Alla fine del 2010 Roma ha ospitato una serie di iniziative finalizzate alla celebrazione dei cento anni dalla scomparsa di Lev Tolstoj. La mostra sul grande scrittore e il convegno di studi al complesso di Sant’Andrea al Quirinale, il documentario girato in Russia e in Italia, Non posso tacere!, per la regia di Aldo Demartis e la sceneggiatura di Agostino Bagnato hanno riaperto un discorso che da noi non ha avuto il rilievo che meritava. Lungi dall’essere lo scrittore a tutto tondo, pacificato con la storia e gli uomini, come ci è apparso dalla lettura per lo più episodica di Guerra e pace, Tolstoj ha avuto un ruolo di completa rottura non solo verso la tradizione e la politica russe, ma verso la cultura in generale, perché ad un certo momento della sua vita egli ha messo in discussione il modo di concepire il fare cultura in occidente, a prescindere dalla qualità o meno del prodotto culturale “finito”.
La sua stessa morte è diventata il simbolo del rifiuto radicale di una vita passata – era lui stesso che lo confessava – nel lusso e nello sfruttamento del lavoro degli altri: come è noto, alle sei del mattino di un rigido sette novembre (secondo il calendario giuliano) di cent’anni fa il conte Lev Nicolaevič Tolstoj moriva nella stazioncina ferroviaria di Astrapovo, fuori dalle grandi rotte di comunicazione della Russia di allora.
Perché era scappato di casa, fino a quella sperduta stazione, alla bella età di ottantadue anni, un famoso scrittore, conosciuto in tutto il mondo, fondatore di una nuova forma di socialismo evangelico e scomunicato dalla Chiesa ortodossa russa?
Perché pensava che la sua vita – e con la sua quella dei borghesi e dei nobili – non avesse senso.
Agiatissimo nobile, nato nella tenuta di Jasnaja Poljana, aveva alle spalle romanzi come Guerra e pace (1869, ma iniziato anni prima), Anna Karenina (1877) e Resurrezione (1899) e una serie di no! gridati contro il lusso, contro lo zarismo, contro la religione ufficiale, contro la cultura, non solo quella aristocratica, ma qualunque pensiero che non tenesse conto dei bisogni, religiosi e reali, del popolo. Poiché quasi tutti gli scrittori potevano permettersi di essere tali grazie ad una buona situazione economica, e poiché essi parlavano in genere di sé, di amori, di sensualità, di feste da ballo, ecco che quasi tutta la cultura veniva trascinata nella condanna, resa ufficiale dal suo scritto Che cos’è l’arte (1897): l’arte è attività parassitaria, inutilità, raffinatezza borghese e decadente, negazione della dignità umana fatta invece di lavoro e solidarietà e di rapporto personale con Dio. La cultura è roba per gente ricca, che non ha nulla da fare, e che per poter avere il lusso di scrivere sfrutta il lavoro dei poveri, costretti a rompersi la schiena nei campi e nelle fabbriche.
Gradualmente Tolstoj aveva reciso i ponti con il suo passato, tentando di assolversi, inutilmente, anche dal fatto di essere uno scrittore, facendo morire suicida (sotto un treno, e non è un particolare da poco: i treni hanno un significato funebre nelle opere e nella vita dello scrittore) la sua eroina Anna Karenina.
Eppure Anna era, o almeno sembrava essere, dalla parte della ragione “moderna”: amava un uomo, sacrificava la famiglia a questo amore, si era messa contro tutta la buona società di San Pietroburgo in nome di questo amore. Ecco la contraddizione di tutta una vita, quella di Anna, quello del suo creatore, quella dei nuovi inquietanti profeti di sventura perché facevano morire i sogni di felicità di un’umanità ridotta al culto delle cose (già allora!) con i loro personaggi, col sangue del loro sangue, come aveva fatto Flaubert con Emma Bovary, come Fogazzaro per liberarsi dall’ossessione della Marina di Malombra.
Non è un caso che le eroine europee siano imbevute di cattivi romanzi, romanzi d’appendice, romanzi d’amore, ma in ogni caso libri, quegli stessi libri di cui Tolstoj coglieva il vizio d’origine di essere stati scritti da parassiti e borghesi che inventavano storie, invece di lavorare e aiutare i poveri e gli sfruttati.
Il destino di Emma, di Marina e di Anna è la morte, non tanto per il tradimento o per una vita dissoluta, ma per l’aver visto e vissuto la vita dalla parte sbagliata, quella dell’amore borghese fatto di sensualità ed egoismo, di frivolezze e di colpevole noia.
Anche qui emerge l’assoluta radicalità del pensiero dell’ultimo Tolstoj, che pochi hanno voluto mettere in rilevo, perché questa radicalità colpisce la natura di classe della letteratura e dei suoi canoni, è, per così dire, troppo totale per essere assimilata.
Meglio parlare allora, in quest’ottica dettata da un processo di rimozione, del tutto tondo dei buoni e dei cattivi in Guerra e pace. Dimenticando che Tolstoj aveva puntato il suo dito accusatore non solo contro la cultura ma anche contro l’amore, come esso era concepito ai suoi tempi e non solo in quelli. Nella Sonata a Kreutzer è la stessa concezione della coppia ad essere messa sotto processo. L’uxoricidio è frutto non solo di una gelosia malata: se la gelosia diventa malattia, e malattia mortale, è perché la coppia è basata sul sesso, che è possesso animale, regressione allo scimmione originario, e non cammino spirituale, accettazione, rinascita a una nuova vita fatta di lavoro e sacrificio.
Ecco perché si è preferito glissare sulle idee dell’ultimo Tolstoj o calcare la mano sulle ubbie di un vecchio preda dei sensi di colpa – anche se abbiamo visto che sensi di colpa erano presenti in lui – o sulle fissazioni religiose e mistiche di un uomo che aveva perso il proprio equilibrio.
Perché Tolstoj non mette sotto accusa uno o due valori della società del suo tempo, ma la sua stessa natura e tutta la sua cultura, spazzata via come un passatempo colpevole di ricchi che non avendo niente da fare possono permettersi il lusso di scrivere. Raramente la critica sociale di uno scrittore ha raggiunto livelli così radicali di estremismo: un altro grande critico come Zola si era fermato molto prima, rimanendo legato a un discorso di classe e di progresso, accettando per il resto la funzione avanzata e sociale della letteratura.
Tolstoj aveva capito nello stesso tempo il fascino meduseo e l’inutilità del modo di vivere dell’intellettuale occidentale, compreso l’intellettuale russo, anzi, soprattutto lui, spesso sbeffeggiato per la sua mania di essere all’avanguardia delle mode trasgressive o esoteriche che venivano da un’Europa che Tolstoj riteneva malata.
Lo stesso scrittore, la sua vita di ricco possidente, erano sotto accusa. Da una parte c’era il suo essere uomo pieno di passione, di autore che narra cose futili, dall’altra c’era il suo sguardo sulla gente cenciosa che con i figli affamati tendeva la mano per strada, la parola del Vangelo che non lasciava dubbi sul campo da scegliere, il rimorso di una vita beata grazie proprio agli stenti del popolo sfruttato. “Io sono complice di queste cose terribili (le condanne a morte dopo i moti contadini del 1905, ndr.), io non posso comunque non sentire come vi sia una indubbia dipendenza tra la mia stanza spaziosa, il mio pranzo, i miei abiti, il mio tempo libero e quei terribili delitti che vengono commessi per eliminare coloro che mi toglierebbero di certo ciò di cui godo, se non ci fossero le minacce del governo a trattenerli: io non posso comunque non sentire che ora la mia tranquillità è effettivamente garantita da tutti quegli orrori che vengono commessi dal governo. (…) Non si può vivere così, non posso e non lo farò”: così scrive Tolstoj in Non posso tacere!, roso dai sensi di colpa. Ma non lascerà mai completamente quella vita, fino al giorno in cui decise di scappare, di lasciare la fonte di ogni nausea.
Non gli bastava più dare soldi ai contadini, aiutarli ad espatriare. Testimoniare significava cambiare vita, non solo comandarlo agli altri. La sua idea di Dio era davvero personale, perché in realtà Dio per lui era l’insieme degli uomini di buona volontà, e Cristo era il liberatore da se stessi, dai propri peccati, non l’uomo dei miracoli e dell’aldilà. Per queste sue personalissime idee fu scomunicato il 22 febbraio dal Sinodo della Chiesa ortodossa come “falso dottore”.
Non è un caso che fu Lenin a riaprire il caso Tolstoj, con i suoi saggi sullo scrittore, individuando da una parte la bontà del suo ruolo di contestatore delle colpe del feudalesimo zarista ma dall’altra i limiti di un atteggiamento che secondo il leader bolscevico era fuori del tempo, remissivo, non violento e per questo votato alla sconfitta da parte delle forze economiche e politiche messe in discussione. Vero da un punto di vista marxista e bolscevico di un uomo che proveniva dall’esilio e dall’opposizione contro lo zarismo, ma falso dal punto di vista delle infinite varietà delle incarnazioni dello spirito della storia che non sono solo quelle delle dinamiche di classe, ma delle idee che vanno avanti anche a forza di battaglie ideali e non violente: la sua idea di non resistenza al male fu infatti apprezzata e ripresa da Gandhi e dal pensiero pacifista novecentesco, che hanno creato un nuovo modo di rispondere alle sollecitazioni della storia attraverso la non resistenza al male per non creare nuovo male e attivando quello che è probabilmente uno dei più affascinanti e singolari prodotti del secolo breve, ma capace di diventare strumento di liberazione non solo per i popoli asiatici ma all’interno stesso dell’Occidente. Lo I have a dream di Martin Luther King non potrebbe essere compreso a fondo senza il contributo della non violenza, che discese in India dai freddi boschi di Jasnaja Poljana.
testi.marco@alice.it
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