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Non tanto la Viareggio m’interessa né vedo cosa c’entri di Tobino l’esortazione a sorgere più bella, ove son le persone derubate del diritto di vivere la vita senza gli schiaffi tesi d’ogni vento. Non tanto le ragioni del disastro nel rischio d’emulare l’avvoltoio per scendere dal comodo giaciglio e darmi con gli angoli smussati. Sto sollevando veli sui bagliori nella città ferita, sulla notte dell’estremo dispiegarsi delle vele nel marasma stridente di rotaie. Mi muovo sotto lugubre silenzio sulla strada del musico Ponchielli, sapendo poco dire, cosa fare per contenere l’urlo, la pietà disseminate presso quelle bare dell’ultima strambata del destino.
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Anch’io sono cresciuto sul ferroso sferruzzare dei treni: ferroviere mio padre e ferroviaria la dimora eretta sui margini dei binari della vecchia Stazione. Così come egli prestava elettrico servizio alla sottostazione preservata appena dalla furia delle fiamme. E sento quel richiamo di risacca che spinge con crudezza nella mente. Non mi curo del clima avvelenato delle dispute ferree dell’inchiesta, volendo solo tessere congedi per gente sottomessa dall’agguato. Che parli la Viareggio dei crocicchi, quella d’aperto cuore, quella fiera d’appartenere, senza populismo, alla comunità meno distratta, la mia voce di libero cantore non seguirà che rotte del ricordo.
VIA A. PONCHIELLI
Davanti quelle case tramortite il marciapiede spaccia cancellati domani; tra sbrecciate palizzate avanza nell’irreale lo stupore di chi guarda spettrali panorami, laddove si snodavano vissuti la culla della pace controllata. Ed è bastato volgere le spalle ai lucidi binari di confine, per farne come lugubre trincea.
LORENZO, 2 ANNI E MEZZO
Come posso parlarti senza nome senza specchiarmi dentro le parole che cadono sul foglio come pietre. E come separare l’emozioni del mio cuore da quelle della testa e raggiungere nuvole lontane per portarti l’orsetto di peluche, sottratto dai pietosi alle macerie.
LUCA, 5 ANNI
Nell’assordante stridulo domani ricerco nel pulviscolo di stelle quelle di nuovo conio luminoso, dopo l’assurdo turbine di fuoco. Mi consola saperti con Lorenzo e con mamma nel cono della luce, che lascio nel lontano del futuro le voci dell’umano dissentire.
IMAN, 3 ANNI
Vedi, piccola Iman, si può andare oltre quel vento rosso che scompiglia i capelli, che brucia le speranze future d’innocenti creature. Si possono far nascere nell’arso i fiori della prossima stagione, per adornare labili dimore. Quelli del triste compito civile narrano – tra le lacrime sfuggenti – d’aver dovuto sciogliere l’abbraccio del disperato gesto di tua mamma nel vano tentativo di salvarti; ma forse tu cercavi quel rifugio compreso fosse l’ultimo concesso. Da tenero virgulto non sapevi che quella strada cinta dall’assedio dei treni, che facevano tremare in tempi stabiliti i pavimenti ed i vetri di casa, ti potesse far ghermire dal demone ruggente, come seccata fonte d’innocenza. Oggi nulla scalfisce la tua strada, non ci sono steccati divisori nella volta del cielo: le celesti nuvole son solcate dagli angeli e dai figli di Abramo; di quel Padre variante nell’insegne, con più nomi, seppur d’unico verbo traducente.
I FALORNI
Ed io non voglio certo separarli nel loro viaggio verso quell’estrema dimora, dove partono vascelli d’alato trapassare, tra svettanti grattacieli di nuvole. Verso luoghi di raduno, nel tempo, delle Lente Tartarughe: quel gruppo di centauri che li raggiungeranno nei momenti dell’ultima chiamata. Mi consola saperli caramente ricordati e dono loro l’attimo di storia cercando di rubare poca scena.
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