FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 17
gennaio/marzo 2010

Dissonanze

 

ABITARE LA FRONTIERA
La poesia di Mia Lecomte

di Vera Lúcia de Oliveira



Afferma Luigi Anolli, in La mente multiculturale, che “il confine, al pari del simbolo, unisce e divide nello stesso tempo.” Il confine è il un luogo di tensioni, “in bilico fra difensiva e offensiva”.1 È barriera spesso invalicabile che isola e separa dall’altro, dallo straniero e dal diverso, ma anche da ciò che “rappresenta la distanza psicologia di un altro modo di vivere la vita”.2 Al concetto di confine, egli contrapporre quello di frontiera, che è uno spazio neutro, “la soglia attraverso la quale, se si desidera, si può entrare in contatto con l’altro.”3
Possiamo aggiungere che frontiera e soglia sono i luoghi della scoperta, i tempi e gli spazi dinamici che si aprono allo sguardo e che, perciò, rappresentano sfide, terre nuove da esplorare, colori vari, profumi e costumi ai quali avvicinarsi. Essi incorporano da sempre, però, sentimenti quali paura e timore di ciò che è inesplorato o sconosciuto, anche se, è bene ricordarlo, l’uomo anela costantemente a varcare le soglie, siano essere fisiche, psicologiche o metafisiche.

È ciò che fa Mia Lecomte in questa Terra di risulta (La Vita Felice, 2009), la sua ultima raccolta, pubblicata con una bella nota critica di Gabriela Fantato. Nella “Premessa”, Mia Lecomte ci offre già molte indicazioni sui percorsi da lei effettuati in vertiginosa profondità. Sulla prima sezione, “Dei vostri luoghi”, lei afferma che “è un viaggio nella non-appartenenza. Si attraversano luoghi sempre ‘altrui’, che comunque non possono che appartenerci (…) per interposta persona”.4 Pure nelle altre parti del libro - dai titoli “Oggetti naturali”, “Viario in rilievo” e “Bestiari domestici” - possiamo notare che il “non luogo” è, paradossalmente, il luogo per eccellenza della sua poesia, la linea fra le soglie che avvicina due frontiere. In tal senso, il “non luogo” è scavato nella vita, nella coscienza e nell’anima dell’io lirico che si trova in mezzo, né da una parte né dall’altra e che rivendica il riconoscimento di una posizione e di un posto, nel tempo e nello spazio, anche per chi, per motivi e contingenze diverse dell’esistenza, abita proprio un tale strano e scomodo interstizio, ricco di potenzialità e rivelazioni. Ecco che la zona di confine fra cose e persone, fra tempi e spazi passa proprio in mezzo all’anima, l’essere contiene in sé sponde diverse, l’essere è la frontiera ed è anche il ponte attraverso il quale andare da una parte all’altra. E per farlo, l’autrice ci ricorda già da subito, dal testo che apre la raccolta, che ci vuole la pietas: “Pietà di noi, qua dentro, pietà / con le finestre finte / pietà, dell’abitarci assente / del non poterci stare / pietà, pietà, pietà / in questa nostra altrui.”5 La pietas si lega all’empatia, il modo che hanno i poeti per entrare nella pelle e nei corpi, nella mente e nelle vite altrui, per comunicare, “e starci stabilendo palmo a palmo / misure sempre in scala del dolore”.6
Emblematica è la poesia “Lezioni salentine”, in cui l’io cerca di comunicare proprio la sensazione di stare e di abitare la frontiera:

      Se volessi a questo punto spiegare:
      si sta fra due mari, è già noto, ma non
      come scissi o appena lambiti nei margini,
      si sta come stare davvero nel mezzo
      del senso più profondo di stare tra due mari
      consapevoli delle rocce che squarciano spiagge
      della luce che finisce più presto più tarda
      del freddo dentro e fuori la grotta già caldo
      7

Tale tematica è ricorrente in tutto il libro. Nella bella e tenera poesia “Asuni”, l’io lirico assume consapevolmente le proprie frammentazioni e concepisce l’attraversamento continuo delle frontiere non come una menomazione dell’essere, ma come la possibilità di incorporare altro spazio e altri punti di vista, di assumere il confine come essenza e come opportunità di arricchimento: “Molte volte oggi ho passato la frontiera / della mia pelle dentro e fuori”; “io vado e vengo / sul confine mal tracciato di me”; “e quelle melograne a terra spaccate in due sfere / così almeno le voci non si sperdono più”; “mille volte oggi ho passato il segnale / di questa mia pelle a cortina ora là ora qua”.8
Se la soglia è il posto consapevolmente scelto dall’io lirico, è significativo come tale scelta venga vista anche attraverso chi, e sono in tanti, non può capire o accettare una posizione ritenuta scomoda e persino biasimevole, perché priva di quelle solidità e certezze che hanno le cose monolitiche, finite e definite nel, e dal, loro essere autosufficienti. Nella poesia “A Buridano”, abbiamo in dialogo fra un “io” e un “tu”, che rispecchia questa problematica:

      Forse io non so scegliere
      e potrei un giorno morirne,
      sei tu a affermarlo
      e ne sembri convinto,
      rimarrei qui forse a aspettare
      che la scelta si compisse da sé,
      sei tu a insegnarlo
      e non ne hai alcun dubbio
      9

È singolare che tale frontiera possa essere abitata, insieme agli esseri, anche dagli oggetti e degli artefatti umani, in altre parole che esista una soglia fra cose e persone che può essere attraversata. Gli oggetti acquisiscono un senso e diventano vivi quando, e perché, da noi abitati, si fanno compagni di vita, ai quali ci affezioniamo e attribuiamo un ruolo. Si legano ai ricordi, alle case che abbiamo abitato e poi, forse, lasciato per tanti motivi. A tale tema è dedicata la sezione “Oggetti naturali”, il cui titolo può essere inteso come un ossimoro che, avvicinando natura e cultura, abbatte la linea che le separa e provoca una sorta di scintilla nella quale gli oggetti si rappresentano animati e vivi, come nelle poesie “Barbapapà” e “Reguitti”. Traspare, qui, come tutto il processo educativo che riceviamo dai primi anni di vita sembri impostato per farci perdere l’essenza e la sostanza mutevole dell’infanzia e per indurci a vedere ciò che è plastico e poliedrico come sinonimo di “flaccido” (si veda, a tal proposito, la poesia “Barbapapà”). In questo modo, come le persone, anche gli oggetti della frontiera, legati soprattutto all’età infantile, sono senza posto, anch’essi abitanti dei “non luoghi”, come certi giocatoli, “se manca lo / spazio o in esuberi come i giorni si esuberano”.10
Dare anima agli oggetti e alla natura è proprio di tante tradizioni culturali con le quali è a stretto contatto Mia Lecomte nei suoi viaggi e nei suoi studi nell’ambito della comparatistica.

La stessa sorta di ibridismo e contaminazione avvicina la realtà concreta e il mistero metafisico che vi si cela, come la morte di una persona amata, il cui significato può essere contenuto in tutta la sua enormità solo in forma di poesia e di metafora che si allarga in lunghi versi in cui l'enjambement porta a galla la memoria della perdita e del dolore. Qui l’immagine che si anima e attualizza il ricordo è quella dell’onda che pian piano sommerge le persone:

      L’onda era iniziata a Natale avvolta
      nell’imballo traslucido lo stesso era il tavolo
      (…)
      un’onda soltanto intravista la schiuma leggera
      finché ti ha raggiunto la bocca e noi insieme
      ti abbiamo persa nel letto la tua voce di ossa ormai
      a galla svanivi in quelle poche lenzuola solitaria
      11

Nell’antologia Al confine del verso (e non sarà casuale, anche qui, l’uso del termine “confine” nel titolo dell’opera), da lei curata, Mia Lecomte afferma, nella prefazione, quando presenta ai lettori italiani alcuni poeti della migrazione, i quali, pur originari da paesi diversi, con ricche tradizioni poetiche e letterarie, scelgono di scrivere in italiano e di dialogare con l’arte e la letteratura di questo paese:

Ed è diventato a questo punto necessario un confronto fattivo fra scrittori migranti e autoctoni – i viaggiatori immobili -, una collaborazione artistica trasversale all’insegna della contaminazione e dell’eterogeneità. Indispensabile agli uni, da un lato, per liberare la lingua della poesia italiana sfinita, autoreferenziale, da barocchismi, ermetismi e sperimentazioni di una certa avanguardia ormai in retroguardia, e riascoltarla davvero attraverso la voce altrui fatta propria; e agli altri per essere accompagnati nella messa a punto dello strumento sonoro senza rischiare un appiattimento e un impoverimento dei risultati poetici, perché questo possa risuonare e fare eco in tutta la sua potenza, e acclimatarsi musicalmente all’interno dell’universo comune di una parola sempre più bastarda e condivisa.12

Possiamo affermare che Mia Lecomte ha fatto proprio questo augurio che, per lei, è progetto di vita ma è anche poetica intensa e concreta, verbo autentico nel suo sperimentalismo vero, di voce e parola nuove perchè nate da sostanza e contenuto originali, quando è l’essenza stessa della vita a plasmare la sua forma e non il contrario.


Mia Lecomte, Terra di risulta, La Vita Felice, Milano, 2009, pagg. 88, euro 10.



1ANOLLI; L., La mente multiculturale, Editori Laterza e Il Sole 24 Ore, Bari, 2009, p. 130.

2Ibidem.

3Op. cit., p. 167.

4LECOMTE, M., Terra di risulta, La vita Felice, Milano, 2009, p. 15.

5Op. cit., p. 17.

6Op. cit., p. 28.

7Op. cit., p. 23.

8Op. cit., p. 39.

9Op. cit., p. 75.

10Op. cit., p. 51.

11Op. cit., p. 59.

12LECOMTE, M. (a cura di). Ai confini del verso – Poesia della migrazione in italiano, Casa Editrice Le Lettere, Firenze, 2006, p. 11.




POESIE DI MIA LECOMTE
da Terra di risulta


*

Pietà di noi, pietà,
dell’erba che non cresce, pietà,
del tetto e la facciata, degli usci
senza chiave, pietà, dei nostri
ambienti vuoti, pietà del suono e
della luce, ancora spenti

pietà, di noi qua dentro, pietà,
con le finestre finte
pietà, dell’abitarci assente
del non poterci stare
pietà, pietà, pietà,
di noi in questa casa, pietà,
in questa nostra altrui.


LEZIONI SALENTINE

a Julio                 

Se volessi a questo punto spiegare:
si sta fra due mari, è già noto, ma non
come scissi o appena lambiti nei margini,
per quanto ingenui e non mancano i fatti,
si sta come stare davvero nel mezzo
del senso più profondo di stare tra due mari
consapevoli delle rocce che squarciano spiagge
della luce che finisce più presto più tarda
del freddo dentro e fuori la grotta già caldo,
per quanto traditi e non restano scuse,
si sta come sta quella quercia che è sola
a mille anni per tutta una specie
due nel mondo con quell'altra in città
millenarie come dire due volte è domani
senza tutti i gabbiani che mancano si sta
come il volo al contrario delle molte farfalle
senza alice al di là dello specchio le sue ali
di burro perché qui è sempre l'olio a bruciare la gola.

Se volessi. Autorità vecchie e nuove a succedersi
per le lame di un barbiere annunciato
nello zucchero a fregi dei palazzi più rochi
con il volto nel palmo tra vino e pezzetto
e poi il giorno di vento in cui la Madonna turchina
è un burattino di carne sottobraccio ai gendarmi
distratta dalla tiara di seta che è sfuggita al vicario
del suo figlio unigenito che non usa l'elastico
evviva sirene la fanfara assetata e lei piange
in corteo sulla barca che la porta lontano
la sera di vento la Madonna ha finito le lacrime
e dal faro spende fuochi a coprire fittamente di lune
un cielo brusco a rovescio tra ulivi e india in fichi.

Spiegare forse è troppo per una terra ammucchiata
tutta in fondo alla fine e non basta
se volessi a quest'ora è deserta la platea abbacinata
in un intreccio molte volte paziente d'aria e paglia
si intravedono nuche e spalle nelle stanze
e le sedie rimangono fuori tutte sparse
a reprimere gli eccessi della danza più frenetica
che dall'ombra abbia preso respiro.

Questo è tipico. Dalle mandorle si fa pasta e un latte
amniotico in cui affoga ogni inizio che non osa iniziare
profumano dolci semplici, farina e qualche uovo,
e creme che si addensano all'ultimo ma per
scegliere alla fine sempre il lento godere di mandorla
in attesa sopra teche oltre l'angolo
dove ancora si incarta il silenzio senza briciole.

Di trasferirsi nel sogno s'è parlato al caffé
e le tende si gonfiavano col fiato passito
da una notte di cerca e non trova le parole più sconce
che risuonino come ognuna sa fare
violenta e repressa e poi finalmente sulla pezza
distesa supina, nel bianco, dimenando.
Per spiegare dovrei dire del nome di un frutto
che in sé ha racchiuso il colore della fradicia polpa
inquadrata nel vano con i semi che schizzano
l'anguria dal coltello lungo il mento il petto
il ventre del pachiderma osceno così osceno
all’infinito inquadrato nel vano a saziarsi.

Cosa manca, se volessi spiegare, sotto il portico
mentre i gatti si passano code di lucertole e bachi
nell'odore di lysoform e alcol in ginocchio
perché tutto ritorni incorrotto tra il grembiule e
lo straccio della muta che lavora duramente a stagione
nel giardino dove amache divaricano alberi e il muro
gira a vuoto aspirando a un perimetro organico
cosa manca per ricevere gli altri davvero
come ospiti illustrando abitudini e luoghi souvenirs
e genomi di una casa che sia proprio una casa dalle origini
fino al solito telegramma arrivato stamani tanto presto:
per andarsene stop come sempre stop
imboccare la strada più esterna stop
e continuare


SWISSMINIATURE

Mancano ancora un campanile e tre trafori
sei chalet dipinti e una stazione
il meglio del soccorso alpino e quei cavi
tesi a sospendere due funicolari
tutti gli alberi che demarcano il cantone
un lago sistemato nella nebbia
e il getto della cascata a mezzacosta
mancano i passeggeri nella slitta
alcune mucche e marmotte e il gallo
ritto sulla torre e anche anatre e stambecchi
e i ballerini sulla piazza in pietra
il vecchio addetto all’orologio fermo del
municipio e il ragazzino con la mela in testa
della scultura in stile ghiaccio e cioccolata
ancora mancano le nuove banche e imprese
manca la musica da un altoparlante
le ultime croci bianche alle bandiere.

Per la manutenzione del paesaggio
occorre scompagnarne le ragioni
farne terra promessa ai voli più spaesati
diaspore col fiato corto
in vena di salvezze alternative
occorre rinnovarne le utopie
rischiare Heidi urbanizzata
e i lanzichenecchi seduti nella stübe
accontentarsi di ipotesi spaiate
sezioni atone del verbo claudicante
occorre rifugiarsi dentro al minimo
vagliando prospettive in proporzione
e starci stabilendo palmo a palmo
misure sempre in scala del dolore.


ASUNI

a Marianne, Alexis e Lorenzo                 

Molte volte oggi ho passato la frontiera
della mia pelle dentro e fuori
e siete sempre lì tre uccellini
posati sul filo col bucato un gallo muto
e la molletta bagnata di ruggine

    oggi Teresa ha sfornato i biscotti
    il pane a corona e li decora
    chinata controluce in cucina
siete sempre lì oggi piccoli uccelli
dall’incerto equilibrio sul filo così semplici
tutti e tre con il pampino sfuggito alla vite
e le formiche mentre io vado e vengo
sul confine mal tracciato di me
    oggi alle Domus si sono svegliate le fate
    escono dalle grotte e addentano fichi d’india
    perché tutto sia giallo e rosso e nel cielo
tre uccellini sospesi sul filo vi ritrovo
ogni volta che parto e ritorno di continuo
mi aspettano oggi i vostri becchi concentrici
allineati e sei occhietti più neri del sole
    oggi hanno chiuso il cortile a Casa Dora
    e quelle melograne a terra spaccate in due sfere
    così almeno le voci non si sperdono più
mille volte oggi ho passato il segnale
di questa mia pelle a cortina ora là ora qua
e ci siete sempre voi miei uccellini
ad accogliermi in tre pose gioiose
e indifferenti sul filo che dovrete lasciare
prima o poi forse adesso
mai con me.


BARBAPAPÀ1

Risale a se stesso da una sua curva rosa
e riprende lentamente figura di padre dopo
essere stato argano, chiodo, stivale
muro su muro su muro su muro
il filo di fumo agganciato al bottone
ritorna informale al suo seme inumano
lui che è stato orso, passero, anguilla
moscone, lucertola, un certo germe ghepardo
e la sua azione più di una volta risibile
riacquista famiglia da maschio
con moglie nerissima più figli di sette colori
ma ormai è stato orecchio, fronte, torace
un gluteo gemellato a quell'altro, il ginocchio
piegato sull’alluce, il mignolo, un pelo ritorto
da pubico, la voce sopra il labbro nasale
ritrova se stesso nel suo nome confetto
ricoperto in più strati di rosa e usa argomenti
mutevoli per dare ai suoi cari l'idea di un'ipotesi
flaccida che bisogna in tutti i modi disperdere
nei passaggi prodigarsi a disperdere ancora.


VIA SERBELLONI

L’onda era iniziata a Natale avvolta
nell’imballo traslucido lo stesso era il tavolo
lungo rimato per la monetina, la camera giocata
da indiani, le carni tra le castagne in cucina
sotto l’albero era cresciuta in silenzio ma
poi è arrivata la schiuma lo stesso era l’amore
imparato, l’idea di famiglia seduta, il tempo passato
negli occhi, un tappeto più grande ogni sala
un’onda soltanto intravista la schiuma leggera
finché ti ha raggiunto la bocca e noi insieme
ti abbiamo persa nel letto la tua voce di ossa ormai
a galla svanivi in quelle poche lenzuola solitaria
la mattina d’ottobre nell’acqua mescolata da mani
da subito si è dispersa la schiuma di un’onda
modesta a Milano basta poco si asciuga
la seppellisci con la sua medusa.


A BURIDANO2

Forse io non so scegliere
e potrei un giorno morirne,
sei tu a affermarlo
e ne sembri convinto,
rimarrei qui forse a aspettare
che la scelta si compisse da sé,
sei tu a insegnarlo
e non ne hai alcun dubbio,
e alla fine vincerebbe la fame
o una forma mortale di inedia,
sei tu a ricordarlo
lo ripeti e lo scrivi,
ma che dire del violento tepore del fieno
nella notte o la mattina d’inverno,
che sai dirmi del suo folle profumo
a insinuarsi nel sonno più ottuso
su, prova a dirmi dell’urgente colore
che si strugge in quei due cumuli accesi
e non si può che toccare, annusare
riguardare, riguardare
senza osare scegliere mai.



1I Barbapapà (“barbe à papà”, nome francese dello zucchero filato) , protagonisti di una serie a fumetti apparsa in Francia negli anni Settanta e poi realizzata in opere di animazione giapponesi, sono una sorta di “blob” a forma di pera di vari colori – il padre rosa, la madre nera, i figli variopinti – che modellano a piacimento il proprio corpo a seconda delle esigenze, trasformandosi in oggetti o esseri animati.

2A Giovanni Buridano, filosofo medioevale, è attribuito il paradosso secondo il quale se un asino venisse costretto a scegliere fra due cumuli identici di fieno, nell’incertezza finirebbe per morire di fame.





Mia Lecomte
è nata a Milano nel 1966, ma vive a Roma. Svolge attività critica ed editoriale nell’ambito della comparatistica, e in particolare della letteratura della migrazione: ha curato l’antologia Ai confini dei verso. Poesia della migrazione in italiano (Firenze 2006) e ha tenuto conferenze sull’argomento in Università italiane e straniere. Insegna nella bottega interculturale “Cantiere delle storie-Voci dell’Immigrazione” di Roma, promossa dal Premio Solinas e dalla Fondazione di Liegro.
Poeta, autrice per l’infanzia e di teatro, ha pubblicato: il saggio Animali parlanti. Le parole degli animali nella letteratura del Cinquecento e del Seicento (Firenze 1995); i libri per bambini La fiaba infinita e La fiaba impossibile (Torino 1987), Tiritiritère (Bergamo 2001); il volume fotografico Luoghi poetici (Firenze 1996), realizzato con il fotografo Sebastian Cortés; le raccolte poetiche Poesie (Napoli 1991), Geometrie reversibili (Salerno 1996), Litania del perduto/Litany of the lost (Prato 2002, testo a fronte in inglese; con incisioni dell’artista canadese Erica Shuttleworth, Autobiografie non vissute (Lecce 2004), Terra di risulta (Milano 2009). Suoi testi poetici sono stati pubblicati in antologie e riviste italiane e straniere. È redattrice del semestrale di poesia comparata «Semicerchio» e delle riviste letterarie online «Kùmà», «El Ghibli» e «Sagarana». Collabora a «Le Monde Diplomatique», inserto mensile del quotidiano «il manifesto».


velucia@tin.it