FILI D'AQUILONE
rivista d'immagini, idee e Poesia

Numero 17
gennaio/marzo 2010

Dissonanze

 

DISSONANZE STORICHE, I CONTI CON IL 1789

di Alessio Brandolini



Il 1789, a distanza di oltre due secoli, resta un momento cruciale per la storia europea e chiudere i conti con quell’anno non sarà facile: se ne scriverà ancora a lungo e difficilmente si giungerà a conclusioni nette, da tutti condivisibili. Questo perché fu un periodo tragico e complesso che non può essere racchiuso con la formula “l’anno della rivoluzione francese”: giorni intensi e tesi, segnati da un continuo alternarsi di speranza e paura. Non a caso il libro di Marco Testi sull’argomento, e che qui voglio segnalare, ha per titolo Tra speranza e paura: i conti con il 1789 (Giorgio Pozzi Editore, 2009, terzo volume della collana “La politica dei letterati” diretta da Piero Pieri), indagine tagliente ed efficace che all’analisi storica affianca quella letteraria per incunearsi nella letteratura italiana dell’epoca e di quella immediatamente successiva, ma legata sempre alla rivoluzione, a Napoleone, alle profonde mutazioni politiche innescate in Europa a partire dal 1789.

Il libro di Testi ha un sottotitolo che subito inquadra e ben delinea l’ambito della ricerca, Gli scrittori italiani e la rivoluzione francese. In effetti è così, pur essendo l’Italia divisa in tanti piccoli stati gli scrittori che qui vivono si sentono “italiani”, nonostante le divisioni politiche, e non soltanto per un fatto linguistico e culturale, ma per un’ideale di unione nazionale che molti studiosi del settecento avevano portato avanti nei loro eruditi scritti, con i loro studi ponderosi, le prime battagliere riviste, la loro cultura fortemente influenzata dagli ideali dell’illuminismo, come ampliamente attestato da Franco Venuturi nel suo fondamentale libro Settecento riformatore - Da Muratori a Beccaria (Einaudi, seconda edizione 1969).

Tutti gli scrittori italiani che avevano esaltato il 1789 si ritroveranno in seguito a rinnegare o quantomeno a ridimensionare l’entusiasmo iniziale per la rivoluzione. In tal senso la figura più significativa è quella di Vittorio Alfieri, testimone oculare di quei fatti, a Parigi proprio durante i giorni dell’assalto alla Bastiglia, dovendo seguire la pubblicazione di alcune sue opere. Allora “a caldo” scriverà Parigi sbastigliata in cui esalta l’eroica impresa e giustifica la ferocia degli assalitori, che fecero scempio dei corpi dei difensori lanciando la moda di issare le teste tagliate su pali per poi portarle in processione (“Cruda, ahi! ma forse necessaria insegna, / vedeva io poi con gli occhi miei sua testa / sovra lunga asta infissa / ir per le vie...). Il popolo tradito e affamato mette in atto la propria vendetta, per questo Alfieri parla di “necessaria insegna”, ma la ferocia non si ferma lì, in un comprensibile sfogo che poi sapientemente ripiega nell’alveo riformista ma, al contrario, dilaga rapidamente in tutta Parigi, in Francia, in Europa. Scorreranno fiumi di sangue, centinaia di teste verranno tagliate, anche in luoghi sperduti e lontani da Parigi. Monaldo Leopardi nella Autobiografia (scritta nel 1824) racconta di una processione nel centro di Recanati con varie teste tagliate, questa volta di francesi, e una di esse “aveva ancora un resto di vita, e contorceva la bocca e gli occhi”.

Alfieri dopo l’iniziale entusiasmo comincia a temere per la propria vita; il torrente straripa, impazzisce, sembra proprio che la folla voglia far fuori tutti i nobili e i ricchi e lui faticherà per uscire, in fretta, da Parigi. Poi i francesi verranno in Italia, a scardinare i vecchi principi feudali, certo, ma anche per depredarla e imporre le proprie leggi. Così l’odio dell’Alfieri sfocia nel famoso Misogallo, pubblicato nel 1799, ovvero “Colui che odia i Galli”, una ritrattazione, con “somma vergogna”, dei giudizi positivi espressi in un primo momento. Il sommo astigiano tornerà su quei fatti nella Vita scritta da esso stesso, dove i rivoluzionari vengono ora considerati dei miseri “manigoldi” e “scimiotigri”. Non è solo la violenza a far inorridire il poeta, ma il potere preso dal popolo, un popolo che agisce d’istinto e con crudeltà, spesso in modo irrazionale, inconsapevole, così da rinnegare gli stessi principi illuministici basati sulla ragione, il buon senso, la conoscenza. Qui si tocca un punto nevralgico perché in molti poi, non limiteranno le critiche agli eccessi rivoluzionari e napoleonici, compiuti in abbondanza dappertutto (v. in Spagna), ma anche ai filosofi dei lumi, colpevoli di aver “abbagliato” con i lumi della loro “ragione” il popolo ignorante e, quindi, aver illuso coloro che volevano migliorare lo stato delle cose. Marco Testi riporta nel libro alcuni sonetti in cui Giuseppe Gioacchino Belli condanna i giacobini come assassini, ma invita anche a sbarazzarsi senza pietà di tutti coloro che contrastano il potere costituito: “Chiameli allibberali o fframmasoni / o carbonari, è sempre una pappina: / è sempre canajjaccia giacubbina / da levàssela da li cojjoni”. Tutta “una pappina”, tutti uguali, così come poi lo saranno i mazziniani e già si comincia a parlare di “complotto” massone-carbonaro-giacobino.

L’indagine di Testi è appassionante, sempre sorretta dai testi originali, dalle fonti; si citano brani degli autori (tra i quali i fratelli Verri, Vincenzo Cuoco, i fratelli Pindemonte, Giuseppe Parini, Ugo Foscolo, Alessandro Manzoni, Vincenzo Monti, Carlo Botta, Giuseppe Giocchino Belli) e il libro incrocia con sapienza la storia alla letteratura. Se tutti gli intellettuali italiani dovranno frenare/cancellare gli iniziali entusiasmi per il 1789 non mancano sottili sfumature. A un Belli rassegnato che vede pessimisticamente ogni cambio come un modo per peggiore la situazione si può accostare, per contrasto, un pacato e lucido Parini, stabile nell’idea di un cauto riformismo moderato che unisca cristianesimo umanitario e il meglio dell’illuminismo: progresso scientifico, lotta alla miseria e alle superstizioni.
A parte meriterebbe un discorso Ugo Foscolo, sebbene avesse soltanto undici anni nel 1789, perché al di là dell’ode A Bonaparte liberatore (1797), in seguito da lui modificata, scriverà un gustoso ritratto dell’epoca, quel Sommario della vita di Pio sesto in cui il poeta di Zante dimostra un’approfondita conoscenza della vita politica del suo tempo e pur rimproverando molto ai francesi non risparmia gli italiani, incapaci di unirsi e di combattere assieme per un’Italia libera e democratica.

Testi approfondisce nel suo studio molti aspetti legati alla speranza e alla paura che incendiarono la Francia e poi l’Europa a partire da quel fatidico anno dell’assalto alla Bastiglia, lo fa con competenza e passione di chi investiga nelle pieghe della storia e sono molte le sorprese che qui s’incontrano: quella di un Alessandro Verri, fondatore del Caffé e amico fraterno di Cesare Beccaria, che nello scritto Vicende memorabili dal 1789 al 1801 rinnega i principi dell’illuminismo, i suoi antichi maestri e attacca frontalmente la stampa, “che diffonde rapidamente nel mondo le opinioni: rimane perciò incerto giudizio se di così illustre invenzione il pericolo sia minore della utilità”; di un Vincenzo Monti meno ambiguo di quel che pensassimo, dove titubanze e paure sono viste nell’ambito sociale incerto e in rapida mutazione anche se, come sottolinea Testi, il passaggio di Monti (che aveva scritto la famosa Bassvilliana, ferocemente antifrancese) dalle classe colta romana a quella napoleonica non offre un bello spettacolo, anche perché quel cambio politico si appoggiava sul disprezzo degli ideali che egli stesso avevo nutrito qualche anno prima.

Nelle conclusioni finali Marco Testi affronta un fatto che nel contesto potrebbe sembrare secondario, ovvero quello linguistico: il linguaggio italiano in quegli anni subisce una rapida trasformazione. Scrive Testi:

... il graduale abbandono di purismi e di preziosismi fini a se stessi aveva lentamente favorito l’ingresso di un linguaggio sostenuto da lemmi mutuati dalla realtà, dal mondo del lavoro, della scienza, dall’economia, dal popolo, da altre lingue.
In questo modo la lingua francese, in quel momento piegata a istanze espressive anti-liriche e con finalità prevalentemente referenziali, diviene non più soltanto il veicolo, ma alla fine la struttura stessa di pensiero attraverso la quale si dispiegava la modernità.
Gli stessi avversari del francese in Italia, come Napione o Barretti, dovevano comunque ammettere che quella lingua era per quel momento l’unico modello disponibile per una comunicazione chiara e capace di articolarsi secondo i nuovi strati sociali cui si rivolgevano i mezzi di comunicazione.
Fatto non da poco. Se una lingua si evolve in questo senso, se si amplia la comunicazione è già di per sé un fatto rivoluzionario perché mette in crisi la concezione elitaria del potere. Alla fine delle campagne napoleoniche gli scrittori italiani si erano distaccati sia dagli eccessi rivoluzionari che dai principi illuministici che avevano dato il via ai fatti del 1789, anche se poi questi avevano preso una piega del tutto inaspettata per i tolleranti e colti filosofi. L’edificio nuovo tanto desiderato dagli enciclopedisti non era stato costruito perché la lotta per il potere aveva dimostrato che essa non si nutre di ragione, ma di sangue.
Negli scritti dei nostri letterati di quell’epoca abbondano sfiducia e amarezza, in alcuni casi duro distacco (A. Verri) e cinismo (Belli), eppure le reazioni a quegli eventi bene analizzate e approfondite nel libro di Marco Testi mostrano l’intima speranza in un rinnovamento etico e sociale (in molti documenti si discute del potere temporale della Chiesa, di corruzione, di incapacità a comprendere i bisogni delle classi popolari...). C’è maggiore interesse e partecipazione ai fatti storici e politici; una più intensa consapevolezza dell’Italia, come patria e nazione; la sincera indignazione per i linciaggi, le violenze, i soprusi. Cambia la nostra lingua, si scioglie e si fa più concreta, si trasforma la figura dell’intellettuale: più vicino al popolo che alla corte, più (faticosamente) coraggioso. Foscolo nel 1815 non giura fedeltà al restaurato regime austriaco e, rinunciando a benefici e tranquillità, fugge in Svizzera in “volontario” esilio, per poi raggiungere l’Inghilterra e morire povero, nel 1827, nel piccolo sobborgo londinese di Turnham Green.

Marco Testi, Tra speranza e paura: i conti con il 1789, Giorgio Pozzi Editore, Ravenna, 2009, pagg.167, euro 15,00.




Marco Testi
è nato a Tivoli nel 1952 e ora vive in Sabina. È stato docente a contratto di Letteratura Italiana presso l’università di Cassino e conduce da molti anni ricerche sulla concezione di spazio nella letteratura italiana e sui rapporti tra scrittura e arti figurative tra fine Ottocento e primo Novecento. Nel 2007 è uscito il volume "Altri piani, altre valli, altre montagne - La deformazione dello spazio narrato" in «Con gli occhi chiusi» di Federigo Tozzi (Pensa Multimedia), che analizza la scrittura “cubista” e visionaria di Tozzi. Altri suoi volumi: Il romanzo al passato. Medioevo e invenzione in tre autori contemporanei (Bulzoni, 1992), Frammenti d’Occidente. La scrittura tra mito e modernità (La voce del tempo, 2003), sul rapporto tra concetto di tradizione e letteratura moderna. In Una città come mito (Chiccha, 2000) e nei suoi libri su Ettore Roesler Franz e i viaggiatori-artisti del Gran Tour, ha approfondito il rapporto tra simbolismo, scrittura e immagine. Ha pubblicato saggi su Michelstaedter, Pirandello, Croce critico letterario, i rapporti Campana-D’Annunzio, Caproni, il simbolismo del castello medievale nella narrativa contemporanea, Landolfi, Garrone e altre figure della letteratura italiana. Collabora con le pagine culturali di quotidiani e riviste internazionali.


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