Le parole con cui ho titolato i miei appunti appartengono ad Edmond Jabès (in Uscite di sicurezza) e mai titolo mi è sembrato più appropriato: le parole nere, in un flash visivo, sono proprio le “formiche” di Ombretta Ciurnelli.
Si curron le formiche (Guerra Edizioni, 2010) è il terzo libro pubblicato dalla Ciurnelli (con un’ampia e competente nota critica di Brunella Bruschi, direi un piccolo trattato sulla poesia neodialettale e sulla poetica dell’autrice), ancora una volta nella lingua perduta e poi ritrovata dell’infanzia, cioè nel dialetto arcaico del contado di Perugia, che ha tracciato uno “stradello” nell’anima dove si infilano formiche di parole e molliche di pensieri: «E camino arcecanno muliche/ ntlo stradello arcuperto de sterpe/ dua le storie de l curre de l tempo/ le formiche ònno scritto gni pòsto…» (E cammino ricercando briciole/ nel viottolo coperto di sterpi/ dove le storie del correre del tempo/ le formiche hanno scritto in ogni luogo…).
Ma questa volta è “il lume”da cui Ombretta guarda il mondo che è cambiato. Certo, resta il timone della lingua (insieme con un “appassionato virtuosismo” del verso), però cambiano le direzioni e le intenzioni: con le sue formiche la Ciurnelli non si è nascosta dietro l’ironia degli acrostici di Baderellasse ncle parole, né dietro la maschera tragica delle donne de L’arcontastorie, ha semplicemente scritto un libro di poesie partendo per un periglioso e “commovente” viaggio ondivago dentro la propria vita.
«I versi non sono sentimenti, sono esperienze, avere ricordi non basta (così recita Rilke nel suo Malte), bisogna avere la pazienza di perderli e poi ritrovarli, è allora che diventano sguardo gesto e sangue»: formiche necessarie, molliche, sentieri e sterpaglie necessari, alla ricerca di sé, della propria, a volte amara, verità. Il dialetto, come in questo caso, è uno strumento in più, l’esperienza raccontata è due volte più ricca perché le parole hanno una memoria ancestrale, dove le esperienze cacciate nel fondo si riscrivono: «Ncumìnceno i rimore/ prima liggere e smorte/ dóppo amischiete e forte// La mi notte afogheta/ spaureta e senza sùmmie/ sguilla nton giorno novo/ dua le trapple èn posete». (Cominciano i rumori/ prima leggeri e smorzati/ dopo mescolati e forti// La mia notte affogata/ spaventata e senza sogni/ scivola in un giorno nuovo/ dove le trappole sono posate).
Ho letto questo libro come un continuo e teso dialogo interiore, che svela prima al poeta e poi a noi le costellazioni del dolore e del piacere, il tutto raccolto in un cielo di malinconia («tutte le cose nobili sono velate di tristezza», commenta Ismaele nel Moby Dick). Le poesie, quasi sempre brevi, ridotte all’essenza, scorrono ripulite da ogni stampella di segni diacritici o punteggiature, le parole si schiariscono, fanno sentire tutta la loro forza, eppure con una dolcezza nuova e benefica. Se non ci fossero i titoli a fare da “interpunzioni”, si potrebbe parlare di questo libro come di un’unica suite divisa in cinque movimenti. Pochi i nodi di rabbia, ancora da sciogliere, i conti da saldare. Ciò che prima “appassionava” il poeta, davanti ad una più ampia consapevolezza, diventa irrilevante, come dice (cito a memoria) Marcello Mastroianni nel film Oci ciornie: «quello che alla fine resta è la ninna nanna che cantava mia madre quando ero piccolo». Ovvero: l’infanzia guida la vita. Ed ecco, infatti, che certi oggetti o luoghi dell’infanzia come la fontana, la piazza o il lago, prendono la lettera maiuscola, diventano persone: «Ntol tonno de Llèco c’è n vento/ liggero che l’acqua l’alìgia/ e l’onne cinine ciaposa/ mò fùsseno nugule spajete» (Nel tondo del Lago c’è un vento/ leggero che l’acqua accarezza/ e le onde piccoline vi appoggia/ come fossero nuvole sparse). «L vento spolvreva/ l’acqua dla Fontena/ e pu la nèbbia/ ntla Piazza spajeva» (Il vento spolverava/ l’acqua della Fontana/ e poi la nebbia/ sulla piazza spandeva).
La prima poesia del libro, scritta come un esergo al di fuori delle cinque sezioni di cui è composto, sarà come una guida alla lettura, una dichiarazione di intenti che ci accompagna lungo tutto il viaggio: infatti all’inizio di ogni sezione Ombretta ne ripete un frammento, come memento. Comincia con una congiunzione «E camino». Una congiunzione che lega il prima e il dopo in un cerchio fatto di memoria e presente dove i moti gli odori i colori della natura si ripropongono come sfondo ai volti e ai pensieri, fonte di ispirazione, salvezza e ansia: «flusumìe n prucissione compòste/ che nco j’occhie anebbiete m’ardicno/ badarèlle de j’anne muccite/ o le strede sajite in sajita/ e l velucchio borbotta ‘n soché/ ta l fiaton che me strigne l rispiro/ e pion corpo dentorno i rimore/ risvejanno pensiere ariscòste/ che pu curron ncon prèscia a ngluppasse/ nti mi motte de j’anne più cèrbe».
Le “poetiche” antenne della formica in copertina si appuntano e restano caparbiamente appuntate su una goccia di azzurro, l’unica in un contesto di degrado (non posso fare a meno di citare Lucio Piccolo in Raggio verde: «Ma il raggio che sembrò perduto/ nel turbinio della terra/ accese di verde il profondo di noi/ dove canta perenne una favola».
È arduo pensare che la scrittura salvi la vita, sicuramente rende migliore chi la scrive e, in un circolo virtuoso, chi la legge.
Tutto il libro di Ombretta Ciurnelli ha una grande capacità evocatrice, racconta un mondo “piccolo”, eppure entra in una dimensione di profondità, agisce e agita: le immagini hanno una forza dilagante e universale:
Vicino alla vincaia / intrappolata in una grande pietra / l’acqua girava vorticosamente / e faticava a scorrere // intanto in mezzo al fiume / l’acqua scorreva liscia
Ombretta Ciurnelli, Si curron le formiche, Guerra Edizioni, Perugia, 2010, pagg, 158, euro 12,00 - con nota critica introduttiva di Brunella Bruschi.
SEI POESIE DI OMBRETTA CIURNELLI da Si curron le formiche
La traduzione letterale dei testi del dialetto perugino che ricalca l’oralità del parlato - come scrive la stessa autrice in una nota finale - anche per la trasgressione del significato insita in ogni traduzione, va intesa come una didascalia.
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