La vecchia storia dell’eclisse del sacro rischia di rimanere una favola se si guarda ad una buona parte della poesia italiana in cui, come già in passato, proprio su queste pagine (Ritratti tra tenebra e luce, Fili d’aquilone n.4 del 2006), mostrai la persistenza di una religiosità profonda e radicata, anche nelle voci più recenti. Questa apparente controtendenza – ma bisognerebbe farla finita di scimmiottare le banalità dei media che rischiano di creare una realtà in sé e del tutto virtuale - della lirica contemporanea ha oggi una prova piuttosto consistente, perché si appoggia sull’autorità di Mariangela Gualtieri, una delle più sicure tonalità poetiche degli ultimi anni. Il suo recente Bestia di gioia è religiosità pura, ma distante, anzi opposta, al santino, alla traduzione liturgica in verso, al riversamento del dogma in sede lirica. Qui la luce della grazia e della Grazia proviene dall’interno, dall’assoluta assunzione in corpore vili dell’amore al creatore e alla creatura, della ricerca del senso e del dubbio, dello sguardo sulla materia e oltre la materia.
Questa è la poesia dell’accettazione in toto dei rischi della vita e dei conti da pagare, senza i consueti lamenti sui dolori del proprio io indifeso o le datate ironie sullo spirito e sulla fede. La Gualtieri segue sentieri nuovi, ricoperti di vegetazione, ma quando se ne libera un poco ci si rende conto del riaffiorare di antichi e impervi percorsi. Il paragone naturalistico non è casuale, perché lo spirito della terra e della creazione occupa manu militari tutta l’opera, fin dal titolo, senza diventare però manifesto, programma, rivendicazione. Qui si riapre l’antico sentiero del Cantico francescano e di quella poesia di cose che giustamente Etienne Gilson vide ancora presente nella “grana grossa” di certo francescanesimo ancora constatabile in Villon e Rabelais, tanto per dirne una. Non vorrei sfondare porte aperte, ma ritengo che si possa con una certa approssimazione affermare che il Seicento poetico in Italia abbia fatto più danni del previsto e dello studiato, con l’armamentario retorico che ha stravolto completamente la poesia e i legami tra questa e la religione. È possibile che alcune incomprensioni e certe idiosincrasie dell’oggi vengano da lì.
Ma la “grana grossa” di cui parlava Gilson andava bene per alcune esperienze filtrate dal pauperismo e dall’affidarsi alla strada di certe esperienze religiose, non per la poesia della Gualtieri, che scorre spesso lieve e colloquiale, e che tuttavia tiene conto dello spessore della materia, del peso delle cose, della fame d’amore e della fame di vita, ma anche della stanchezza e della rassegnazione: in poche parole riesce ad operare una sintesi instabile della danza del mondo senza cadere nel materialismo determinista, nel panismo radicale o nel panteismo, se proprio volessimo tranquillizzare zelanti parcellizzatori del dogma, posto che si possano quantificare le percentuali di panteismo e panismo in un’opera come quella poetica in cui il sottosuolo del non-detto e dell’inconsapevole la fa da padrone.
Della Gualtieri di Bestia di gioia colpisce soprattutto la capacità di fondere colloquio e musica, danza e sorriso arcaico del sì primigenio, di cui il sì mariano è compimento. È la prova che la poesia non si è mai ritirata a vita privata e che anzi riacquista forza grazie ad una energia molto vicina a quella (e non è un caso che sia di una donna) della gestazione, perché vi grondano umori, sottintesi materni, attesa dello svelamento del senso finale di ogni apparenza, che ne fanno per forza una poesia religiosa, cosmica, cui le etichette stanno strette. L’amore personale e quello circolare per ogni elemento necessario della vita si rincorrono in un impercettibile movimento che ogni cosa comprende e giustifica:
Sii dolce con me. Sii gentile. È breve il tempo che resta. Poi saremo scie luminosissime. E quanta nostalgia avremo dell’umano. Come ora ne abbiamo dell’infinità.
Qui vengono schivati tutti i rischi e le blandizie dei luoghi comuni rivisitati, dal de contemptu mundi al Nobis cum semel occidit brevis lux di catulliana memoria, viene disarmata la gorgone della disperazione e della corsa verso il piacere esasperato prima della cessazione. Qui si mette in rapporto la gentilezza e la brevità del tempo, non in funzione deprecatoria, ma creaturale, con un avvicinamento (si guardi nel titolo all’allusione alla bestia) al mistero leopardiano (ma se è per questo anche pavesiano) della vita animale che dice sì al mondo e alla sua apparentemente inarrestabile danza, senza recriminazioni. Divino e animale si toccano, ma senza il ricorso alla facile mitologia: tutto è filtrato dal sé che ridistribuisce l’energia all’esterno dopo averla però assunta per quello che è: cibo del tutto, e non solo di una parte.
Per rimanere nel tema della assoluta animalità –intesa quindi come “resa” alla creaturalità e alla fine come parte del tutto- si legga un passaggio come questo:
Il firmamento è il capogiro di Dio La sua bestia stellata che conduce Il fuoco nelle strettoie del buio.
È evidente che – lo si accennava prima - in una poetica come questa parlare attraverso distinguo ontologici e teologici (panteismo, materialismo, psichismo, e via dicendo) non ha senso, perché l’accettazione del principio e della fine crea un movimento in cui ogni cosa assume dinamicamente un suo ruolo: il principio dentro la materia, la materia che è parte, non tutto, della creazione, il dio dentro e insieme fuori del tutto, la natura come segno, l’animalità come memento all’uomo di non crearsi nuovi motivi di infelicità con il rifiuto della crescita, dell’entropia, della apparente fine.
Il corpo qui assume un significato diverso da tanta poesia, perché vi precipitano elementi talmente diversi da non poter essere catalogati né pensare che siano tutti consci, anche perché essi fanno parte di infinite sfumature di visioni del mondo che hanno molto in comune: la creaturalità francescana in cui la morte corporale è sorella, la Genesi, il tao, il qjgong e il buddismo non sono qui parti che aspettano di essere assemblate per un nuovo progetto religioso, ma prospettive valide che rivelano comunanze non forzate che semmai denunciano la forza dell’essere, tale da farsi riconoscere in ogni latitudine umana. Il corpo in Bestia d’amore risente anche della lettura eliotiana del libro dei libri, soprattutto quando è enunciato il tema delle ossa:
Come si vede, ossa e gioia, fine e inizio si inarcano e si vivificano in quella che una volta si sarebbe detta virile accettazione della realtà, che qui è capovolgimento del nicciano volere essere e del Velle di Schopenhauer: è sì ad ogni aspetto del mondo perché nella molteplicità si intravede non una sfida o un ostacolo, ma una dichiarazione d’amore e un invito a cercare l’amato.
È per questo che Bestia di gioia rappresenta un momento importante per la poesia italiana del nuovo millennio, confermando la credibilità di quanti sostengono l’appartenenza della Gualtieri alla schiera della grande poesia femminile dei nostri tempi, il che vuol dire Guidacci, Campo, Spaziani, Merini, e sono solo pochi nomi.
Mariangela Gualtieri, Bestia di gioia, Einaudi, 2010, pp. 131, 12 euro.
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