Raffaello La scuola di Atene (part.)
La domanda che noi tutti, amanti della lettura, siamo costretti ad affrontare, volenti o nolenti, è sempre la stessa: «A che serve la letteratura?». Ce la fanno in molti, dagli studenti della scuola agli amici che non riescono a capire come si fa a guadagnarsi da vivere leggendo e scrivendo libri.
Noi intellettuali (parola che di questi tempi fa rabbrividire) siamo implicitamente considerati dei “parassiti della società”, gente che non produce nulla di buono, di importante, un lusso per ricchi e benestanti che vogliono mostrarsi più intelligenti degli altri, appoggiando o affossando un pensiero o uno scritto. Anche nel migliore dei casi gli amici, comunque, non riescono a capire come facciamo a perdere tanto di quel tempo prezioso a leggere un libro mentre la vita ci scorre a fianco, ed è così breve. A nulla valgono le nostre spiegazioni, le nostre emozioni, le nostre motivazioni. Siamo sempre considerati eccentrici o addirittura, specie se si adora la poesia, fortemente ambigui (a livello psicologico e sessuale).
Da un certo punto di vista hanno ragione: un medico cura e salva delle vite umane, un ingegnere costruisce ponti e palazzi, un avvocato tutela i nostri interessi: un letterato cosa produce?
A che serve, in fondo, un buon romanzo?
E una bella poesia?
Non sarà più utile, allora, fare il fornaio, l’idraulico, il muratore, il bancario? I letterati producono cose effimere, e probabilmente anche la loro stessa esistenza è effimera.
Nel passato qualche letterato ha provato a smuovere le acque, a fare qualcosa di più concreto, e alcuni di loro si sono persino montati la testa. Verso la metà dell’Ottocento, la filosofia Positivista fece scaturire il Naturalismo, corrente letteraria nella quale lo scrittore si riteneva in grado di risolvere, denunciandoli, qualsiasi problema sociale. Uno dei massimi esponenti di questa corrente, Emile Zola, dopo aver denunciato parecchi problemi (famoso il caso Dreyfus), riuscì a sollevare bei polveroni ma poi, sostanzialmente, i problemi rimasero quelli di prima.
Oggi la situazione non è cambiata.
Prendiamo ad esempio Roberto Saviano e il suo Gomorra, denuncia spietata contro la camorra, le collusioni politiche e lo stile di vita che si è obbligati a sostenere nei paesi intorno a Napoli. È cambiato, nella sostanza, qualcosa? Forse per l’autore che, sebbene abbia fatto dei soldi con quel libro, è costretto a vivere perennemente sotto scorta.
Gli esempi potrebbero andare avanti: chiunque voglia esercitare la letteratura come strumento per far progredire la coscienza civile delle persone è costretto a fare i conti con forze molto più attraenti, potenti e distruttive di un libro o di un film, o di una singola poesia.
Allora, tornando al tema iniziale, a cosa può servire realmente, oggi, la letteratura? Come posso convincere i miei studenti a leggere con passione un libro? Non possiamo pensare di educare e incanalare il loro pensiero con una lettura. Forse l’unico modo per invogliarli a leggere è quello di far loro capire quanto sia divertente farlo, quanto sia entusiasmante vivere altre vite parallele grazie a un romanzo ben scritto. Ecco il punto che molti critici e letterari non accettano: la letteratura è sostanzialmente un divertimento, un gioco sofisticato della lingua, del pensiero e il narratore è una specie di mago che sa come incantare, come incollarci al libro fino all’ultima pagina.
Difficile far leggere agli studenti scrittori come Proust, Joyce, Gadda. Auerbach, nel suo famosissimo Mimesis, ci spiega la tecnica dello straniamento usata da Gadda: è l’opposto di quanto diceva Aristotele, che considerava la letteratura come veicolo per raggiungere la catarsi (cioè la purificazione, l’edificazione, una soddisfazione spirituale), però la catarsi la si raggiunge soltanto attraverso la mimesi, cioè l’immedesimazione. In parole povere, per il filosofo greco, ci si diverte con la letteratura solo se ci si immedesima nella storia.
Gli anglosassoni sono maestri nel produrre libri di intrattenimento: forse perché hanno superato da tempo l’illusione di produrre letteratura esplicitamente educativa? oppure perché conoscono meglio le tecniche per riuscire ad affascinare il lettore? Le oltre mille pagine de I pilastri della terra di Ken Follett mi sono volate via in pochi giorni. È un romanzo storico che inchioda fino a quando la stanchezza fisica non prende il sopravvento, dove il vero storico e il vero poetico, per dirla con Manzoni, sono uniti armoniosamente.
A proposito di Manzoni: e se qui da noi fosse tutta colpa sua?
Generazioni di studenti italiani sono stati martirizzati con la lettura obbligatoria de I promessi Sposi. Forse allora conserviamo nel nostro subconscio l’idea di letteratura come penitenza, di sofferenza che redime.
E Dante? Chi meglio di lui rappresenta la letteratura come penitenza che redime?
Chissà come saremmo cresciuti se, al posto de I promessi sposi e della Divina Commedia, ci avessero imposto di leggere lo spassoso e “immorale” Decamerone che Boccaccio scrisse non per i letterati e per gli esperti, ma semplicemente per “coloro che amano”.
Andrea del Castagno Giovanni Boccaccio
o.palamenga@tin.it
|