Ascoltate. A trent’anni, quando m’innamorai di Vito, ero sposata, avevo due figli piccoli e una conoscenza per lo più letteraria, quindi vaga, della passione.
All'improvviso, poi, Vito sparì e io mi scoprii irrimediabilmente sola nella vastità del desiderio. Per non restarne schiacciata, uccisi in me la moglie e la madre. Sembra incredibile, eppure riuscii a sopportare che la Lucia sopravvissuta fosse quasi identica a quanto di me vedevo riflesso nello specchio.
Senza più Vito, fu come se un lupo famelico avesse cominciato a ringhiarmi dentro, e io lasciai che mi divorasse le interiora pur di mantenere inalterata la fisionomia. Non era facile, eppure funzionò: per gli altri ero sempre la stessa. Né gli occhi innamorati di Luigi, né quelli fiduciosi di Martino e di Arturo notarono mai nulla. Solo io mi sapevo incompleta: un castone senza pietra, lo spazio vuoto al posto di qualcosa. Un’imperfezione tollerabile.
Inginocchiata sull’aiuola delle fresie e degli anemoni, Lucia affonda la zappetta accanto ai gambi; poi, con un gesto che conosce a memoria, fa leva. La zolla si sgretola, i fiori più vicini oscillano; odori umidi accolgono la sua mano guantata che scende a mettere ordine. Un luglio tanto piovoso non s’era mai visto. Le malerbe, nutrite dallo stallatico dei fiori, sono spuntate incontenibili, e ora il primo sole di agosto le rende rigogliose.
Grazie a instancabili esperimenti, favoriti dai quattrocento metri di altitudine del podere, Lucia ha selezionato qualità così tardive di fresie e di anemoni da averne in fiore anche in piena estate. Potrebbe andare fiera del successo, soprattutto se pensa alle numerose difficoltà incontrate per ottenerlo, ma il ricordo della sua tenacia, anziché gratificarla, le causa uno schiacciante senso di vuoto. Come ha potuto appassionarsi a certe inezie? Si sente meschina, per questo, meschina e detestabile.
Mi accorsi di non poter fare a meno di Vito dopo aver letto dell’arresto. Perché simili certezze nascono solo dalla mancanza? Che c’entrava poi lui col terrorismo? Bastava ascoltarne la mitezza della voce, o guardare i suoi modi rispettosi, per capire che la polizia doveva essersi sbagliata.
Istintivamente covai l’illusione che nulla fosse ancora perso. Una volta che Vito avesse riottenuto la libertà - e doveva essere subito (per evasione, per comprovata innocenza, qualunque cosa andava bene purché fosse) - io, per seguirlo, avrei lasciato Luigi, Martino e Arturo. Avrei ferito a morte marito e figli? Non potevo farci nulla. Era il lupo a decidere, a spingermi avanti, a ululare in me, affamato.
Lucia afferra un ciuffo di gramigna e tira piano. Sa che le radici vanno estirpate intere, perché basta lasciarne anche una piccola parte che quelle in poco tempo si riproducono. Ha sempre piantato i fiori secondo certe simmetrie elementari, e ora si accorge che il suo modo di fare giardinaggio segue le stesse regole geometriche con cui compone il cibo da servire a tavola. Dio mio! L’insolenza pomposa di quei suoi piatti di portata! Come ha fatto a non rendersi conto di quanto fossero simili ai motivi ornamentali delle riviste di cucito e di ricamo con cui a lungo sua madre ha cercato di addomesticarle le passioni?
Scrolla la gramigna finché le radici rimangono pulite, lunghe e leggere come ciocche di capelli anziani. Non diventerò mai vecchia, pensa con freddezza; poi ripone le radici in un sacchetto, e rincalza la terra attorno ai gambi delle fresie.
In poco tempo, con una velocità insolita per la giustizia italiana, al processo fece seguito la condanna che, in assenza di appello, divenne definitiva. Fu lungo quel poco tempo eppure a me parve solo un’unica apnea alla fine della quale seppi di poter vivere anche senz’aria.
Se provavo a immaginare Vito lo vedevo murato vivo, lontano e irraggiungibile come un paesaggio dipinto. Io invece rimasi unita a una testarda voglia di vivere di cui ignoravo l'estensione.
Il lupo se ne andò lasciandomi in dono la sua fame dai canini forti, dalla lingua lunga e penzoloni, una fame affannata, feroce, ottusa, che mi obbligò spesso a stare immobile e zitta, come le bestie.
Poi, con una determinazione che non sapevo di possedere, convertii la catastrofe in un progetto di vita altrettanto forte che Luigi, ignaro, accettò senza indugi, e di lì a nove mesi nacque Iacopo.
Lucia alza gli occhi e vede il marito: col secchio delle granaglie in mano, aspetta Martino allontanando le galline che gli beccano le scarpe. Appena il figlio è entrato nel pollaio, Luigi chiude l’uscio, gli porge il secchio e rimane a guardarlo mentre lancia i chicchi e fa con la bocca il verso: “Pirulu pirulu pirulu pio pio pio…” lo stesso che echeggia al tramonto, nel silenzio dei poggi.
La prima volta che Lucia lo aveva sentito, si era domandata da dove giungesse quell’acuta voce di donna. Tutt’intorno era deserto, a parte gli sbuffi di fumo su un piccolo tetto all’orizzonte. Possibile che arrivasse da così lontano? Una voce più forte del latrato dei cani, più segreta del canto del cuculo. Martino l’aveva subito imparata.
Quando Vito apparve, Luigi si trovava a Bitonto per il restauro della Cattedrale. Io, come ad ogni primavera, mi stavo dedicando ai fiori. Passare dal terrazzo di città ai cinque ettari del podere era stata un’esperienza così vertiginosa che l’entusiasmo iniziale si era mutato presto in una sorta di febbrile occupazione a tempo pieno.
Dopo un anno tra quelle colline disabitate riuscivo a conoscere tutti i fiori spontanei. Primule, viole, ciclamini, rose canine, ranuncoli, papaveri, fiordalisi, presero a scandire, come un calendario, il passaggio dei mesi, il cambio delle stagioni. Vito apparve proprio mentre rincasavo con un gran mazzo di fiori di campo.
Lucia passa alla fila accanto e riprende a zappettare. Avverte il profumo delle fresie, il sole sulla pelle, l’aroma umido delle radici scoperte.
Curva sui gesti di quella fatica, le sembra che il pomeriggio sia scivolato in un tempo sospeso che non la obbliga a orientarsi.
È come se ciò che vede, tocca, odora, ascolta, arrivi a fissarsi in lei senza collimare con i tratti del grande disegno interiore al quale tutte quelle percezioni sono solite riferirsi.
Si sente simile a certe foto a colori mal stampate sulla rivista di giardinaggio, col rosso che deborda da una parte, l’azzurro da un’altra, il giallo da un’altra ancora. Zappetta con maggior lena, estrae dalle zolle radici e radici di malerbe, spinge nuova terra attorno ai gambi di fresie e anemoni.
Rincasavo con un gran mazzo di fiori di campo quando vidi un uomo che mi chiamava gesticolando dal ponticello sul torrente. Ferma a un passo dalla porta di casa, lo guardai avvicinarsi; ero tranquilla. Istintivamente, strinsi solo con più forza i fiori.
L’uomo era magro e pallido; capelli castani, lunghi e mossi, pettinati all’indietro, vestito non proprio da campagna. Prima che avesse il tempo di dirmi alcunché, mi parlò con gli occhi: una luce scura, profonda come lo sguardo, raggiunse in me qualcosa di dolorosamente intimo. Poi il rito delle parole, quel corollario al tempo stesso inutile e fondamentale di suoni e senso dopo il quale non si può più dire di non sapere: si chiamava Vito, Vito e basta, e abitava alle Rolle, una cascina isolata dall’altra parte del bosco. La sua auto non andava in moto, aveva bisogno di telefonare a un meccanico, io per caso avevo un telefono?
Mentre sistemavo i fiori in un vaso, Vito mi si rivolse con quella frase lì per lì incomprensibile: “Sa che lei mi fa pensare a Carlotta” e intanto prese a sfogliare la guida del telefono. Poi, dopo essersi appoggiato stancamente alla parete con aria rassegnata, aggiunse: “Ha letto Le affinità elettive?”.
Sì che lo avevo letto, ma non capii lo stesso l’allusione, e subito mi venne voglia di rileggerlo per scoprire quanto ci fosse di mio.
“È per via dei fiori” aggiunse lui portandosi la cornetta all’orecchio “mi sembra che li amiate allo stesso modo”.
Dritta sulle ginocchia, Lucia si asciuga la fronte con l’avambraccio e guarda il lavoro compiuto.
Fresie e anemoni, allineati a file alterne, risaltano sul marrone della terra sarchiata. Cos’hanno di diverso da quelli dell’anno prima?
Nello stesso momento in cui si pone la domanda, sa perfettamente che anche il prossimo anno saranno uguali. Come scorrerebbe la sua vita se qualcosa di molto diverso spezzasse il cerchio di queste certezze?
Lascia cadere la zappetta, si sfila i guanti e li sbatte fra loro prima di incastrarli sotto la cinta della tuta.
Poi si allunga il più possibile verso destra e, sforzandosi di non piegare i fiori, con la punta delle dita riesce ad afferrare il cesto di vimini.
Vito tornò l’indomani, a metà mattina. Arturo a scuola, Martino all’asilo, io in un punto luminoso del piccolo mondo senza tempo nel quale mi sembrava di abitare da sempre. Avevo desiderato quella visita? Me l’aspettavo? In fondo non avevo fatto nulla perché lui tornasse; a parte il giorno prima, appena Vito era andato via, riconoscere il suo odore nell’aria, cogliere sul telefono residui tepori della sua mano. Ma già di sera, tra le coperte, avevo pensato che non volevo costruire nulla su quell’episodio sfuggente come un fantasma. Io, in fondo, avevo ben poco a che fare con Carlotta, e non avrei riletto Le affinità elettive.
“C’è nessuno?” chiamò Vito, fermo davanti alla casa. Dalla porta aperta entravano vento e odori. Per ringraziarmi della telefonata mi aveva portato in dono due piante di rosa da mettere a dimora. “Sono di una qualità antica” disse sfiorando con le dita una foglia come per salutarla.“Fanno fiori semplici, giallo chiari”. Poi, guardandomi intensamente, aggiunse: “Chissà se le vedrò fiorire”.
Lucia prende le forbici dalla tasca della tuta e avanza carponi tra le file colorate tirandosi dietro il cesto di vimini. Avvicina le lame aperte al gambo, sente lo scatto metallico, vede la fresia reclinarsi nella sua mano, e la mano che la depone nel cesto. Un’altra fresia, un’altra, un’altra ancora. Poi gli anemoni. Finché il cesto è pieno.
Riempire, sempre riempire. Questo ormai vuole, da anni, più di ogni altra cosa. Riempire il cesto di vimini, il vaso di coccio, il sacco della spazzatura, il lavello della cucina e la vasca da bagno, la teglia per il forno, e il tempo, il tempo lunghissimo che attrae e minaccia stagnando eterno da un secondo all’altro.
Fra tanto riempire, che tutto sommato le riesce abbastanza bene, dove non smette di incontrare difficoltà è proprio con il tempo.
La sera in cui avevo ricevuto in dono le due piante di rosa Luigi mi telefonò da Bitonto. “Tutto bene?”. “Tutto bene”. Andai a letto tardi e non chiusi occhio: Vito, Vito, Vito. Non trovavo risposte alle domande che ero stata incapace di rivolgergli e che ora mi guizzavano nella testa come i pipistrelli, di sera, attorno alla casa.
Perché, indicando le rose, aveva detto chissà se le vedrò fiorire? In realtà non volevo sapere niente di lui. Mi bastava pensarci, averlo in me, presente e incerto; senza identità (a parte un nome improvvisamente bello), senza passato o futuro. Mi abbandonai al desiderio fino a provarne sgomento. Dio mio, ma di cosa ero capace? Non avevo più vent’anni! Poi mi addormentai e chissà cosa mi capitò di sognare.
L’indomani, dopo che il pulmino della scuola ripartì con Martino e Arturo - ciao ciao agitando la mano - calzai gli anfibi e m’immersi a testa bassa nel bosco. Ombra fresca, sole, cinguettii, sentiero già folto di erbe nuove, sentiero chiuso da vitalbe e ginestrelle.
M’inchinai ai corbezzoli, ai cerri. Aggirai ceppaie di quercioli, rovi frenanti, rovi di spine, dolore sulla pelle. Dovetti rallentare ma non mi fermai. Impossibile, impossibile fermare.
Passi lunghi su zampe improvvise, saltellai con mosse di lepre, sguardi palpitanti tra il fogliame, lunghe orecchie nel fondo dell’ascolto, occhi di lepre per annusare il richiamo, naso sempre mobile fremente, agile nell’ansia di arrivare, pestai terra, fragole, bestiole.
Dopo, dopo, dopo ragionare, dopo penserò a tutto, dopo, dopo, adesso solo andare, solo andare, non folto di erbe che rallenti, non graffi di dolore non lamenti, solo andare adesso, solo andare... Non avevo quasi più fiato quando infine mi fermai davanti alle Rolle.
“Ti aspettavo” mi disse Vito accogliendomi. Il letto era fresco, umido; così deserto da spingermi a cercare un rifugio, una tana in quel caldo corpo sconosciuto. Solo dopo mi accorsi di aver tenuto gli anfibi ai piedi.
Lucia si siede sui talloni e guarda, a sinistra, il fronte di colline oltre cui c’è Todi; davanti, l'imbocco della valle e, più distante, in basso, la pianura confusa di foschie. Percepisce l’aroma del proprio sudore e ricorda come, da bambina, sua madre le imponesse dosi massicce di sapone e di deodoranti per fronteggiare quello che considerava uno sgradevole inconveniente.
Aveva subìto a lungo quelle imposizioni poi, un’estate dei sedici anni s’era risvegliata da un sonno pomeridiano tutta sudata e con la sensazione di aver vissuto qualcosa di dolce. La città riposava; anche le case, l’aria e la polvere sonnecchiavano nella penombra di tutto quel silenzio.
S’era toccata un’ascella, aveva odorato, assaggiato. Non sembrava sgradevole, anzi. L’emozione era cresciuta e con essa il desiderio di gesti che le corrispondessero. Aveva preso a carezzarsi le braccia, il seno, la pancia. Piano piano s’era abbandonata alla sensazione di toccare il corpo di un’altra, di essere toccata dalla mano di un’altra; convinta da quella duplice fantasia, aveva acconsentito che tutto si svolgesse secondo il disegno di un incontro nuovo. Anche quello era amore.
Esce dal giardino col cesto pieno di fiori e si dirige verso casa. Con gli occhi fissi davanti a sé vede avvicinarsi la sagoma oblunga di quella solida costruzione di pietre a vista della quale lei e Luigi si erano subito innamorati, e che avevano ristrutturato con grande cura. La vede avvicinarsi col leggero su e giù tremolante dei passi, e ha la sensazione che, invece di abitare nel proprio corpo, stia vedendo la scena di un film ripresa in soggettiva. Che genere di film può essere il suo?
Benché non avessi mai tradito Luigi, non mi sentii in colpa. Non mi parve neanche di aver messo in pericolo il matrimonio. Riflettendo tra me e me - come mi capitava di fare per lunghi interminabili momenti - scoprii che il mio stato d’animo non somigliava affatto a quello di un’amica di Roma, che aveva vissuto una situazione analoga.
Lei era stata mossa dalla noia e dal gusto del proibito, e in fin dei conti non aveva rischiato altro che un cattivo impiego del tempo. Per me, invece, era stato diverso.
La disperazione di quello sconosciuto mi aveva messo in contatto con la mia capacità di sofferenza, una capacità rimasta a sonnecchiare tra equilibri muliebri e materni più che soddisfacenti finché non si era risvegliata di colpo in quella forma gigantesca, rivelando nel contempo un’avidità e un piacere smisurati.
Vito aveva in sé qualcosa di eccessivo, come le lampadine che, prima di fulminarsi, per un po’ diventano luminosissime. Attratta da quell’energia effimera, la feci mia per dilatare il più possibile l’istante che precede la fine. Ce l'avrei fatta?
In cucina, Lucia sistema le fresie e gli anemoni nel vaso bianco, poi vi aggiunge tralci di vitalba e spighe di avena selvatica. Inclinando la testa, valuta la composizione. È bella ma qualcosa non torna. Le sembra di non saper più abitare nei suoi gesti. Vede l’accostamento dei fiori come un mistero inspiegabile di cui coglie l’armonia ma senza sentirla veramente. È vero, l’aspetto arruffato di alcuni anemoni è in perfetto accordo con la grazia delle fresie ma l’accordo avviene altrove, in un punto fuori di lei che ormai non la tocca più.
Martino entra in cucina e rimane impettito, silenzioso; come sempre, dopo aver dato da mangiare ai polli assume atteggiamenti da grande, e questo lo rende buffo. «Perché hai rotto i pezzi di fiore?» le domanda sospettoso, indicando sul ripiano le spuntature dei gambi.
«Così stanno meglio nel vaso» fa Lucia.
La risposta non scioglie la sua diffidenza. Martino sta un attimo a pensare poi esclama: «Posso prendere i pezzi di fiore? Li porto a Checca».
«Ma tesoro, le tartarughe non mangiano i gambi dei fiori».
«Checca non li mangia mica, a lei gli piace averceli tutti intorno».
Sollevando i lembi della camicia a mo’ di sporta, Martino vi fa scivolare le spuntature ed esce chiamando per nome la tartaruga. Lucia lo segue con lo sguardo, finché non scompare dietro il fienile. Rimane a guardare l’erba cresciuta tra le pietre del vialetto; con apprensione, come se quei fili lunghi, radi e di un verde tenero, nascondessero un pericolo. Poi strizza la spugna e pulisce il ripiano.
Sì, forse è vero: invece di vivere, sta vedendo un film il cui senso le è incomprensibile. Anche se non riesce a definirne il genere, è sempre più convinta che si tratti di un film senza protagonista.
Si china davanti al forno. Attraverso il vetro, vede il pollo sprofondato nel letto di patatine. Sembra cotto. Spegne il gas e regola la griglia elettrica. Mette il vaso coi fiori sulla madia, illuminata dal sole già basso.
Davanti alla luce radente, avverte come un peso nel petto, un’espansione interna che le toglie il fiato. Poi qualcosa le corre sotto pelle, lungo la spina dorsale, fino a sciogliersi nella nuca in un sospiro. Annusa l’aria.
Dopo la posa del pavimento di olivo, a lungo la cucina ha odorato di legno e vernice. Col tempo, tanti altri odori si sono aggiunti stratificandosi sulle cose come una sorta di memoria olfattiva nella quale, a volte, riesce a penetrare. Le narici vibrano appena e lei percepisce stuoie dismesse, tappeti che non ci sono più, vecchie giunchiglie, l’essenza di trementina di quando Luigi aveva lo studio in casa, il pitosforo in fiore dell’estate prima, anni e anni di fienagioni, le due rose gialle che incorniciano l’entrata... Quelle rose!...
Vito, che secondo i giornali risultava coinvolto con un gruppo terroristico vicino alle Brigate Rosse, fu arrestato a Roma poco dopo essere sparito dalle Rolle. Ricostruita la sua presenza in zona, i carabinieri interrogarono i vicini in un raggio di chilometri. Per Luigi - quasi sempre a Bitonto, allora, e all’oscuro di tutto - fu semplice dare risposte convincenti.
Io invece mi dovetti impegnare molto per trovare parole che non mi tradissero. Per fortuna nessuno mi aveva visto entrare o uscire dalla casa incriminata durante le settimane in cui ogni mattina, come una lepre pazza, avevo percorso a capofitto il bosco per sprofondare nel mistero di quel letto umido e fresco dove un calore sempre sconosciuto mi sospendeva la vita.
La lepre spiccava il balzo e, come per magia, restava a mezz’aria dilatando l’estasi dell’ascesa, la vertigine della caduta. Fino all’ultima volta, quando avevo trovato la casa deserta, e il letto, a vederlo così vuoto, mi aveva tolto il respiro. Era morta su quel pavimento di mattoni sconnessi, la lepre, fiutando un pericolo che non aveva saputo evitare.
Al ritorno avevo visto un bosco diverso. Persa l’agilità, avevo sbagliato strada un paio di volte, mi ero impaurita di certe ombre troppo fonde seguite a certe luci troppo forti. Avevo sentito su di me un odore selvatico, doloroso. Impigliata in sensazioni fameliche, avevo fissato l’intrico di tronchi e cespugli con la gialla accidia che solo i lupi sanno avere in fondo agli occhi.
Un altro tramonto, pensa Lucia guardando dalla finestra il sole sulle querce del crinale, il campo di lupinella, il vigneto, i pioppi del fossato. Un soffio tiepido le alita sul viso muovendole appena i capelli. Quando una paura indefinita le fa contrarre la gola, volge altrove lo sguardo.
Si allontana dalla finestra e sale al piano superiore. Sente la voce di Luigi, poi quella di Arturo; vengono dalla camera dei ragazzi. Attraverso lo spiraglio della porta accostata sbircia dentro senza farsi vedere. Seduto sul pavimento, Iacopo sta erigendo con le costruzioni uno strano edificio ad archi rovesciati e tegole sui davanzali. Capelli biondi sugli occhi scuri, sguardo concentrato, si morde il labbro ogni volta che aggiunge un pezzo e l'intera struttura ondeggia, lì lì per crollare. Riflessi nello specchio a parete, vede Luigi e Arturo; seduti sul più basso dei letti a castello, fanno un gioco col vocabolario.
«Vediamo se sai cos’è... il tigone» dice Arturo al padre coprendo la pagina con le mani. Il suo viso aperto e luminoso, gli occhi vivi e distanti tra loro, i lisci capelli a caschetto, le belle labbra appena dischiuse in un accenno di sorriso. Già grande, Arturo, eppure così simile a quando è nato.
Luigi si gratta la testa mentre ripete perplesso quella strana parola. A Lucia, tigone fa venire in mente la cucina; pensa che può trattarsi di un utensile simile al tegame ma destinato ad usi particolari. Lo paragona, come importanza, alla leccarda.
Prima di venire in campagna non sapeva neanche cosa fosse una leccarda; ora, invece, ne possiedono una di rame, appesa sul camino accanto al paiolo della polenta. Il rigattiere l’aveva blandamente spacciata per antica, ma il prezzo modesto e la perdita della patina dopo la lucidatura avevano svelato la sua vera età.
La prima volta che se n’erano serviti avevano avuto l’infelice idea di inaugurare in un sol colpo spiedo e camino. Il tiraggio della canna fumaria purtroppo era difettoso e, per non soffocare, la cottura era andata avanti con porte e finestre aperte. Ricoperta di maglioni, gli occhi irritati, Lucia aveva resistito ore nel gelo fumoso della cucina passando e ripassando sull’anatra un rametto di rosmarino intriso del grasso che colava nella leccarda.
«Ti arrendi?» dice Arturo sbirciando ora il vocabolario ora il padre. Luigi fa segno di sì.
«Allora, il tigone è...» e prende a leggere «animale ibrido non fecondo, prodotto dall’incrocio di una tigre maschio con una leonessa...».
Lucia non è sicura di aver capito bene; poi, dopo aver ripetuto più volte tra sé e sé la parola tigone, tutto le è chiaro. Tig viene da tigre, one da leone. Chi l’aveva coniata aveva voluto evidenziare il carattere ibrido dell’incrocio inserendo nel nome riferimenti agli animali d’origine. Immagina per un istante la tigre maschio che monta la leonessa. Avverte sensazioni ruvide che non le piacciono. Pensa la parola incesto.
Tornai solo un’altra volta nella casa dall’altra parte del bosco benché fossi certa che l’avrei trovata vuota. Ma dovevo leggerlo quel vuoto, interrogarlo fino a che non mi avesse dato una risposta su Vito diversa da quanto già avevo saputo dai giornali e, indirettamente, dalle domande dei carabinieri.
Assieme stavamo sospendendo la fine alla quale lui sembrava condannato; perché allora interromperla così di colpo quella sospensione? Ciò che ci scambiavamo durante l’amore esisteva solo nel tempo del nostro incontro, era l’eternità accolta nelle poche ore, qualcosa che per restare viva non doveva essere neanche pensata. Mi ero forse concessa qualche fantasia impropria? O c’era dell’altro, oltre la sconfinata capacità di soffrire in cui avevo scelto di avventurarmi?
Il vuoto della casa non mi disse nulla. Gli odori dell’interno erano terribilmente uguali alle altre volte, e poiché Vito odorava come la casa, chiusi gli occhi per respirarne meglio la vicinanza.
Mi sdraiai anche sul letto per vedere la camera dalla stessa prospettiva in cui la vedevo oltre gli abbracci con lui. Ma senza il corpo di Vito a occuparne una parte, tanto spazio libero mi diede le vertigini.
Poi, uscendo, mi trovai davanti una sconosciuta. Stava lì, sull’aia, con la sua faccia rugosa da vecchia lappone, il falcetto incastrato nella corda che le stringeva in vita la veste scura, i capelli nascosti da un fazzoletto che sembrava ritagliato dalla veste, e mi guardava, immobile, seria.
Col cuore in subbuglio per la sorpresa balbettai qualcosa e la vecchia, sollevando una mano, puntò un dito ritorto alla sua sinistra e disse solo “Abito lì”.
Di colpo tutto mi apparve semplice, come se quelle due parole avessero contenuto il senso di un’evidenza inconfutabile grazie alla quale potei liberarmi della paura. La casa indicata dalla vecchia mi ricordò qualcosa di già visto, e presto la riconobbi come quella lontana da cui partivano gli acuti richiami per i polli che Martino aveva subito imitato.
Senza bisogno di altre parole, solo fissandomi con i suoi occhi opachi, la vecchia mi disse che sapeva tutto: di me, di mio marito e dei miei figli, degli incontri con Vito dei quali non avrebbe fatto parola con nessuno. Del resto aveva già taciuto con i carabinieri, con tutti; anche con me, in fondo, stava tacendo, non disse nulla di esplicito, e se riuscii a comprenderla fu solo perché sapevo a mia volta.
Poi, bruscamente, mi strinse la spalla con la sua forte mano ossuta e sparì nel folto del bosco lasciando dietro sé un breve riflesso sulla lama del falcetto. Mi parve che a toccarmi fosse stata una sorta di divinità, e tornando a casa seppi, con sollievo, che grazie al benvolere degli dei sarei rimasta ancora a lungo su quella terra, premio e castigo di qualcosa che mi sfuggiva ma della cui giustezza non dubitavo.
«Che strano» dice Luigi indicando il vocabolario.
«Perché strano? Sono palloni» ribatte Arturo.
Luigi si scopre la fronte all’attaccatura dei capelli, una fronte ampia e liscia sotto cui precipita un viso magro sostenuto dalla solidità degli occhi scuri, un viso scavato che è l’emblema stesso del corpo asciutto che lo sostiene. «Vedi questa cicatrice?».
Arturo la tocca. «Come te la sei fatta?».
«Avevo circa quindici anni e giocavo da centravanti nella squadra della scuola... Esistevano, allora, due tipi di palloni: uno a lacci e uno a spina...».
Lucia smarrisce presto il filo delle parole e, fissando il viso del marito, scivola piano in un ricordo. Stava da poco con Luigi quando, infine, aveva trovato il coraggio di andare a conoscere la futura suocera.
Dopo i convenevoli, pieni di sguardi indagatori, era rimasta da sola in salotto ma, contrariamente alle aspettative, non se l'era sentita di guardarsi attorno. Per quanto aveva visto, tutto le appariva vecchio e definitivo. Più che una casa le sembrava un museo in cui avevano vissuto per anni una vedova di guerra, un orfano e un mito.
Poi s’era accorta di quella foto a colori sul pianoforte che ritraeva Luigi non ancora ventenne.
Che delicatezza struggente nei suoi tratti! Certo, il Luigi di cui s’era innamorata possedeva ben altro fascino; ma lì, in quel tempo già trascorso e incorniciato d’argento, in quel viso illeso, nei capelli pettinati con la riga da una parte, viveva uno scintillio misterioso, insopportabile.
Sopraffatta dal dolore, era dovuta correre in bagno a diluire il pianto nell’acqua, a massaggiarsi lo sterno indolenzito, lì dove pigiava la certezza che tutta la sconosciuta innocenza di lui fosse definitivamente persa. Tornata in sala, la futura suocera le aveva rivolto uno sguardo di compiaciuta superiorità.
La sera successiva all’incontro con la vecchia del falcetto, riuscii a imbalsamare il dolore dopo aver visto in televisione, tutta sola, un noioso dibattito sulla crisi della famiglia.
In un turbinare di cifre e parole senza senso seppi di non essere, come credevo, carne viva privata di sensibilità, corpo vuoto delle cui interiora un lupo s’era nutrito fino a saziarsi.
Ero un elemento di quel quattordici per cento di donne italiane per le quali il tradimento non si era concluso con la fine del matrimonio. Facevo parte del ventidue per cento di donne che tradivano il marito benché laureate. Mi domandai anche, ma senza particolare apprensione, se avessi dovuto collocarmi nel quarantuno per cento di casi in cui il tradimento è reciproco o non piuttosto nel cinquantanove per cento di quelli unilaterali.
Tra tante infedeltà - a me stessa, a Luigi, in parte anche ai figli - ero almeno fedele alla mia nicchia statistica; sostenevo, senza troppa fatica, un pezzo della società italiana del mio tempo.
«...noi usavamo il pallone a lacci» sente dire da Luigi «perché costava di meno... i campioni, invece, usavano quello a spina...». Arturo guarda il padre a bocca aperta, scruta ogni punto del suo viso bevendone modi e parole. Ha tredici anni Arturo, Arturo è grande, Arturo le somiglia, più degli altri due figli. Gliel’hanno sempre detto, ma solo adesso se ne accorge.
Adesso vede quel viso delicato preso dal racconto del padre, la luce del tramonto e l’intimità tra i due. Vede lo specchio che li riflette dando loro una forza e una certezza ulteriori. Iacopo lancia un urletto, e con le manine aperte si prepara a ripararsi dal crollo; ma l’incongrua costruzione ondeggia di qua e di là finché trova un suo equilibrio e rimane in piedi: storta, insondabile.
«E viene il giorno della partita col Tasso» dice Luigi «la finale del torneo. Per l’occasione prendiamo in affitto un vero campo… Dopo mezz’ora di gioco, arriva questo passaggio dalla destra» e con le mani Luigi descrive una lontana traiettoria «io salto più in alto del portiere e con la testa colpisco il pallone di striscio proprio sul laccio della cucitura. Ne viene fuori un tiro ad effetto che entra in porta come una trottola. Corro felice verso i compagni quando, di colpo, non ci vedo più; negli occhi cola un liquido caldo che non può essere sudore. Mi fermo e sento gli altri che dicono oddio, guarda Luigi che s’è fatto, s’è sgusciato la fronte, gli si vede l'osso. Allora mi rendo conto di avere la faccia coperta di sangue e, molto poco eroicamente, svengo... Morale, l’impatto col laccio del pallone m’è costato quattro punti».
«E la partita?».
«È finita in parità... si doveva ripetere ma poi c’erano le vacanze, e ci siamo persi di vista. La cosa strana, vedi» e indica la pagina aperta «è che il pallone disegnato qui è a lacci... vedi la cucitura. Il disegno è vecchio almeno... di vent’anni».
Arturo guarda con attenzione. Passa il dito sulla carta, gratta appena con l’unghia, e ne viene fuori un rumore rugoso, come di cuoio indurito. Poi alza gli occhi sul padre. «Il vocabolario è nuovo» gli dice «e però il disegno rappresenta una cosa molto vecchia... Allora se il passato sembra presente e uno non se ne accorge che gli succede? Che uno invecchia più velocemente?...».
Il crollo della costruzione è soffice e improvviso, l’esatto contrario del pianto di Iacopo che inizia coi toni del sottile lamento e sale spietato fino a un’intensità difficilmente attribuibile a un bimbo di due anni. Lucia sente che la penombra in cui è immersa la opprime.
Le parole di Arturo, poi, sono entrate in lei con violenza. Il passato che sembra presente... invecchiare prima. Detesta quella saccente verbosità; tutto il padre nella pignola propensione a usare le parole come se non fossero anche taglienti. Percepisce l’immagine di una lepre e quella di un lupo; entrambe sbiadite. Poi vede la cella di un carcere, la sola rimasta al mondo; e dentro la cella, un uomo che si libera della sua condanna correndo piano verso la morte.
Si nasce solo dopo il dolore, sussurra in lei una voce sapiente. Prima di ritrarsi dalla porta, le sembra che i profili di Luigi e di Arturo siano identici. Sono assieme, loro, sono assieme, dice tra sé e sé col risentito stupore delle conferme.
Ma ora niente ha più senso e sono stanca. Il peso del tempo è insostenibile e mi rassicura sapere che non dovrò subirlo ancora a lungo. Qui tutto è così normale e schiacciante e senza via d'uscita che non lascia altra scelta. Ma “qui” è ovunque, e per me non esiste altrove in cui rifugiarmi. Non ho niente a che vedere con Carlotta, e avere amato Le affinità elettive non mi colloca per forza tra i romantici, anche se forse ne sto seguendo le conclusioni. Vorrei dire qualcosa di più personale a Luigi, a Martino, a Iacopo, ad Arturo, ma temo che ogni parola sarebbe di troppo, e poi sono sicura che sentiranno; sì, loro sentiranno che non potevo fare altrimenti. Tra lupi l'istinto funziona.
Lucia scende le scale frastornata ripetendosi che ha quasi trentacinque anni, e non sa perché se lo ripetete con tanta insistenza. In cucina vede le impronte di fango sul piantito; vanno verso l’angolo della televisione. Rannicchiato tra i cuscini colorati, Martino guarda un cartone animato. Non si accorge di lei, tutto preso dallo scontro tra macchine, robot, super eroi.
Lucia sta per dirgliene quattro sul fango lasciato in giro, sulle scarpe da casa che non si ricorda mai di calzare, sta per chiedergli qualcosa che però non ricorda più, e allora lascia perdere.
I cartoni a quell’ora, comunque, non vanno bene. Prende il telecomando e mentre dice a Martino: “Ti ricordi i patti?” (e la sua voce le risuona terribilmente falsa) fa per spegnere il televisore, ma sbaglia tasto, cambia canale e finisce su immagini di rovine fumanti, di morti, di soccorsi caotici. Coglie solo alcune parole, pronunciate con la voce più grave che abbia mai sentito: “Stazione di Bologna… esplosione… attentato… decine e decine di morti…”.
No, no, basta, pensa aggrottando la fronte mentre schiaccia con tanta energia il tasto per spegnere che teme di averlo incastrato irrimediabilmente nel telecomando. Vede Martino immusonito tra i cuscini: è un estraneo. Viene avvolta dall’odore di arrosto e spegne la griglia. Prende una tovaglia pulita dal cassetto.
Un fagiano canta in lontananza. Lucia guarda fuori: solo qualche nuvola sul bosco già carico di notte, impenetrabile. Si allontana dalla finestra. Davanti alla tavola di ciliegio si perde nel gioco leggero delle venature, dei nodi, delle forme nate per caso dall’accostamento delle assi, dai segni dell’uso.
Sono cambiate quelle forme, e ora la superficie del legno pare animata da un brulichio che procede nel senso delle fibre come un fluire di storie senza inizio e senza fine, una saga di donne sole che di corsa vanno avanti, sempre avanti; un’epopea inarrestabile di donne e di animali che in un battito di ciglia iniziano e finiscono le loro lunghe esistenze senza tracce.
Scorge momenti di vita futura, e distoglie gli occhi per dimenticarli subito; intravede momenti passati, e non vuole riconoscerli. Apparecchiata la tavola, si chiuderà in bagno a scrivere la sua lettera, e non scenderà più. È giusto che cominci a mancare già dalla cena. Tenendo la tovaglia per un’estremità, con gesto deciso la lancia davanti a sé. La vede volare lenta e docile, poi gonfiarsi in tutta la sua ampiezza mentre cala sulla tavola come un mantello d’angelo, e la copre di bianco, la profuma di pulito.
fabiociriachi@libero.it
Vedi anche, su questo numero, Fabio Ciriachi, Soprassotto di Alessio Brandolini.
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