Eccomi qui al buio, a lume di candela, ridotto al lumicino... Devo sembrare un quadro di La Tour, seduto al tavolo, il riverbero della fiammella sulla faccia spettrale – e intorno la materia che si squaglia, insieme alla cera il ghiaccio, le mie morte fonti di vita che si stanno scongelando: le verdure, le carni... e, dio mio, quel pacco. Una squadra di diavoli in tuta ha tranciato di netto un cavo elettrico e ci ha restituito alla nostra condizione originaria, la tenebra. Come se non bastasse la pena della quotidianità, anche, per scherno, una lectio tenebrarum impartita da un manipolo di idioti – per non dire delle conseguenze... Dovrò tirar fuori tutto dal congelatore, e buttar via, pulire, asciugare... Ah l’acqua, l’acqua mi perseguita, già sta invadendo il pavimento della cucina: per alcuni il fuoco, per me l’acqua, è lei la mia persecutrice – oggi come qualche secolo fa.
Cos’è stata la mia vita? Anni e anni spesi nella cura degli altri. Quei morti e quei vivi schierati sulle pareti a far muffe e polvere – presenze oppressive che si prendono tutto lo spazio, ispessiscono i muri, arrampicati su fino al soffitto, incombenti colombari.
Adesso sono spogliato di tutto. Non consisto più in niente. La fine di questa devozione toglie ogni senso a quella che è stata la mia vita finora e oggi me la rende insopportabile. Ma che posso fare? Seguitare in questo lavoro è impossibile. Non provo un’estraneità che potrei vincere e dissimulare, come fanno tanti che convivono da estranei anche con se stessi – provo insofferenza, disgusto... Fossero miei, passerei allo sgombro; come in casa ho fatto da tempo, risparmiando solo una magra schiera, che pure non leggo più – li tengo in una stanza che non frequento, come reliquie, relitti della mia mente d’un tempo – amati e trascurati compagni di un’altra vita. Ma potrei stilarne una lista con amore postumo, questo sì, e lo farò, lo voglio fare, un giorno lo farò.
Quanto agli altri, folla di parassiti divorati da parassiti, che ho dovuto difendere e ordinare in quelle sale dell’eterno stento, tirando i giorni tra speranze costose e scarsi compensi, quelli li lascio con gioia alle loro catacombe. Cosa hanno da dire quei vanitosi compagnoni sulla morte e sull’inferno? E dunque via, al macero dei secoli, giù nella geenna, all’inferno della dimenticanza! Dove è giusto scompaiano i mentitori, gli strizzatori d’occhio, i lusingatori del loro tempo, compari e comparse che rubarono il proscenio. Potessi fare anch’io, adesso, con quella, la mia biblioteca d’Alessandria. Un mio simile o doppio di millenni fa: lo so, conosco bene chi ha appiccato il fuoco. Quanti di quei libri lo meritavano! Quanti di più oggi, e più d’allora!
Pensavo un tempo, nell’ombra del mio ufficio, che avrei scritto anch’io i miei libri: il servizio allora alimentava il desiderio; li amavo al tatto e alla vista, li assorbivo, vivevo in osmosi con i libri – e mi dicevo: Apriti le vene, versa l’inchiostro, versalo finalmente!
Oggi no, non più. Che potrei scrivere oggi? Giusto Il libro dei senza lingua... A volte mi sembra di vivere ancora nei padiglioni d’orrore e odio in cui mi sono ritirato negli anni; ma la verità è che pure quelli sono stati spazzati via dal tempo, e che ora sono proprio allo scoperto, esposto al gelo, o piuttosto del tutto congelato.
Congelato come lo è stato finora il mio unico libro quasi compiuto, il mio Bocca nel ghiaccio... Forse fu in quel giorno diluviato che la disdetta varcò la porta e cominciò a tenermi in pugno. Ho voluto dimenticare il danno e il rimedio, come si sbatte un vecchio mobile o una scatola di fotografie giù in cantina.
È stato il mio demoniaco ’66, la mia alluvione di Firenze, acqua e fango... Lo studio allagato e la mente travolta, sommersa dall’onda limacciosa del tradimento. Il manoscritto senza bottiglia galleggiava sulle acque, per niente e per nessuno. Era il libro cui affidavo in quel tempo il mio destino di scrittore, come lei, che mi abbandonava, era la donna cui avevo affidato la mia vita. Così lo presi, lo scartafaccio, bell’imbevuto d’acqua, e lo ficcai nel congelatore, estrema risorsa dei soccorritori di libri: recupero sospeso, rinviato (e come potevo occuparmi di quello, mentre scoprivo la casa svuotata dei suoi abiti e di tutte le sue cose, così care per me perché sue, di lei che non avevo potuto fermare?) – e lì è rimasto, ibernato per i secoli, un blocco di ghiaccio, col mio nome e il suo titolo sgocciolati.
A toccarlo ora, ancora gelido, brucia. Sta di nuovo sotto i miei occhi, nella luce del mattino, deposto su un vassoio come la testa di un Battista nel suo sangue – in questo caso, acqua, l’acqua che restituisce e si spande putrida di quel giorno cruento. Un sottile strato di ghiaccio qua e là incrinato ingrandisce e altera, come una lente, le lettere della prima pagina: NOTIZIE DELLA NOTTE; ma la NOTTE, consumata dall’umido si fa leggere MORTE. NOTIZIE DELLA MORTE è un buon adattamento; mentre del nome di lei, la dedicataria, è stata fatta quasi piena giustizia: restano appena una E e un nor – vuoto e negazione.
Per questo infascio che mi è stato rimesso davanti da quegli involontari maestri di vanità, intriso, raggrinzito e molle, sciolto dalla sua prigione polare, si avvicina il momento, dopo l’acqua, di conoscere il fuoco – senza neppure sfogliarlo, con il distacco del sicario: una quieta esecuzione che riguarderà, giacché ci siamo, anche gli altri, i mezzi nati, o i nati morti, i lasciati a mezzo degli anni successivi...
E dunque con me non farete festa. Solo a immaginarlo l’eterno balletto, il bailamme del Gran Mercato: le smanie dei direttori editoriali, le manierine degli uffici stampa – le ridicole frenesie delle ristampe, della settima edizione, delle venticinquemila copie vendute... Merda! Io non sono del vostro mondo, non lo sono mai stato – e non voglio entrarci da morto, non vi lascerò in mano la spoglia, il bottino dei vostri banchetti. Niente, un bel niente!
Ma anche allora, quando avrei potuto seguire fino in fondo il demone che mi istigava, quando ancora scrivere era l’oro vero, il tesoro che poteva riscattarmi dalla galera quotidiana – e allora scrivevo; no, iniziavo, iniziavo sempre, e raccoglievo i miei inizi, li archiviavo in mille cartelle e rinviavo il compimento; concepivo soltanto: vivevo di piaceri, e di sconforti – perché anche allora qualcosa mi fermava, e non facevo altro che barcamenarmi, tra il servizio e il desiderio... La mia stanza era tutta una moralità, un ammonimento incessante: le muffe che mangiano libri e carte, la polvere che si accumula su tutte le superfici: su librerie, libri e tavoli, sulle pile delle cartelle – un velo perenne di polvere che appena spostata si riposa, un grigio strato, un tappeto lanoso che dissuade da qualunque gesto, ferma la mano che vorrebbe mettersi all’opera e anzi la persuade all’inazione, all’inerzia... Quello doveva essere il mio tema, se fossi riuscito a superare quel paralizzante paradosso, a usare l’ago dell’ironia per un arazzo ammaestrante che proclamasse l’opaco, impalpabile, dispotico, luminoso Trionfo della Polvere.
Forse ci risveglieremo pidocchi della carta, condannati a errare di libro in libro, a scalare dorsi e tagli, arrampicandoci su pile di volumi, per finire prima o poi schiacciati tra le pagine del nostro ultimo riparo o spolverati via dalla mano solerte di un instancabile, come noi fummo, accumulatore di carta.
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