia, due splendide gemelline. “Lui”, dichiara Irina nei giorni del dramma che ha commosso l’Europa intera, ”era un uomo solare ed estroverso”, ma anche “inquadrato, metodico, pianificatore”; purtroppo, queste ultime caratteristiche si accentueranno nel tempo, imprigionando Irina in una gabbia di regole rigide e insopportabili. Anche con le bambine, Matthias è affettuoso, ma – afferma sempre Irina – tende a organizzare la loro vita nei minimi dettagli, non accorgendosi di soffocare la loro personalità.
Dopo alcuni anni di felicità, l’unione entra inesorabilmente in crisi. Nell’agosto 2010 i due coniugi si separano; il 27 gennaio 2011, via mail, Irina trasmette a Matthias la richiesta di divorzio. Il guaio è che lui ama ancora sua moglie; a modo suo, certo, perché l’amore esige anzitutto rispetto della personalità dell’amato, un qualcosa che, secondo Irina, Matthias aveva completamente smarrito.
Disperato, Matthias tenta la riconciliazione più volte, invia alla moglie appassionate lettere d’amore. Ma Irina il suo amore l’ha perso, e Matthias, infine, deve arrendersi all’evidenza.
Fermiamo l’attenzione a questo momento. Schepp è un uomo che ha avuto tutto dalla vita: bello, intelligente, un buon lavoro, un ambiente sociale tranquillo e sicuro, due figlie meravigliose. Ne ha perso uno, però: la moglie. Ed è la crisi; tolto un sasso, crolla l’intero edificio.
Domenica 30 gennaio 2011, Matthias Schepp è con le figlie, insieme alle quali ha trascorso il week-end. Fra il 30 e il 31 fugge da St. Sulpice, elegante periferia di Losanna, ed entra in Francia. Il 31 gennaio viene ripreso da una telecamera mentre ritira dei soldi da un bancomat di Marsiglia. Il 1° febbraio è a Propriano, in Corsica; attraversa l’isola, arriva a Bastia, e da qui, con un traghetto, torna in Francia, a Tolone. Il giorno seguente entra in Italia, dirigendosi verso sud. Il 3 febbraio pranza da solo in un ristorante di Vietri, sulla Costiera Amalfitana; lo stesso giorno, di sera, si getta sotto un treno a Cerignola, in provincia di Foggia.
Una mente sconvolta, eppure lucidissima: Schepp ha fatto scomparire le sue bambine, ma confondendo i suoi movimenti e le sue intenzioni ha sapientemente depistato le future indagini. Nonostante l’impegno delle Polizie nazionali di Francia, Svizzera e Italia, e l’uso delle più sofisticate tecnologie, a tutt’oggi il destino di Alessia e Livia rimane segnato da un angosciante punto interrogativo.
Una cosa è certa: Matthias Schepp era in crisi, una crisi nera. Il naufragio del suo matrimonio non ha trovato conforto in nulla: non nell’immutato amore per le sue bambine, non nel protettivo ambiente nel quale viveva, non nelle soddisfazioni professionali, non nel sostegno che può dare una fede.
Una mente malata? Può darsi; forse, inconsciamente, ce lo auguriamo tutti, perché questa vicenda ci ha messo di fronte non a una crisi, ma alla crisi. Non solo un buco nero: un buco nero nel quale un padre non esita a gettare i suoi figli, e poi se stesso.
La crisi economica, l’impoverimento, la disoccupazione: sono eventi spaventosi, ma nessuno si suicida se non scendono a toccarti quella cosa, l’anima. È la crisi interiore, lo smarrimento dell’io a recidere le radici della vita.
D’improvviso sei solo, staccato da tutto e da tutti, perduto nella voragine di un dolore infinito e silenzioso. Forse, la solitudine di un uomo innamorato e abbandonato è diversa e più terribile di ogni altra solitudine.
Ogni amore comporta sacrificio, limitazione del proprio io, possibilità del fallimento. Schepp aveva una vita davanti a sé, poteva affrontare l’ostacolo della crisi del suo matrimonio e cercare di vincerlo, di superarlo. Ma per Schepp era arrivata la crisi, lo stato d’animo che ti fa negare l’esistenza di ogni cosa. Così, usa le figlie per punire la moglie: tu mi hai dato un dolore insopportabile, io te ne darò uno ancor più terribile.
Nonostante l’istinto materno le faccia ancora sentire “il dolce abbraccio, la morbida pelle, il respiro lievissimo” dei propri figli, Medea non desiste dal proposito di ucciderli. “So bene”, le fa dire Euripide, “quali mali sto per commettere, ma la passione è più forte della mia volontà; la passione, che è causa ai mortali delle più grandi sventure”.
È questo il cuore di tenebra dell’uomo?
Sì, ed è un qualcosa che ci appartiene ontologicamente. Il dramma di Matthias Schepp è il dramma dell’uomo in senso più generale: è l’incapacità di commisurare la portata dei nostri desideri alla crudezza della realtà. Ognuno di noi si sente il re del piccolo mondo nel quale vive ed opera. Ma anche nell’universo casalingo si può materializzare la famosa frase di Sartre: “L’inferno sono gli altri”. La perdita dell’amore di Irina, e la conseguente agonia del suo matrimonio, sono diventate, per Schepp, la crisi, il male assoluto.
“Il male”, scrive Freud ne Il disagio della civiltà, “è in origine ciò che minaccia l’individuo con la perdita dell’amore”. Schepp, a un certo punto, deve essersi sentito come la creatura più disgraziata al mondo, un mondo indifferente e impotente verso l’angoscia di un uomo che pensava di soffrire ingiustamente. Ma l’egotismo di Schepp – l’incapacità morale di confrontarsi con la realtà, con la naturale alterità del mondo e degli esseri che lo abitano – è l’egotismo di tutti noi, confusi e fragili più che mai, delusi dagli ideali che per millenni hanno reso più facile la sopportazione del mal di vivere; la nostra è la prima società civile che non ha al proprio centro un qualcosa di trascendente.
Siamo diventati noi il centro del mondo. Vogliamo, anzi pretendiamo, consenso, piacere, notorietà, soldi. Ma consenso, gloria, soldi, sicurezza personale e familiare sono degli obiettivi, non delle certezze. Quando pensiamo che dobbiamo centrarli a tutti i costi, e sbagliamo il tiro, il risultato può esserci fatale.
La fuga di Schepp era la fuga impossibile da uno spettro che non lascia scampo: il vuoto di senso, ovvero l’immanenza della morte nella vita. L’eros sconfitto diventa sempre thanatos. Benché, sin dal nostro concepimento, la vita ci chiami, ci alletti con le sue innumerevoli seduzioni, il buco nero, la crisi ultima è sempre accanto a noi, un metro più in là dei passi che abbiamo appena compiuto. È il pensiero che guida i capolavori dei primi tragediografi dell’Umanità, il già citato Euripide e, prima di lui, Eschilo e Sofocle.
Nell’Edipo a Colono, Sofocle scrive, nel terzo stasimo, una delle frasi più terribili della storia letteraria: “Non nascere è sorte che vince tutte le altre; ma quando nati si sia, ritornare là donde s’è venuti, al più presto, è molto miglior sorte”.
Quando perdiamo ogni illusione, dinanzi a noi si spalanca l’abisso, e deve essere un sollievo gettarsi nell’infinità del nulla.
Edipo a Colono di Fulchran-Jean Harriet
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