Nel breve panorama della poesia brasiliana contemporanea che sto tracciando, ho presentato nel numero otto di Fili d’aquilone (ottobre/dicembre 2007) il poeta Ferreira Gullar, nato a São Luís del Maranhão il 10 settembre 1930, lirico fra i più grandi del Brasile.
Torniamo ora a lui poiché sta per compiere ottanta anni e perché ha appena avuto uno dei più ambiti riconoscimenti delle letterature in lingue portoghese: il Premio Camões.
Avevo indicato come tutta la vita e l’opera di Gullar sia segnata dalla ricerca di un senso etico dell’agire e del vivere, nonché del fare poesia e letteratura. L’autore è coinvolto in prima persona negli avvenimenti e nei problemi del suo tempo, esposto ai venti tragici della guerra fredda che ha portato, con il pretesto di impedire il dilagare di idee socialiste e comuniste, a feroci dittature in tanti paesi del continente latinoamericano. Gullar non si è sottratto a tutto ciò, anzi la sua generosità di intellettuale impegnato lo ha costretto all’esilio dal 1971 al 1977, braccato da un paese all’altro dell’America Latina, in un periodo nel quale le polizie dei governi dittatoriali collaboravano nel dare la caccia agli oppositori, soffocando il desiderio di democrazia di tutto un continente.
L’esperienza dell’esilio lascia un segno indelebile nella vita e nella poesia dell’autore, tanto che ad essa Gullar ha dedicato un libro, Rabo de foguete - Os anos de exílio, pubblicato nel 1998, toccante testimonianza di un periodo tragico della sua vita. Nella poesia di Gullar, troviamo tracce del suo peregrinare attraverso paesi e realtà diverse, con molti testi di grande intensità che ci descrivono il disagio, l’estraniamento, la nostalgia, la provvisorietà che segnano la sua vita e caratterizzano l’esistenza degli esuli di ogni tempo.
Eppure, Gullar non è un nomade senza terra e senza patria, la sua poesia racconta di un tempo e di un luogo che è quello del presente del suo paese, celebra la luce che attraversa i corpi, i profumi e gli odori che lo avvolgono, il caos urbano che è la linfa delle sue parole, la città di Rio de Janeiro con le sue periferie tragiche, il rumore che fanno gli uomini per vivere. È da questa passione che sgorga la sua poesia, che è passione essa stessa e celebrazione dell’immanente. In un testo dal significativo titolo, “Arte poética”, egli afferma:
Non voglio morire non voglio marcire nel poema che il cadavere delle mie sere non venga a puzzare nel tuo mattino felice e il lume che la tua bocca casualmente accenda delle parole – benché nato dalla morte – si sommi ad altri fuochi del giorno ai rumori della casa e delle strade nel presente veloce.
Per creare e riprodurre l’energia intensa, il fuoco che è, per lui, l’essenza stessa della poesia, Gullar utilizza un linguaggio concreto e corrente, del quale fanno parte espressioni quotidiane, parole gergali e termini scurrili che danno conto di questa materia tellurica e incandescente che gli sgorga dall’anima sulla pagina bianca. Una delle sue raccolte più note ha come titolo Poema sujo (Poema sporco), in cui il sujo indica non solo la poesia, ma la vita stessa, intensa ed effimera, bella e dolorosa, che egli coglie senza paura di sporcarsi le mani o timore di scioccare il lettore.
Pubblichiamo, come omaggio anticipato ai suoi ottant’anni (li compierà il 10 settembre), le poesie che seguono, tratte dal libro Toda Poesia (1950-1999), José Olympio Editora, Rio de Janeiro, 2001.
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