FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 18
aprile/giugno 2010

Aquiloni

 

RENDERE LA PAROLA VISIBILE, CIOÈ NERA
La poesia di Ombretta Ciurnelli

di Anna Elisa De Gregorio



Le parole con cui ho titolato i miei appunti appartengono ad Edmond Jabès (in Uscite di sicurezza) e mai titolo mi è sembrato più appropriato: le parole nere, in un flash visivo, sono proprio le “formiche” di Ombretta Ciurnelli.

Si curron le formiche (Guerra Edizioni, 2010) è il terzo libro pubblicato dalla Ciurnelli (con un’ampia e competente nota critica di Brunella Bruschi, direi un piccolo trattato sulla poesia neodialettale e sulla poetica dell’autrice), ancora una volta nella lingua perduta e poi ritrovata dell’infanzia, cioè nel dialetto arcaico del contado di Perugia, che ha tracciato uno “stradello” nell’anima dove si infilano formiche di parole e molliche di pensieri: «E camino arcecanno muliche/ ntlo stradello arcuperto de sterpe/ dua le storie de l curre de l tempo/ le formiche ònno scritto gni pòsto…» (E cammino ricercando briciole/ nel viottolo coperto di sterpi/ dove le storie del correre del tempo/ le formiche hanno scritto in ogni luogo…).
Ma questa volta è “il lume”da cui Ombretta guarda il mondo che è cambiato. Certo, resta il timone della lingua (insieme con un “appassionato virtuosismo” del verso), però cambiano le direzioni e le intenzioni: con le sue formiche la Ciurnelli non si è nascosta dietro l’ironia degli acrostici di Baderellasse ncle parole, né dietro la maschera tragica delle donne de L’arcontastorie, ha semplicemente scritto un libro di poesie partendo per un periglioso e “commovente” viaggio ondivago dentro la propria vita.

«I versi non sono sentimenti, sono esperienze, avere ricordi non basta (così recita Rilke nel suo Malte), bisogna avere la pazienza di perderli e poi ritrovarli, è allora che diventano sguardo gesto e sangue»: formiche necessarie, molliche, sentieri e sterpaglie necessari, alla ricerca di sé, della propria, a volte amara, verità. Il dialetto, come in questo caso, è uno strumento in più, l’esperienza raccontata è due volte più ricca perché le parole hanno una memoria ancestrale, dove le esperienze cacciate nel fondo si riscrivono: «Ncumìnceno i rimore/ prima liggere e smorte/ dóppo amischiete e forte// La mi notte afogheta/ spaureta e senza sùmmie/ sguilla nton giorno novo/ dua le trapple èn posete». (Cominciano i rumori/ prima leggeri e smorzati/ dopo mescolati e forti// La mia notte affogata/ spaventata e senza sogni/ scivola in un giorno nuovo/ dove le trappole sono posate).
Ho letto questo libro come un continuo e teso dialogo interiore, che svela prima al poeta e poi a noi le costellazioni del dolore e del piacere, il tutto raccolto in un cielo di malinconia («tutte le cose nobili sono velate di tristezza», commenta Ismaele nel Moby Dick). Le poesie, quasi sempre brevi, ridotte all’essenza, scorrono ripulite da ogni stampella di segni diacritici o punteggiature, le parole si schiariscono, fanno sentire tutta la loro forza, eppure con una dolcezza nuova e benefica. Se non ci fossero i titoli a fare da “interpunzioni”, si potrebbe parlare di questo libro come di un’unica suite divisa in cinque movimenti. Pochi i nodi di rabbia, ancora da sciogliere, i conti da saldare. Ciò che prima “appassionava” il poeta, davanti ad una più ampia consapevolezza, diventa irrilevante, come dice (cito a memoria) Marcello Mastroianni nel film Oci ciornie: «quello che alla fine resta è la ninna nanna che cantava mia madre quando ero piccolo». Ovvero: l’infanzia guida la vita. Ed ecco, infatti, che certi oggetti o luoghi dell’infanzia come la fontana, la piazza o il lago, prendono la lettera maiuscola, diventano persone: «Ntol tonno de Llèco c’è n vento/ liggero che l’acqua l’alìgia/ e l’onne cinine ciaposa/ mò fùsseno nugule spajete» (Nel tondo del Lago c’è un vento/ leggero che l’acqua accarezza/ e le onde piccoline vi appoggia/ come fossero nuvole sparse). «L vento spolvreva/ l’acqua dla Fontena/ e pu la nèbbia/ ntla Piazza spajeva» (Il vento spolverava/ l’acqua della Fontana/ e poi la nebbia/ sulla piazza spandeva).

La prima poesia del libro, scritta come un esergo al di fuori delle cinque sezioni di cui è composto, sarà come una guida alla lettura, una dichiarazione di intenti che ci accompagna lungo tutto il viaggio: infatti all’inizio di ogni sezione Ombretta ne ripete un frammento, come memento. Comincia con una congiunzione «E camino». Una congiunzione che lega il prima e il dopo in un cerchio fatto di memoria e presente dove i moti gli odori i colori della natura si ripropongono come sfondo ai volti e ai pensieri, fonte di ispirazione, salvezza e ansia: «flusumìe n prucissione compòste/ che nco j’occhie anebbiete m’ardicno/ badarèlle de j’anne muccite/ o le strede sajite in sajita/ e l velucchio borbotta ‘n soché/ ta l fiaton che me strigne l rispiro/ e pion corpo dentorno i rimore/ risvejanno pensiere ariscòste/ che pu curron ncon prèscia a ngluppasse/ nti mi motte de j’anne più cèrbe».
Le “poetiche” antenne della formica in copertina si appuntano e restano caparbiamente appuntate su una goccia di azzurro, l’unica in un contesto di degrado (non posso fare a meno di citare Lucio Piccolo in Raggio verde: «Ma il raggio che sembrò perduto/ nel turbinio della terra/ accese di verde il profondo di noi/ dove canta perenne una favola».
È arduo pensare che la scrittura salvi la vita, sicuramente rende migliore chi la scrive e, in un circolo virtuoso, chi la legge.
Tutto il libro di Ombretta Ciurnelli ha una grande capacità evocatrice, racconta un mondo “piccolo”, eppure entra in una dimensione di profondità, agisce e agita: le immagini hanno una forza dilagante e universale:

      Acost’a la venchèa
      ntrapplèta nton pietrone
      l’acqua frulleva forte
      e fatigheva a gì

      ntratanto mmezz’al fiume
      l’acqua curriva ligia

Vicino alla vincaia / intrappolata in una grande pietra / l’acqua girava vorticosamente / e faticava a scorrere // intanto in mezzo al fiume / l’acqua scorreva liscia


Ombretta Ciurnelli, Si curron le formiche, Guerra Edizioni, Perugia, 2010, pagg, 158, euro 12,00 - con nota critica introduttiva di Brunella Bruschi.




SEI POESIE DI OMBRETTA CIURNELLI
da Si curron le formiche

La traduzione letterale dei testi del dialetto perugino che ricalca l’oralità del parlato - come scrive la stessa autrice in una nota finale - anche per la trasgressione del significato insita in ogni traduzione, va intesa come una didascalia.


ÈSSE N VULCANO Èsse n vulcano
che pe l’èria squizza
de foco le balòie più nguastite
e goitè fora
quillo ch’è riscòsto

E quan che pu s’apòson
giù per terra
l’ùlteme luje de na gran farèta
chiere e liggere
nto fònno artrovasse


Essere un vulcano

Essere un vulcano / che per l’aria lancia / di fuoco le fiamme più infuocate / e vomitare fuori / quello che è nascosto // E quando poi si posano / in terra / le ultime faville di una grande fiammata / chiari e leggeri / nel fondo ritrovarsi


J’ARSUMÌJE

Ènno ben misse tutte j’arsumìje
ntol gran libbro
scordeto ntla scancìja

Nchi borde sfilaccete e l fònno giallo
ncle scritte nco lo nchiostro smagnuqulèto
lor vònno tutt’ansieme
n prucissione
guèso n teatrin
che ardìcheno gni giorno
calleta ormò la tenna
e l tempo fèrmo
nti arlògge che nun ciònno l bilancére

Vòn dicenno che lore ciuflon sempre
de tutto quillo che c’éva riscòsto
ntol gran ride
rubbeto da n baleno


Le fotografie

Sono ben messe tutte le fotografie / nel gran album / dimenticato sulla scansia // Con i bordi sfilacciati e il fondo giallo / con le scritte con l’inchiostro scolorito / vanno tutti insieme / in processione / quasi un teatrino / che ripetono ogni giorno / calata ormai la tenda / e il tempo fermo / negli orologi che non hanno il bilanciere / Vanno dicendo che chiacchierano sempre sottovoce / di tutto quello che c’era nascosto / nel grande sorridere / rubato da un flash


ADÈ DUA VO

Adè dua vo
arcapezzanno n giro
quil che nun c’éva
mamanco alora
quan che pensevo
che quil che discurremme
mò n albro fusse
ntol bón de la fiorita

(adè dua vo)


Ora dove vado

Ora dove vado / a ricercare in giro / quello che non c’era / nemmeno allora / quando pensavo / che quello di cui parlavamo / come un albero fosse / nel pieno della fioritura // (ora dove vado)


STASERA NUNNE L SO

Stasera nunne l so
qual è l magone
ncon che vojo sguillè
drent’a la notte

polèsse che ne nvento un fatto aposta

è l dlor che regge
quil filo liggero
ncon che ce cuge l ragno
le sue treme


Questa sera non lo so

Questa sera non lo so / qual è il magone / con cui voglio scivolare / dentro la notte // può darsi che ne inventi uno fatto apposta // è il dolore che regge / quel filo leggero / con cui cuce il ragno / le sue trame


CERCHIE

N tonfo fónno aringluppa
mmezzo ta l Tevere n sasso
che drent’a n pugno stretto
ranzle e magone à ‘rcòlto

Adè ncon cerchie lente
vònno a spajasse n giro
ntruschiànnose liggere
ta quije che na foja
nsieme a dó goccie d’acqua
già c’évon gite a scrive


Cerchi

Un tonfo profondo avvolge / in mezzo al Tevere un sasso / che dentro un pugno stretto / rancori e magoni ha raccolto // Adesso con cerchi lenti / vanno ad allargarsi intorno / mescolandosi leggeri / a quelli che una foglia / insieme a due gocce d’acqua / già era andata a scrivere


QUIL RIMORE LIGGERO

Quil rimore liggero
che fa l’erba quan cresce
opur quillo dna foja
che da l’albero mucce
o quil fino dla nèbbia
quan che saje a ngluppamme

ncon pacènza gni tempo
l’ò capète dentorno
a riempì quî silenzie
nto che guèso m’afogo


Quel rumore leggero

Quel rumore leggero / che fa l’erba quando cresce / oppure quello di una foglia / che dall’albero fugge / o quello sottile della nebbia / quando sale ad avvolgermi // con pazienza in ogni tempo / l’ho catturati intorno / a riempire quei silenzi / in cui quasi mi affogo





OMBRETTA CIURNELLI
è nata a San Martino in campo nel 1947, nella valle del Tevere, ma da mezzo secolo vive a Perugia, dove si è laureata in Lettere moderne per poi dedicarsi all’insegnamento e allo studio del dialetto di Perugia e dintorni.
Ha pubblicato storie e acrostici in dialetto perugino.


 


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