Quando era arrivato nella stazione dei Carabinieri, si era sparsa subito la voce che fosse un tipaccio. “Faceva parte dei Corpi Speciali. È stato in Libano, è uno che ha sparato, questo c’ha le palle”.
“Già”, commentava un altro, “ma allora che ci sta a fare nella caserma di un Comune di mille abitanti? Non sai che la nostra è una stazione punitiva? Se è così cazzuto, perché l’hanno mandato in un posto dove non succede mai niente?”.
Sì, era un po’ un mistero, il maresciallo dei Carabinieri “Barbetta”. Il soprannome gli era stato affibbiato perché il volto pallido e glabro, illuminato da occhi chiarissimi, si appuntiva in un pizzetto biondiccio e ben curato, in strana armonia con la pelata e l’assenza di sopracciglia.
Un tipo schivo, dai modi essenziali, restio a socializzare. Lavoro e famiglia, nient’altro. Sposato con una libanese, aveva due bambini, che non frequentavano la Scuola Materna e non uscivano quasi mai di casa.
A quel tempo facevo l’ufficiale d’anagrafe, una professione che comporta frequenti contatti con la stazione dei Carabinieri. Così, col trascorrere delle settimane, fra me e “Barbetta” si stabilì una certa confidenza; una confidenza, mi confessò un giorno, destinata a non durare, perché attendeva un incarico che lo avrebbe allontanato per sempre dalla nostra caserma.
Nel tempo libero, “Barbetta” amava portare i suoi bambini, e spesso anche la moglie, in un grande prato alle pendici dei Monti Ruffi, dove si divertivano a giocare col freesbe e a far volare gli aquiloni. Li avevo visti molte volte, sfrecciando con la macchina lungo la strada che costeggia il “Rojo”, e un giorno decisi di fermarmi ad osservarli.
Quando “Barbetta” mi notò, mi fece cenno di avvicinarmi.
“Hai mai fatto volare un aquilone?”, domandò col sorriso più bello che gli avessi mai visto sulla faccia.
Risposi di no.
“Porta i tuoi bambini la prossima volta, vi faccio vedere come si fa. È bello, si divertiranno”.
Improvvisamente, mi accorsi che non avevo mai provato il piacere di liberare nel cielo ventoso dei Ruffi i fantastici arcobaleni di carta che destavano un’irrefrenabile allegria nei bimbi di “Barbetta”. Anche mio padre, nella bella stagione, mi portava a giocare nei prati della vallata; ma amava il calcio e la bicicletta, e furono questi i divertimenti che divisi per anni con lui. Allo stesso modo, realizzai, mi ero comportato con i miei figli: bici, calcio, nuoto, li avevo iniziati con passione ai benefici di questi sport, ma non avevo mai pensato al divertimento che desta in ogni bambino il volo libero e gioioso degli aquiloni.
Quando dissi loro che li avrei portati a giocare con le comete volanti dei figli di “Barbetta”, si mostrarono entusiasti.
Pochi giorni dopo, raggiungemmo insieme il prato del “Rojo”. “Barbetta” era già lì; in alto, sullo sfondo delle balze rocciose dei Monti Ruffi, volteggiava uno splendido aquilone multicolore.
“Ho preso il campione”, mi disse sorridendo, “questo è un aquilone grande, dà belle soddisfazioni. Dovevamo far divertire i tuoi bambini, no?”
“Grazie. È davvero bellissimo. Lo hai costruito tu?”.
“Sì. Certo, richiede un po’ di impegno. Innanzitutto il materiale: non è lo stesso con cui si fanno gli aquiloni più piccoli. Per esempio, non sono sufficienti le stecchette di ramino, ci vogliono quelle di bambù. Poi, la carta per la velatura deve essere più robusta, e gli agganci più solidi, altrimenti i vari pezzi possono staccarsi o lacerarsi. Se vuoi, possiamo cominciare a costruire un aquilone più piccolo, così potrai insegnarlo ai bambini. Guarda come sono contenti…”
“Vedi?”, continuò, “l’aquilone vola grazie all’azione del vento. Può volare anche senza, ma la condizione normale è che ce ne sia almeno un po’. Sai perché ho scelto questo posto? Perché siamo ai piedi del monte, e spalle al vento. Così si sfrutta al meglio la corrente d’aria ascendente, e l’aquilone si alza con facilità”.
D’improvviso, da un remoto spicchio della mia adolescenza, emerse un ricordo nitido e fastidioso: non era vero che non avessi mai provato a far volare un aquilone. Dovevo avere sedici-diciassette anni: avevo trovato il materiale necessario in una pesca di beneficenza e mi ero immediatamente messo al lavoro per assemblarlo. Come spesso mi capitava, feci le cose troppo in fretta, col solo risultato che il mio sbilenco aquilone non riuscì mai a librarsi nel cielo.
Dovevo a “Barbetta”, uno sconosciuto, la gioia che ora provavo insieme ai miei bambini, l’emozione per lo spettacolo di allegria, libertà, spensieratezza che si svolgeva sotto i miei occhi. Ma non ero il solo che ne stava godendo: a un tratto, avvertii la presenza di qualcuno alle mie spalle. Mi voltai, e vidi l’anziano Antonio “Biasella” immobile sul ciglio del prato, poggiato di schiena contro la portiera della sua macchina. Lo chiamai a voce alta; rispose a malapena con un cenno della testa, qualcosa di molto strano in una persona aperta e cordiale come lui. Istintivamente, aguzzai lo sguardo, e rimasi di stucco: Antonio aveva gli occhi lucidi e arrossati. Guardai ancora: sì, le sue guance erano rigate da lacrime.
Ero impietrito, non sapevo cosa fare.
“Anto’!”, borbottai dopo qualche secondo, e feci dei passi verso di lui.
“No, no”, disse scrollando il capo, “non è niente. Torna indietro”. Prima che potessi replicare, si voltò, salì in fretta sulla macchina e si dileguò lungo la provinciale.
Continuai a giocare con i bambini, ma il pensiero del pianto di Antonio non mi abbandonò per tutta la serata. Lo conoscevo bene: un uomo tranquillo e ancora laborioso, una famiglia senza problemi, due figli maschi e cinque bei nipotini. Perché si era commosso? Possibile che a muoverlo al pianto fossero stati dei bambini che seguivano gioiosi i volteggi di un aquilone?
Un paio di giorni dopo, bussai a casa sua.
Mi accolse con un sorriso schietto, ammiccando, segno che aveva compreso il motivo della visita.
“Ci sei rimasto male, vero? Beh, scusa, non avrei dovuto, per poco non rovino il divertimento dei bambini. Ma è stato più forte di me…”
“Anto’, ti conosco. Se ti è successo, un motivo c’è. Se non ti dispiace…”
Annuì: “Sì, sì. Ascolta, quel prato, come sai, si chiama “Rojo”, e appartiene ai Matassi. Erano i ricconi del paese, ettari e ettari di terra. Adesso è in abbandono, ma un tempo era un giardino, tutto coltivato, si seminava pure attorno ai sassi. Mentre vedevo i bambini che giocavano, mi è ritornato in mente… mi sono ritornate in mente le schiene, le schiene curve a terra di Giggio, del povero Simone, di Mariotto, tutti quelli che lì si sono ammazzati di lavoro. E poi le schiene di chi da quel prato non s’è alzato più… mio cugino Giovanni e Alfredino. Era il maggio del ’44; i tedeschi seppero che qualcuno nascondeva degli inglesi e iniziarono a rastrellare tutto il territorio. Una mattina, il 15 maggio, successe che videro scappare due ragazzi… chissà perché Giovanni e Alfredino stavano lì, chissà perché i tedeschi reagirono così. Comunque, gli spararono senza pietà, proprio dove stavate voi, al “Rojo”. Morti senza colpa, senza un perché… ecco, ho ripensato a queste cose, mentre vedevo i vostri bambini.”
Restammo a lungo in silenzio. Ma credo che i miei pensieri e quelli di Antonio fossero gli stessi. Un piccolo, insignificante angolo di mondo, e la storia dell’uomo: la gioia e il dolore, la vita e la morte. Chissà quante altre volte quell’anonimo spicchio di terreno aveva visto alternarsi la guerra degli uomini e la pace degli elementi. Solo quel remoto prato vallivo ai piedi dei Monti Ruffi? No; ogni angolo di mondo ha visto le stesse cose, ogni infinitesima parte di terra serba per intero le vicende umane. Ma il tempo corrode la memoria, non c’è luogo che possa trattenere i ricordi. Innalzandosi al di sopra del tempo, ovunque e sempre nel mondo, ignari aquiloni voleranno sull’eterna tragedia dell’uomo, sulla gioia e sul dolore, sulla vita come sulla morte.
armando.santarelli@inwind.it
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